martedì 13 ottobre 2020

Un'antologia di testi di Claudio Pavone

L'eterna "zona grigia" vera autobiografia della nazione italiana
I temi cari a Claudio Pavone in un'antologia dei suoi scritti
Giovanni De Luna Stampa 13 10 2020

Claudio Pavone è stato uno dei maggiori storici del '900 italiano. A restituircene oggi tutto lo spessore è un'antologia dei suoi scritti, Gli uomini e la storia, curata da David Bidussa per Bollati Boringhieri (pp. 240, € 18). Si tratta di cinque saggi, usciti tra il 1964 e il 2000, in grado di riproporre con efficacia molti dei temi a lui cari: l'interpretazione della Resistenza anche come guerra civile, ma non solo. Nei testi sfilano altri argomenti che ci interrogano rispetto alla nostra attualità. Quello della «zona grigia», ad esempio, intesa come una sorta di autobiografia della nazione, un fiume carsico che affiora nel fascismo, nell'Uomo qualunque, in alcune componenti della Dc, nella prima Lega di Bossi, fino ad alimentare molte delle correnti confluite nel populismo e nel sovranismo di oggi.
Pavone documenta i vari slittamenti semantici del termine che - usato da Primo Levi ne I sommersi e i salvati - è passato dall'indicare l'inquietante contiguità tra padroni e servi stabilitasi nel Lager a un significato più complessivo, che negli anni 90 avrebbe assunto un giudizio critico sulle «scelte attive» che – dopo l'8 settembre '43 - innescarono la lotta armata contro i tedeschi e i fascisti. In questo senso, viene citato molto opportunamente Rocco Buttiglione che, in un articolo sul Tempo (19 settembre 1992), discutendo dei «fini» e del «senso» della lotta partigiana, contrappose, al mito della Resistenza che «esalta come suo protagonista il combattente armato, politicamente cosciente, che prepara nella lotta contro i fascisti la rivoluzione comunista», una idea ben diversa, che metteva in rilievo «l'elemento del popolo italiano che vuol sopravvivere e riprendere la sua esistenza nazionale. Esso si esprime nello sforzo di moderare la violenza dello scontro che va distruggendo il Paese, di garantire il rispetto, pur nella lotta, di alcune regole elementari di umanità e di onore, di salvaguardare beni culturali ed economici essenziali per la futura ricostruzione». Era una interpretazione della Resistenza che ne cambiava radicalmente i protagonisti. «Io credo», scriveva ancora Buttiglione, «che il modello di questo tipo di Resistenza sia il vescovo defensor pacis che impetra misericordia per gli ostaggi e difende i perseguitati (tutti i perseguitati e non quelli di una parte sola)».
Per Pavone questo tentativo esplicito di delegittimare la «scelta» come regola di comportamento morale era un attacco diretto all'antifascismo, ritenuto obsoleto, ingombrante, inutilmente discriminatorio, in un mondo politico in cui i valori diventavano sempre più imbarazzanti e si preferiva rifugiarsi nel comodo mondo degli interessi, considerati di per sé asettici. La «zona grigia», quella della non scelta e del limitarsi a guardare senza impegnarsi, era indicata come un modello, rappresentativa della maior pars del popolo italiano, che, al di sopra o al di sotto delle contese politiche, aveva assicurato la sopravvivenza di tutti e, virtuosamente disimpegnandosi, aveva salvato il futuro della nazione. «Tengo famiglia» e «mi faccio i fatti miei»: i due pilastri del familismo italiano assumevano così i connotati virtuosi dei fondamenti della nostra religione civile, legittimando i fermenti di antipolitica che già allora - negli anni 90 dell'avvio della Seconda Repubblica - dilagavano nel nostro spazio pubblico. Ragionando di continuità e discontinuità tra ieri e oggi c'è solo da notare come quella «zona grigia» esaltata da Buttiglione abbia compiuto fino in fondo una traiettoria che l'ha portata progressivamente a smarrire quei caratteri di passività, allora elogiati, per assumere il volto radicale e aggressivo di chi oggi ha trasformato gli interessi in valori, pronto a difenderli a ogni costo, anche rinunciando a «farsi i fatti propri».

Di continuità e rottura parlano anche gli altri saggi raccolti nel libro, sempre con spunti che oggi ci interessano da vicino. Nella «continuità dello Stato» tra fascismo e Italia repubblicana, ad esempio, Pavone sottolinea una sorta di tara genetica che ha sempre reso problematica la credibilità delle nostre istituzioni e, soprattutto, di quella pubblica amministrazione che – erroneamente considerata neutra - passò indenne attraverso un'epurazione mancata, per approdare ai giorni nostri con tutto il suo carico di inefficienza, privilegi, servilismo, fedele a un'eredità del fascismo racchiusa nello slogan «debole con i forti e forte con i deboli».
Un'ultima considerazione: Pavone si muove in un mondo che non era quello che aveva auspicato. Senza indulgere al mito della «Resistenza tradita», si confronta da vicino con la delusione, un sentimento che ha attraversato la sua ma anche altre generazioni, tipica di chi - dal Risorgimento alla Resistenza - aveva sperato in un'Italia migliore; un sentimento che tuttavia, nei suoi scritti, non si traduce nella rinuncia e nel disincanto. Anzi, come la sua stessa biografia testimonia, l'impegno è una categoria morale che si sottrae alle vicissitudini della politica e può trovare nella passione civile con cui si interpreta il proprio lavoro l'antidoto più potente alla rassegnazione e alla sfiducia. —
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