lunedì 30 novembre 2020

Sofisma di Talmon, biografia di Churchill & doppio standard

 La borghesia attribuisce a Stalin anche la colpa della morte di Abele e non ammette se e ma.
Quando si tratta di Churchill o di qualche altro liberale, nemmeno lo schiavismo e il genocidio sono sufficienti e trova sempre mille scuse e distinguo [SGA].

Il secolo breve e senza fine di Churchill 
Un uomo che ha attraversato due guerre mondiali e la Guerra fredda E che ha saputo guidare la dissoluzione dell’Impero La biografia definitiva di Andrew Roberts sul grande statista
di Lucio Caracciolo rep 30 11 2020
I grandi uomini, quelli veri, non sono costruttori di imperi, ma loro curatori fallimentari. Coloro che il destino ha chiamato a gestire il declino, ad accompagnare il tramonto di una potenza, evitando che traligni in caos, violenza, guerra civile. E che per compiere tanto disumana impresa sono costretti a negare a se stessi il senso della propria opera, affinché la nazione di cui sono responsabili partecipi di questa rimozione, e accetti più o meno inconsciamente la fine della sua gloria. Seppur rimossa, la dolorosa impresa non può totalmente cancellarsi dalla mente e dal cuore di chi se la intesta. Quanto meno, ne occuperà gli incubi notturni, ne segnerà i bruschi cambi d’umore, le malinconie. Winston Churchill è l’idealtipo del grande uomo politico costretto al nobile quanto straziante percorso dell’impero britannico dallo zenit al nadir. Tutto nell’arco della sua lunga vita.
Peggio: i suoi talenti letterari, pari se non superiori alle virtù politiche, ne faranno l’epico narratore del declino e della caduta del primato di Britannia sul mondo. Dalla sua splendida scrittura - abbeveratasi a quella di Gibbon, il narratore della fine di Roma - trasfigurato in gloria. Come inevitabile in chi è uso affrontare l’avversità a labbra strette. Convinto che l’impero britannico sia alfa e omega della storia. Non è quindi caso che Andrew Roberts anteponga alle oltre 1400 cento pagine della sua biografia di Churchill due versi della celebre poesia Se ( If ), che nel 1910 Rudyard Kipling dedicò al figlio: «Se riesci a incontrare il Trionfo e la Sconfitta/ Trattando questi due impostori allo stesso modo…». Cui potremmo aggiungere l’incipit: «Se riesci a tenere la testa a posto quando tutti attorno a te/l’hanno persa e danno la colpa a te…».
Perché sì, la grandezza di Churchill è stata anche quella di (mal) sopportare l’accusa di aver provocato quella decadenza che lui invece intendeva addolcire, illudendosi di sventarla. Quasi che un individuo solo possa determinare la storia. E debba assumere su di sé la responsabilità di una parabola ormai volta verso il basso. Irrevocabilmente.
Nell’edizione originale, il sottotitolo del grandioso affresco di Roberts – non proprio churchilliano nella prosa - esprime l’atmosfera scespiriana di cui è intrisa la vita del suo biografato: “Walking with destiny” – “Camminando con il destino”. Dall’una e mezza del mattino di lunedì 30 novembre 1874, quando quel bambino prematuro vide la luce nel monumentale Blenheim Palace (Oxfordshire), figlio di Lord Randolph e della bellissima Jennie Jerome, gentildonna americana, fino alle otto antimeridiane di domenica 24 gennaio 1965, quando lo statista spirò nella sua casa al 28 di Hyde Park Gate, Londra. Esistenza quasi centenaria, da Vittoria a Elisabetta II, le regine che la storia porrà apice e fondo della potenza britannica. Il secolo di Churchill. Accompagnato agli esordi dalle melodie di Elgar, allo scadere dalle canzoni dei Beatles.
Il lettore non s’attenda dalla biografia di Roberts il contropelo, o addirittura il revisionismo. Ai tempi di Internet, sul più celebre primo ministro britannico d’ogni tempo circolano triviali leggende nere, fino al bipolarismo (in senso psichiatrico) e all’alcolismo. Certo il suo egocentrismo era leggendario. Nemmeno uno storico decisamente simpatetico come Roberts può negarlo. Poco dopo la sua giovanile esperienza africana, una graziosa ragazza americana che l’incontrò a bordo del piroscafo Carthage stabilì: «Forse il suo unico difetto a quel tempo era di essere un po’ troppo sicuro di tutto, cosa che gli altri giovani non sempre apprezzano» (p. 111). Ma la straripante idea di sé, e del suo posto nella storia, non era così ingiustificata.
