lunedì 9 marzo 2020

Telò intervista Judith Butler, dal femminismo postmoderno alla nonviolenza

Per un femminismo senza confini
  A colloquio con Judith Butler. L’intellettuale racconta il suo nuovo lavoro sulla non violenza, si sofferma sul movimento «Ni una menos» e propone alle donne un’alleanza che superi le barriere nazionali
Mario Telò Domenicale 8 3 2020
L’appuntamento con Judith Butler, a Berkeley, è nel caffè di un museo dalla metallica estetica postmoderna. Butler è, tra i filosofi viventi, una delle più eminenti e influenti voci al mondo: una pensatrice che fonde liricamente problemi di etica, politica, e psicoanalisi, oltre che una coraggiosa attivista femminista e queer. È sempre stata in prima linea in battaglie impopolari e pericolose - le posizioni anti-sioniste a difesa della causa palestinese che ha assunto da ebrea praticante le hanno procurato il bando da Israele. Con il libro Questione di genere (Laterza 2013) ha teorizzato l’instabilità e costruzione sociale dell’identità di genere, influenzando migliaia di persone e aiutandole ad accettare le infinite complicazioni dell’apparente semplicità binaria uomo/donna.
Nella tradizione della teoria critica della scuola di Francoforte, la filosofia è per Butler - che ha ricevuto il premio Theodor Adorno, oltre a dodici titoli honoris causa - uno strumento di azione e cambiamento sociale. Davanti a una tazza di caffè conversiamo del suo nuovo libro (il numero 23), La forza della non violenza (Verso 2020), ma anche di femminismo, e dell’8 marzo.
«La cosa più importante per me è che cominciamo a parlare di non violenza in termini non semplicemente di moralità individuale ma di rapporti sociali», spiega Butler, per la quale ogniqualvolta commettiamo atti di violenza, spezziamo il legame che ci tiene uniti come abitanti dello stesso pianeta. Mentre Hannah Arendt ritiene che quello che ci lega gli uni altri è una serie di obblighi reciproci, La forza della non violenza si chiede se sia possibile concepire la nostra interdipendenza come base degli obblighi degli uni verso gli altri.
Questa nozione di interdipendenza sviluppa idee di libri precedenti, in particolare Strade che divergono (Cortina 2013), Vite precarie (Postmedia Books 2013), L’alleanza dei corpi (Nottetempo 2017). Per Butler, c’è violenza e crudeltà nell’implicita valorizzazione di alcune vite a scapito di altre praticata dall’egemonia politica europea e nordamericana, un’egemonia fondata sul diniego della propria precarietà. «Alcune popolazioni – va avanti con tagliente serietà - sono considerate degne di compianto o lamento più di altre. Nel pensiero dominante ci sono vite che non hanno alcun valore, la cui perdita non è considerata una vera perdita. È una forma sottile di diseguaglianza che il movimento “Black Lives Matter” ha portato al centro dell’attenzione». Per la filosofa non ci può essere effettiva non violenza se non nel riconoscimento di bisogni (un tetto, cibo) comuni a tutti.
«Quando barche che attraversano il Mediterraneo ricevono il no della comunità europea, chi rifiuta di assisterle - e qui Butler non manca di menzionare l’Italia - non immagina che potrebbe essere in quella condizione. A volte, il migrante è visto come un elemento distruttivo. L’idea è quindi di distruggere questo elemento distruttivo prima che possa entrare nel Paese. Ma in questo modo il Paese diventa distruttivo. E una volta messa in circolo, tale distruzione è destinata a ritornare e ritorcersi contro, in un modo o nell’altro».
Nel nuovo libro, l’autrice scrive che «la femminilità è identificata con il supporto offerto da una madre. Mi oppongo, ovviamente - precisa - al disconoscimento e allo svilimento della femminilità. Allo stesso tempo, non credo che la responsabilità di prendersi cura dell’altro debba ricadere esclusivamente sulle donne. C’è il rischio di ricollocarle in ruoli tradizionali; abbiamo bisogno di maggiore equità sociale nel pensare a come varie identità di genere possono offrire appoggio l’una all’altra». Fa l’esempio delle comunità di cura emerse negli Stati Uniti e in Europa nel corso della crisi dell’Aids, e di simili strutture formatesi in varie parti del mondo in risposta a malattia e povertà.
Il movimento Ni Una Menos, che ha diffuso in tutto il Sudamerica la protesta contro il femminicidio, è particolarmente importante per Butler. «Ho cominciato ad apprendere del femminicidio in Costa Rica, dove ho incontrato varie femministe che mi hanno descritto la situazione dei diritti umani in America Latina. Quello che mi ha colpito di Ni Una Menos è il numero di persone portate nelle strade - tre milioni un anno e mezzo fa». Il movimento sta cercando di cambiare la cultura di un mondo in cui la violenza contro donne, persone queer e trans è vista come un dato insormontabile. «C’è rabbia, ma anche vulnerabilità. È un movimento anarchico, che, grazie ai suoi numeri, riesce a spingere la polizia fuori dalla strada. Nessuno si può muovere su quella strada quando ci sono così tante donne».
Impegnata a creare un circuito transnazionale di teoria critica, Butler è entrata in contatto con i movimenti femministi e queer di tutto il mondo. «In Sudafrica - racconta - ho incontrato un gruppo che cercava di difendere donne lesbiche attaccate di notte e sottoposte a stupri con funzione di conversione all’eterosessualità. Questo gruppo aveva sviluppato un incredibile sistema per aiutarle a muoversi da un posto all’altro, e raccogliere le loro storie». C’è qualcosa di radicale nel chiedere non riforme, ma semplicemente uno spazio di esistenza, nel reclamare il diritto di una presenza fisica. Riferendosi alle femministe che in Cile danzano e protestano contro lo stupro, Butler commenta che «questa non è una procedura legale, o un referendum, è un altro modo di cambiare la percezione generale di questi problemi».
Sulla polemica contro la cosiddetta “ideologia gender”, l’intellettuale americana si esprime con pacatezza. «Un’“ideologia gender” in quanto tale non esiste. È il fantasma agitato dai reazionari per attaccare il femminismo, i movimenti Lgbtq, i diritti di libertà ed eguaglianza. Ci viene assegnata un’identità quando nasciamo ma questa non ci dice chi siamo o come vivremo. Capisco che la libertà fa paura, ma è una libertà collettiva, e deve essere garantita da movimenti inclusivi e transnazionali».
Proprio la giornata dell’8 marzo le fa ribadire «che la categoria “donna” non è fissa, che le donne trans sonodonne, e che il femminismo non può essere transfobico. Se lo è, mette in atto una forma di discriminazione contro i suoi principi».
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