sabato 27 febbraio 2021

Il vero programma di Draghi




Draghi, Confindustria e il sistema industriale dei media stanno facendo un capolavoro. Sarà impossibile anche per pennivendoli linguisticamente bendotati del calibro di un cazzullo o un gramellini pompare in via artificiale il consenso di questo governo, che è al di sotto di qualunque peggiore previsione e che già suscita ironie e disillusione. Non sarà però necessario farlo. Sara sufficiente mostrarlo per quel che è. Sara sufficiente distinguere l'azione cristallina di Draghi dallo spettacolo indecoroso dei partiti, lasciati a scannarsi per posti privi di potere reale e a farsi i dispetti a vicenda proprio per meglio far risaltare l'aura di oggettività del tecnocrate competente. Così da detournare e rendere funzionali anche le critiche di ogni provenienza facendole lavorare al contrario. Con il risultato di incanalare le contraddizioni sociali non contro questa formula politica e i suoi presupposti ma contro la politica stessa e ancor più contro la forma partito, che ne vengono delegittimate momento per momento. Per un po' basterà, giusto il tempo di spartirsi la torta e impostare le direttrici del futuro. Poi quando le contraddizioni non si conterranno più, si vedrà come sterilizzarle di nuovo. In tutto ciò, pur con un'autostrada aperta davanti, sinistra non pervenuta.

Qual è però il vero programma di Draghi? Dopo le promesse di cambiamento di paradigma pronunciate urbi et orbi nel vivo dello choc della prima ondata, le tendenze di politica economica sono in realtà rapidamente tornate quelle di prima e di sempre e che hanno condotto alla catastrofe attuale: un nuovo saccheggio da parte del grande capitale industriale e finanziario, guerra allo Stato, smantellamento della sanità e dei servizi pubblici, centralità del privato, ulteriore concentrazione del potere dei ricchi a danno dei lavoratori.
Era un esito imprevedibile nei rapporti di forza dati e nella totale assenza di movimenti sociali e forze di sinistra organizzate? Erano imprevedibili la fine del governo Conte e i riposizionamenti politici di queste settimane? Era imprevedibile la cooptazione dei 5 Stelle o la disfatta del PD?
Tutt'altro. In realtà il programma di Draghi era già scritto perché coincide con il programma liberale "naturale" dei padroni e quanto è avvenuto era sin dall'inizio assai probabile.
Riporto qui alcune pagine de "Il virus dell'Occidente" [SGA].
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“Quand’è che i ricchi e i potenti della Terra prenderanno sul serio i problemi del mondo? Quando anche loro moriranno per i problemi del mondo”, risponde Jared Diamond a una domanda sul peso delle disuguaglianze sociali nel superamento dell’emergenza in corso. Che gli appelli a un urgente cambiamento di politiche e mentalità che abbiamo appena letto non siano insensati e che le paure in essi espresse non siano infondate lo dimostra in effetti quanto continua ad accadere sotto i nostri occhi ma lo dimostrano anche altri appelli e altri interventi che negli stessi giorni sono andati orientandosi secondo un segno contrapposto e dai quali è possibile comprendere l’entità della partita in gioco. Che tutto in qualche modo cambierà, infatti, è certo: ma in quale direzione andrà questo cambiamento imminente? E soprattutto: come reagiranno le élite stabilite e quelle outsider di fronte al mutamento dello status quo?