Osserva il suo ultimo biografo: «Quando si trattò di sventare tre minacce mortali poste alla civiltà occidentale, quelle poste dai militaristi prussiani nel 1914, dai nazisti negli anni trenta e quaranta e dal comunismo sovietico dopo la Seconda guerra mondiale, il giudizio di Churchill svettò ben al di sopra di quello delle persone che lo avevano schernito» (p. 1255). E ancora oggi conviene chiedersi che cosa ne sarebbe stato dell’umanità se invece di resistere a Hitler quando tutto sembrava perduto avesse inclinato verso i consigli di quella non indifferente quota dell’opinione pubblica e dell’establishment inglese che avrebbe volentieri trattato la resa con la Germania nazista.
Se c’è un tratto costante nella traiettoria dello statista, è la sua fede nella superiorità della “razza inglese”. A rileggere oggi, fuori contesto, alcune sue pagine al riguardo, si può indulgere a bollarlo bieco razzista. Anacronismo di chi legge lo ieri con gli occhi dell’oggi. Senza considerare che la presunzione della superiorità dei “bianchi” sui “colorati”, che spesso tralignava nella segregazione e nei massacri perpetrati in nome della “civiltà”, era all’epoca moneta corrente nei popoli imperiali. E nei relativi curriculum scolastici.
Churchill declinò questo pregiudizio - segnato dalla sua nascita in quanto figlio di aristocratico inglese e di signora dell’alta società americana - in geopolitica. La stretta alleanza fra Regno Unito e Stati Uniti, perno di ogni sua scelta strategica, da compiersi idealmente nella fusione fra i due paesi, si riflette in permanenza nei momenti decisivi della sua parabola.
Durante le guerre mondiali, certamente. Ma anche nel corso della Guerra fredda. Non è certo un caso che il discorso inaugurale di quella stagione fu pronunciato da Churchill, nella sua veste di ex primo ministro, il 5 marzo 1946 a Fulton, Missouri. Accanto a lui, benedicente, sedeva il presidente americano Harry Truman. Quel discorso, passato alla storia per il riferimento alla “cortina di ferro” scesa sul continente europeo da Stettino a Trieste, era stato letto e approvato da Truman. Il quale, posati gli occhiali, disse: «L’altro giorno è venuto a trovarmi Clement Attlee (successore di Churchill a Downing Street, ndr). Mi ha dato l’impressione di un uomo molto modesto». «Ha molto di cui essere modesto», replicò Churchill (p. 1162). L’uomo in una frase.
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Winston, l’uomo che diventò Churchill 
di Stefano Folli Robinson 2 1 2021
L ’uomo più biografato della seconda metà del Novecento è senza dubbio Winston Churchill e quindi non sorprende che nel 2020 uno storico autorevole come Andrew Roberts abbia pubblicato un lavoro di notevole ambizione, fondato sul presupposto che ci sia ancora qualcosa da dire, anzi molto, sullo statista inglese. L’opera è stata definita dal New York Times la biografia definitiva, dunque la più approfondita ed esaustiva. Il compito non era facile, ma proprio il trascorrere del tempo ha aiutato Roberts a scavare nella vita di Churchill alla ricerca di nuovi nessi e di inediti particolari. Le novità riguardano sia le carte a cui egli ha avuto accesso, a cominciare dal diario del re Giorgio VI, sia gli aspetti psicologici e caratteriali.
Roberts naviga per millequattrocento pagine tenendo una rotta sicura e soprattutto riuscendo a non annoiare il lettore.
Benché esplorato in ogni dettaglio, il suo Churchill è descritto con vivacità e dunque è un personaggio che parla agli uomini e alle donne di oggi anche perché è presentato nella sua umanità, ossia nei suoi pregi come nei suoi non irrilevanti difetti. Fin da quando, bambino, soffre l’assenza della madre, donna di fascino, bella e mondana, tuttavia molto distante. Winston la sostituisce con la bambinaia Miss Everest, a cui fu legatissimo, ma la ferita rimane. Come è una lacerazione la scarsa stima che il padre Randolph nutriva nei confronti del figlio, senza curarsi di nasconderla. Per cui Churchill trascorse i primi decenni della sua vita a tentare di conquistare la considerazione, se non l’affetto, del suo arcigno genitore. Per il resto, non c’è che leggerla, questa opera monumentale che descrive una figura a sua volta colossale nella storia d’Europa. Di sicuro è una vera ricerca biografica, capace di restituire la densità politica dello statista, nonché le caratteristiche di grande oratore e di salace conversatore dell’uomo, coltivate per l’intera, lunga vita. Peraltro l’opera non scade mai nell’agiografia e anzi l’autore tiene a marcare un certo distacco rispetto al suo personaggio. La stessa attitudine che Roberts aveva avuto verso Napoleone, protagonista della precedente, importante biografia.
Ma per un inglese è più difficile tenere le distanze dal vincitore della seconda guerra mondiale.
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