martedì 25 febbraio 2020

Gnoli intervista Giovanni Codevilla

Giovanni Codevilla Quanti segreti ha l’anima russa 
di Antonio Gnoli 22/2/2020 Robinson
Mi aveva colpito la copertina di un libro intitolato Il terrore rosso sulla Russia ortodossa: un grasso pope dalla barba rossiccia in groppa a una vecchia contadina, a quattro zampe, costretta a pregare davanti a un’icona.
Nell’Unione sovietica degli anni Venti era facile imbattersi in vignette dissacranti della propaganda antireligiosa. Non abbiamo riflettuto abbastanza su che cosa accadde nel periodo che seguì alla rivoluzione del 1917 e mi sembrò che Giovanni Codevilla, l’autore di quel libro a me sconosciuto, avesse alle spalle diverse e approfondite ricerche sul periodo.
Codevilla è un signore che ha insegnato per 40 anni diritto canonico a Trieste. Nato per caso a Nervi, vive a Milano dove lo incontro in un giorno di pioggia. Ha al suo attivo una storia in quattro volumi sulla Russia, ha studiato i rapporti tra Stato e Chiesa nell’Unione sovietica e ora ha pubblicato questo libro sul terrificante decennio che seguì la rivoluzione (i suoi libri sono tutti editi da Jaca Book). Ha una bibliografia possente ma concentrata, quasi ossessivamente, su quel mondo che fin dall’inizio ha deciso di studiare. Mi dice che quello che ha fatto e che continua a fare (cioè occuparsi della Russia) è la cosa giusta. Se si fosse occupato di francobolli non sarebbe stato altrettanto maniacale, osservo. Mi guarda da sotto le scomposte sopracciglia e dice che la filatelia (parola bellissima) non implica nessuna adesione alla morale, cosa che invece ha guidato la sua ricerca sulla Russia.
Come le è nata la passione per la Russia che, a ben guardare, non è una semplice passione letteraria?
«Di solito ci si appassiona alla letteratura russa e non c’è niente di più meritorio ed esaltante che entrare in quel vasto territorio di pensieri, riflessioni, personaggi, stili che l’hanno resa grande. Il mio interesse, vista anche la mia formazione, si è concentrato sulle istituzioni, sulle regole che vigono e che nel tempo sono state radicalmente cambiate. Spesso producendo drammi o tragedie inenarrabili. Però la prima seria attenzione per quel mondo si legò a una delusione».
Ci spieghi.
«Cominciai a studiare il russo nel 1959; poi, nel 1961, mi capitò tra le mani il libro di Herbert Prauss Eppure non era la verità, che descrive criticamente la sua esperienza comunista nella Germania Orientale. Quella lettura suscitò in me il desiderio di approfondire la conoscenza del mondo comunista e della Russia in particolare, soprattutto dopo il primo viaggio nel 1963».
I suoi studi però non erano legati a quel mondo.
«In un certo senso lo erano. Mi sono laureato in giurisprudenza alla Cattolica di Milano con Orio Giacchi, insigne studioso di Diritto canonico ed ecclesiastico, con una tesi sui rapporti tra Stato e Chiesa nell’Unione Sovietica. Negli anni universitari cominciai a frequentare il Centro studi Russia Cristiana, fondato a Milano nel 1957 da padre Romano Scalfi, con la presenza fondamentale del biblista Enrico Galbiati».
Che finalità aveva il Centro?
«Quella di stabilire e potenziare un dialogo interreligioso.
Pochi sanno che la rivista Russia cristiana – diretta da Galbiati – conteneva gli scritti della dissidenza sovietica».
I famosi samizdat.
«Per la prima volta comparvero in Italia nomi della dissidenza tra cui Vladimir Bukovskij, Andrej Sinjavskij, Iosif Brodskij. Pochi in Europa conoscevano l’esistenza di quel mondo, i rischi che vi si correvano, le persecuzioni cui si andava incontro. Scalfi tenne per anni i contatti andando anche in Urss».
Lei che Paese vide?
«Arrivai nel 1963, c’era ancora Krusciov, nessuno allora sapeva che era in corso una lotta per il potere che si concluse l’anno dopo con la sua defenestrazione. Mosca e Leningrado mi colpirono per l’ordine, la pulizia e l’efficienza della metropolitana. Erano città vetrina che dovevano apparire modelli di modernità».
E la gente?
