martedì 25 febbraio 2020

Nostalgistan. Un altro viaggio nelle fu- repubbliche sovietiche

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Tino Mantarro: Nostalgistan. Dal Caspio alla Cina, un viaggio in Asia centrale, Ediciclo, Portogruaro, pagg. 208, € 15

Bel viaggio nei brutti Stan
Turismo alternativo. Le repubbliche post-sovietiche dell’Asia centrale (Turkmenistan, Kazakistan eccetera) offro luoghi dissonanti, periferie degradate e palazzi fatiscenti
Claudio Visentin Domenicale 23 02 2020

I viaggiatori indipendenti non si fanno certo dire dove andare dalla pubblicità turistica (altrimenti non sarebbero indipendenti). Seguono piste appena tracciate, segni sfuggenti, sotterranee inclinazioni... O almeno piace loro pensare che sia così; e pazienza se dopo essere partiti ciascuno per conto proprio, un po’ furtivamente, si ritrovano poi tutti negli stessi posti.
Le mete predilette sono quasi sempre Paesi decorosamente poveri, dove viaggiare con poche risorse, ragionevoli disagi, pericoli solo all’apparenza. Qualche decennio fa l’Eldorado era l’America centrale e meridionale. Poi cominciò la lunga stagione del Sud-est asiatico, con la Thailandia di The Beach (il libro di Alex Garland dal quale fu tratto un fortunato film con Leonardo Di Caprio). In fondo quella stagione non si è mai conclusa, anche se oggi i più intraprendenti guardano piuttosto verso il Vietnam o il Laos.
Da qualche tempo tuttavia si avverte un interesse crescente per gli Stan (un suffisso etnico, di origine persiana, che vuol dire «Paese di»), le repubbliche centro asiatiche spuntate dopo la dissoluzione dell’Impero sovietico: Turkmenistan, Uzbekistan, Tagikistan, Kirghizistan, Kazakistan.
Va detto però che, in senso stretto, gli Stan forse neppure esistono. A fine Ottocento i Russi hanno gradualmente conquistato queste terre popolate da diversi clan nomadi, forzandoli alla vita sedentaria. Nel 1924 poi Stalin creò le cinque repubbliche socialiste autonome da cui discendono gli odierni Stan, disegnando i loro confini con un tratto di penna, senza curarsi troppo della coerenza e unendo sotto la stessa bandiera popolazioni diverse. Per fare solo un esempio 5% degli abitanti della capitale uzbeka Tashkent sono coreani, trascinati attraverso tutta l’Asia e confinati qui. E quindi un’eredità di tensioni etniche, profughi, purghe, epurazioni, persecuzioni dei credenti musulmani e di chi semplicemente possedeva qualcosa (kulaki), migliaia di morti.
Inoltre, nonostante il suffisso comune, sono Paesi molto diversi tra loro: il Kazakistan per esempio è decisamente più grande e ricco dei suoi quattro vicini (grazie alle riserve di petrolio e gas); mentre il piccolo Kirghizistan, con le sue alte montagne e gli impianti di sci, è una specie di Svizzera atterrata tra i deserti d’Asia.
Ma poi, perché mai qualcuno dovrebbe voler visitare Paesi così?
Certo qui già al tempo di Marco Polo si intrecciavano i diversi rami della Via della Seta, con i loro fantastici caravanserragli dove i mercanti si scambiavano merci, idee, fedi. E quelle remote memorie storiche sembrano riprendere vita da quando l’espansione commerciale cinese cerca di sostituirsi all’ormai evanescente dominio post sovietico. Il perno di questa strategia è Kashgar, un tempo estremo occidente della Cina, affacciato su Kirghizistan e Tagikistan, a 4.200 chilometri da Pechino. Un antico proverbio diceva che «le montagne sono alte e l’imperatore è lontano»; il primo messo imperiale cinese nel II secolo a.C. ci mise tredici anni per andare e venire, ma ora i collegamenti con la Cina – autostrade, treni, aerei – sono rapidi ed efficaci.
Certo ci sono centri come Bukhara, la città sacra dei musulmani d’Asia con le sue trecentosessanta moschee e le cento scuole coraniche. O ancora la leggendaria Samarcanda, sempre in Uzbekistan. E in effetti qui qualche gruppo di turisti si incontra sempre più spesso. Ma perché spingersi oltre, come ha fatto Tino Mantarro in un riuscito libro di viaggio dedicato a questi Paesi? Perché misurarsi con troppa burocrazia, continue richieste di denaro da parte di doganieri, poliziotti e militari, poco inglese, scarsa accoglienza negli alberghi ex Inturist, una cucina monotona dominata dal montone? Perché aggirarsi tra centri storici ricostruiti e degradate periferie punteggiate da fatiscenti palazzi prefabbricati? Non a caso il libro s’intitolava dapprima Tutta la tristezza che mi merito.
La risposta potrebbe essere che una nuova estetica sorregge questo viaggio, una fascinazione per il mondo ex comunista. In Germania Est lo chiamano Good Bye Lenin Tourism, di nuovo dal titolo di un film fortunato del 2003, altri parlano di Dark Tourism: «Quest’estetica di terre in rovina, questi luoghi dissonanti, mai lindi, mai ordinari, a volte oggettivamente brutti. Paesaggi immensi, spesso estremi, spazi aperti di sovrumana grandezza. Luoghi dove nulla è a posto, dove a ogni angolo c’è qualcosa di inaspettato, malmesso e improvvisato. Dove vivono persone incastrate dalle giravolte del potere, sconfitte dalle ideologie, travolte dalla fine dei sogni. Posti dove l’eccentricità non è una posa, ma la regola».
Un’esperienza da ricordare e gustare pienamente dopo un adeguato intervallo, col senno di poi: «Tra qualche mese, sarà stata una grande avventura: i ricordi sono selettivi e lo sporco scivolerà via». D’altronde, come ha scritto Sylvain Tesson, «viaggiare significa portare in giro la propria delusione».
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