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Insomma, che il mondo di domani venga ripartito in due, tre o più aree di influenza geopolitica, si va profilando comunque un vero e proprio cataclisma nei rapporti di forza internazionali e nell’ordine
stesso del pianeta, come conferma rassegnato Fareed Zakaria invitando a prendere atto del nuovo scenario, nel quale “gli USA hanno abdicato al loro ruolo”, e a trovare una “combinazione” che coinvolga “America, Cina e… Unione europea” al fine di dare stabilità al mondo. Quale che sia la forma finale di questo processo di ristrutturazione, dunque, è chiaro che imponenti trasformazioni investiranno a cascata le nostre economie e i nostri sistemi politici, riversandosi sul nostro modo di vivere, di lavorare e persino di pensare come nei rapporti tra gli Stati e le diverse aree del globo. Ed è altrettanto chiaro come questi cambiamenti, pur indotti da un evento imprevedibile ed eccezionale, non possano essere considerati indifferenti da quegli interessi che nello status quo hanno costruito le loro posizioni dominanti. I quali saranno e sono già inevitabilmente portati a cercare di conservare tale posizione, impedendo il mutamento stesso oppure indirizzandolo sin dall’inizio verso un esito che non comporti un’eccessiva ridislocazione delle gerarchie sociali e politiche dominanti, al fine di ridurre il danno. E questo sia per via di cooptazione delle élite concorrenti (a loro volta interessate a cavalcare la situazione per migliorare il proprio posizionamento), sia attraverso la neutralizzazione preventiva della forza d’urto di quei gruppi sociali che, avendo individuato le cause profonde della crisi negli assetti economici vigenti, potrebbero fare pressione e entrare in conflitto per orientare il cambiamento verso una redistribuzione della ricchezza, del potere, del riconoscimento. “Se non affrontiamo le radici di questa pandemia”, che vanno individuate nelle “manipolazioni del sistema capitalista”, è prevedibile che “la pandemia tornerà probabilmente in forma peggiore”, avverte a questo proposito ancora Noam Chomsky; e sono proprio “circostanze peggiori” quelle che i più potenti interessi in gioco – con una certa efficacia bisogna dire, a giudicare da quanto sta tutt’ora avvenendo – stanno già cercando di approntare.
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“Non ci sveglieremo, dopo il confinamento, in un nuovo mondo”, vaticina con quello che pare un lugubre auspicio il sempre livoroso Michel Houellebecq: “sarà lo stesso, un po’ peggiore”. Siamo di
fronte a una mobilitazione immediata – che sembra aver colpito nel segno tanto quanto gli appelli libertari dei biopolitici – dei grandi interessi privati. I quali, pur da posizioni diverse, si attivano in forme massicce per esercitare la massima influenza possibile nel momento in cui vengono prese decisioni cruciali dalle quali dipenderanno gli assetti del paese e del mondo di domani, a conferma che i capitalisti, pur in perpetua competizione tra loro, sono sempre solidali quando è il momento di difendere il capitale come rapporto sociale complessivo.
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Bonomi e i suoi colleghi agiscono per continuare a influenzare la politica come hanno quasi sempre fatto e affinché il mondo nuovo che si annuncia sia nelle sue direttrici di fondo, e cioè nelle sue gerarchie di potere e di distribuzione della ricchezza, quanto più simile possibile al mondo di oggi e degli ultimi decenni, se non ancora più sottomesso agli interessi dei grandi poteri economici. È questo il senso della richiesta di misure che costituiscono esattamente la prosecuzione rafforzata di quelle tendenze – deregulation, centrali-tà del privato, prevalenza del profitto su ogni altra considerazione… – che hanno condotto alla catastrofe attuale. Ed è un senso che appare spudoratamente palese anche in un fuoco di fila di interventi che da subito, come se fosse stato lanciato un segnale al quale risponde una sorta di riflesso pavloviano presso la squadra d’azione degli intellettuali influencer, intervengono a sostegno degli interessi imprenditoriali, considerati forse ancora troppo deboli o timidi per difendersi da soli.