«Ricordo le code ai negozi e i curiosi che avvicinavano il mio gruppo — ero insieme a dei giovani studenti europei — che desideravano conoscere la nostra provenienza.
C’erano anche numerosi borsari neri — i fartsovshchiki — che acquistavano impermeabili leggeri che chiamavano, non so perché, "Bologna", e jeans allora considerati merce rara e preziosa. C’erano anche agenti in borghese addetti al servizio di sicurezza».
Erano minacciosi?
No, mi sembravano più che altro pedine del sistema. Ne ricordo uno in particolare: un georgiano che ci mise in contatto con un giovane poeta, attratto dai temi religiosi. Evitava di parlare con noi di politica, ma questo non lo risparmiò dall’azione repressiva del Kgb che lo convocò vietandogli ogni contatto con gli stranieri».
Aveste delle noie?
«Ci fu solo un lungo e minaccioso articolo sulla
Komsomol’skaja Pravda che accusava me e altri compagni di viaggio di ficcare il naso nelle cose russe! In realtà, io mi interessavo solamente della situazione della Chiesa, ma questo per la Russia sovietica significava occuparsi di politica».
Lei ha parlato nel suo libro non di semplice repressione ma di terrore rosso. Come si manifestò?
«Il primo atto fu nel novembre del 1917 con la pubblicazione della Guida per l’istituzione del tribunali rivoluzionari il cui scopo era la repressione e l’uccisione dei nemici del popolo. Il loro potere divenne enorme tra il 1917 e 1925. Per diversi anni fu perfino soppressa la facoltà di giurisprudenza e sostituita da quella di Scienze sociali.
Era chiaro come il diritto non avesse più spazio nel progetto della nuova società».
Fu coinvolta anche la Chiesa?
«Fin dall’inizio il potere sovietico perseguitò sacerdoti e monaci. C’è un’ampia documentazione sui crimini perpetrati nei riguardi di esponenti della chiesa. All’inizio l’accusa più ricorrente era di aver pregato per i cosacchi.
La pena era la fucilazione. Trotskij fece fucilare, dopo un processo farsa, il vescovo di Sarapul. Lo stesso giorno, il 9 agosto 1918, Lenin scrisse la seguente nota: "Applicare senza pietà il terrore di massa contro kulaki, pope e guardie bianche, rinchiudere i sospetti in campi di concentramento fuori città"».
C’era in corso una guerra civile.
«Non c’è dubbio. Ma i decreti rivoluzionari consentirono, nel giro di poco tempo, di mettere a morte, solo su Mosca e Pietrogrado, migliaia di persone, molte delle quali prese in ostaggio: funzionari e ufficiali zaristi, sacerdoti, monaci, attivisti religiosi, aristocratici, impresari e uomini di affari. Nella maggioranza dei casi l’accusa era di aver favorito la controrivoluzione».
L’obiettivo qual era?
«Attraverso un’aggressiva campagna ateistica reprimere o cancellare ogni traccia religiosa e sostituirsi alla Chiesa. Il nuovo potere era consapevole delle profonde radici religiose del popolo russo. Sradicarle non era facile».
Quando dice che il potere sovietico si sostituì cosa intende?
«Ne sposò i rituali e l’atteggiamento fideistico e infine mise il Partito al posto della Chiesa. Perfino nei brindisi si esclamava "Gloria a te o Partito!" invece che Gloria a te o Signore. Anche nel funerale comunista, al momento del ricordo delle virtù del defunto, il partito era la divinità cui ci si rivolgeva con deferenza e commozione».
Perché a un certo punto si attenua la repressione verso la Chiesa?
«La situazione negli anni Trenta si normalizzò.
Apparentemente la religione finì di esistere. Il mondo russo era compiutamente ateo. In realtà non fu così.
Stalin se ne rese conto nel momento in cui i tedeschi invasero l’Unione sovietica».
Che accadde?
«Ci fu l’appello al patriottismo e Stalin intuì che la religione poteva contribuire a rafforzare lo spirito unitario. Convocò il metropolita al quale, in cambio dell’aiuto, promise la riapertura delle chiese. Era il segno evidente che la spiritualità russa, così radicata nel popolo, non era stata estirpata».
Quali sono le radici di questa spiritualità?
«Le radici sono bizantine ma la tradizione è il monachesimo russo. Mentre il clero si lega al potere i monasteri proteggono l’autentica spiritualità. La prima grande minaccia avvenne con Pietro il Grande che volle occidentalizzare la Russia, ma la scristianizzò soltanto».
Fu una figura di riformatore.
«Fu un uomo contraddittorio, stravagante, pieno di eccessi. La parola riformatore non va intesa nell’accezione odierna. Voleva togliere certe arretratezze sociali. È vero. Modernizzò la Russia facendo uso della violenza estrema. Sono famose le sue stanze segrete dove venivano applicate le più diverse torture. Infine abolì il patriarcato sostenendo che non ci potessero essere due sovrani».
Dal suo punto di vista non aveva tutti i torti.
«Ma il risultato fu che l’ortodossia religiosa risultò essere l’autentico regno della libertà. Oltretutto, occorre capire che la teologia russa non era quella costruita da Tommaso d’Aquino».
Cosa vuole dire?
«Che il pensiero russo non ha molti punti di contatto con la logica occidentale. Quando Tommaso rielaborò i valori teologici in modo razionale, la Russia era sotto il dominio tartaro che va dal 1247 al 1480. Ci fu un sostanziale isolamento della Russia dall’Occidente, proprio nel momento in cui l’Europa rielaborava il proprio pensiero in termini sistematici. Un russo non si serve facilmente delle nostre categorie logiche. Non dirà mai è vero perché è vero; dirà: è vero perché è bello».
Questa conclusione apre a due personaggi straordinari: Dostoevskij e Florenskij.
«Lo sono in senso assoluto. Entrambi — uno sul piano narrativo l’altro facendo coesistere religione e attività scientifico-pratica — sono figli di una teologia poco occidentale. Ma questo vale anche per gran parte degli scrittori del dissenso».
Vedo che lei ha una parete della sua casa arredata con numerose icone. Florenskij scrisse in proposito parole definitive.
«La sua dedizione alla pittura nacque dal tentativo di ridimensionare l’arte italiana del Rinascimento, così protesa a esaltare i valori individuali dell’artista. Per un pittore di icone la libertà artistica è minima. Come nella liturgia di un canto o di una messa anche l’artista è parte di una costruzione più grande».
Lei è un credente?
«Lo sono, certo. E ho apprezzato la liturgia ortodossa, molto più ricca dei nostri rituali, spesso monotoni. Ho sposato una donna russa, con passaporto americano.
Passai del tempo a Belgrado nel 1973 e divenni amico di Milovan Gilas, che era stato braccio destro di Tito e poi cadde in disgrazia. Le sue analisi sulla degenerazione burocratica del comunismo si rivelarono profetiche. Fu un uomo affabile e semplice. Non capiva tuttavia la mia adesione alla fede ortodossa».
Le capita di tornare in Russia?
«Non vado da diversi anni».
Si parla di una nuova alleanza tra politica e religione.
«Credo sia nel disegno strategico di Putin e non a caso, come consigliere spirituale, ha scelto Shevkunov. Anzi più che un confessore è il suo ideologo. Oggi in Russia si ripropone il tentativo di riunire potere statale e spirituale».
Shevkunov è un sostenitore dell’idea della "Terza Roma", cioè del nuovo sogno imperiale.
«Nella versione medioevale la "Terza Roma" doveva salvare il mondo dall’eresia, dai nemici della fede e dall’immoralità e in quella contemporanea combatte per gli stessi scopi, e per riunificare tutto il mondo nell’unità contro i padroni della globalizzazione, che vogliono disgregare l’umanità e dominarla, cancellando i valori morali tradizionali e rendendo tutti gli individui dei soggetti controllati dalla tecnocrazia e dalla finanza».
Anche un cieco vedrebbe che potere oligarchico e finanza, teocrazia e tecnocrazia sembrano nell’attuale Russia molto più alleati che in contrasto. Non crede che attraverso l’idea di un regno ortodosso sia in atto un nuovo imperialismo?
«Penso proprio di sì! Basti pensare agli ottimi rapporti tra Putin e gli oligarchi che hanno saccheggiato e continuano a saccheggiare la Russia. La concentrazione della ricchezza accumulata senza ritegno e in modo disonesto è incredibile!».
Quindi siamo all’ennesimo fallimento dell’alleanza tra spiritualità e potere politico?
«La vera spiritualità in Russia si trova da sempre nei monasteri. È lì che si incontrano gli startsy, maestri di vera spiritualità e lontani dalle cose del mondo».
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