Tra i “nemici” della “ripresa” secondo il solito Angelo Panebianco, ordinario di Scienze politiche a Bologna, c’è infatti al primo posto proprio “la tentazione statalista”, anzi il rischio di una vera e
propria “pandemia statalista”, con la pretesa che lo Stato “si sostituisca all’imprenditoria privata, deprimendo così quegli animal spirits del capitalismo senza i quali non ci può essere alcuna ricostruzione”. Al contrario, anche per chi ne è così innamorato da sublimare in chiave avanguardistica il tradizionale capitalismo nazionale straccione e assistito, sarebbe necessario provvedere con urgenza a una “riduzione generalizzata delle tasse” e rimuovere la solita “barriera appiccicosa” della burocrazia, che impedisce “ogni possibile innovazione”, oltre a quella “debordante e soffocante presenza del diritto penale” che coarta la “vita sociale ed economica” con la pretesa inaudita di arrestare gli imprenditori che violano la legge. È una preoccupazione condivisa da Ferdinando Giugliano, editorialista di Bloomberg Opinions, il quale prende atto a malincuore che la pandemia “è destinata
a rafforzare il ruolo dello Stato nell’economia” ma mette l’accento sul fatto che questo “accentramento”, se proprio deve esserci, deve tradursi in un sostegno attivo alle imprese, deve essere “temporaneo” e non va fatto “con ideologia”. C’è infatti “un rischio” nella situazione attuale: “che questo cambio di paradigma forzoso diventi la scusa per ricette ideologiche anacronistiche, che prediligono lo Stato in quanto Stato, ignorando le ragioni del suo intervento”. Soprattutto se ciò mettesse in discussione il regionalismo e le autonomie locali, sarebbe il segno di “una deriva centralista” che “rischia di produrre solo un livellamento verso il basso”, a causa di una “pianificazione della produzione in stile parasovietico”, o cinese, che farebbe della nostra economia un’“economia di guerra” in tempo di pace.
Non è diverso il discorso dell’attivissimo Andrea Mingardi, direttore generale dell’Executive Team dell’Istituto Bruno Leoni, presieduto da Franco Debenedetti (rentier ed ex senatore del Pds e del Pd
oltre che fratello del più noto Carlo Debenedetti, a lungo patron di “Repubblica”). Mingardi lamenta una gestione giacobina della crisi (“nell’emergenza sanitaria si è deciso ‘a spese’ del settore privato”).
E, mettendo momentaneamente da parte il suo liberalismo ortodosso, pretende adesso anche lui una sorta di risarcimento del rischio d’impresa che comporti il finanziamento statale totale dei debiti privati al fine di tenere stabile l’occupazione e evitare “tensioni sociali”, oltre a un generale impegno a “proteggere il PIL”. Chi è però che “frena la volontà di ripartire”238? Oltre al “bizantinismo burocratico” ci sono naturalmente le diffuse “tentazioni dirigiste”, ovvero il consueto statalismo italiano, con il suo sogno “di nuova IRI e di ricentralizzazione di tutto ciò che si può centralizzare”, mentre bisognerebbe al contrario concedere agli operatori privati massima libertà. In cosa però questa richiesta di libertà esattamente si traduce? Le garanzie con le quali lo Stato copre i prestiti alle imprese sono insufficienti se lo Stato non riforma se stesso mettendo in ordine la “finanza pubblica”
239 e cioè tagliando le proprie spese, ad esempio intervenendo nuovamente sull’età pensionistica. Bisogna poi azzerare “la tassazione sui rendimenti dei prestiti alle imprese”, tagliando ulteriormente le tasse a chi ha disponibilità di denaro. Inoltre, “bisogna mettere in campo meccanismi di deroga al diritto del lavoro”, consentendo una maggiore precarietà e una più ampia possibilità di sfruttamento e licenziamento. Chiaramente, tenendo conto – come mette in guardia Maurizio Ferrera, ordinario di Scienza politica a Milano – che quasi di certo “emergerà... un divario crescente fra domanda di protezione e capacità di risposta”240, così che “non si può escludere che si aprano
spazi di protesta sociale e mobilitazione politica”; fino a provocare una crisi di consenso sistemica che, per ingratitudine e prendendo a pretesto le disuguaglianze, potrebbe trovare “facili capri espiatori” proprio nel generoso e innocente mondo imprenditoriale...

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