Dalla lettera di Kafka ai terribili Mann la
letteratura è piena di faide tra genitori e figli Lo racconta ora in un
saggio un grande autore come Colm Tóibín
Delitto di famiglia Volete essere scrittori? Uccidete padre e madre
di Cristiano De Majo Repubblica 18.4.13
Nel suo ultimo libro, How Literature Saved My Life, non ancora uscito in
Italia, David Shields sintetizza in una frase una grande verità della
scrittura: «È difficile scrivere un libro, è molto difficile scrivere un
buon libro, ed è impossibile scrivere un buon libro se ti preoccupi di
come le persone a te vicine lo giudicheranno». Sul New York Times, la
scrittrice e giornalista Susan Shapiro — che nella sua biografia si
definisce autrice di tre memoir che la sua famiglia odia — dice di dare
agli studenti dei suoi corsi di scrittura questo semplice quanto
diabolico consiglio: «Avrete trovato la vostra voce quando scriverete un
pezzo che la vostra famiglia odierà. Se volete avere successo con
genitori e fratelli, provate con i libri di ricette».
Sareste teoricamente disponibili ad accettare una buona recensione su un
quotidiano a grande tiratura in cambio di una burrascosa interruzione
dei rapporti con vostra madre? Se la risposta è sì, siete sulla strada
giusta, la letteratura, fiction o non fiction che sia, è per i rapporti
familiari un campo minato in cui ogni scrittore che si rispetti non solo
conosce la posizione delle mine, ma trova inevitabile farle esplodere.
La delicata questione può essere considerata da due punti di vista: 1)
per lo scrittore la propria famiglia è, in quanto a profili psicologici e
dinamiche umane, il materiale più ricco e meglio conosciuto che ha
disposizione, ma 2) non bisogna sottovalutare il potenziale vendicativo
del testo letterario; scrivere può anche significare, e lo dimostrano
alcuni capolavori, regolare i conti con il proprio passato.
La Lettera al padre di Franz Kafka è, in questo senso, una lampante
dimostrazione di come un’intera poetica si possa articolare intorno a un
tentativo di vendetta. A trentasei anni il grande scrittore praghese
compone un drammatico ritratto del genitore e dei suoi abusi psicologici
stilando una lista di lontani aneddoti a cui si è tentati di ricondurre
tutta la sua produzione letteraria, e arrivando infine a individuare
l’origine della sua vocazione proprio in quel rapporto per lui così
doloroso: «Scrivevo di te, scrivendo lamentavo quello che non potevo
lamentare sul tuo petto. Era un addio da te, intenzionalmente tirato per
le lunghe, soltanto che, per quanto imposto da te, andava nella
direzione da me determinata».
Ne sa qualcosa anche Lucie Ceccaldi, madre dello scrittore più famoso
della Francia contemporanea, a cui spesso si aggiungono gli aggettivi:
controverso, cinico, rancoroso, sessualmente morboso, che non
equivalgono a buone notizie per chi è stato, o avrebbe dovuto essere,
responsabile della sua costruzione emotiva. Nelle Particelle elementari,
Michel Houellebecq, la prende di peso con il suo vero nome, Ceccaldi, e
le fa interpretare il “ruolo” della madre hippie che abbandona il
proprio figlio ai nonni, ubriaca di illusioni libertarie, affamata di
sesso. La terribile coincidenza è che Houellebecq fu esattamente
affidato ai nonni da piccolissimo e che i suoi genitori furono
esattamente due giramondo imbevuti di edonismo sessantottino. Si scopre
così che tutta la critica asprissima alla generazione dei babyboomer,
uno dei temi centrali dei primi libri dello scrittore francese,
mascherata abilmente nello stile del personaggio, un nichilista prodigo
di considerazioni storico-sociali, mette radici nel risentimento
personale, in una tristissima sindrome da abbandono.
Ma la storia non finisce qui. Nel 2008 Lucie Ceccaldi dà alle stampe un
memoir intitolato con eloquenza L’Innocente con cui si propone di dire
la sua verità e rilascia interviste in giro nelle quali dichiara di
essere disposta a perdonare suo figlio solo nel caso in cui decidesse di
presentarsi in una piazza brandendo Le particelle elementari e
autoaccusandosi come bugiardo e impostore. La lite letteraria finisce
per assu- mere connotati vertiginosi perché non solo è curioso che
l’autore di un romanzo venga accusato di essere un mentitore, ma anche
perché se suo figlio non fosse diventato Houellebecq, Lucie Ceccaldi non
avrebbe mai pubblicato un libro.
D’altra parte, per quanto strano possa sembrare, il suo non è l’unico
caso di “genitore d’arte”. Henry James e William Yeats, erano figli di
due padri parecchio simili: artisti falliti e borghesi inconcludenti.
Come John Butler Yeats che, dopo il successo letterario del figlio,
arrivò addirittura a implorarlo di raccomandare i suoi testi teatrali.
Le due vicende sono raccontate nel bellissimo libro di Colm Tóibín New
Ways to Kill Your Mother: Writers and Their Families (Penguin), uno
spaccato ricchissimo di fatti e documentazioni sulle famiglie di alcuni
importanti scrittori dell’Otto- Novecento, che scoperchia un covo di
dolori, frustrazioni, condizionamenti.
Il limite estremo della morbosità familiare si tocca nel capitolo
dedicato alla famiglia Mann, condensato di distorsioni sessuali,
mancanza di amore, ambiguità storiche. Klaus, secondogenito di Thomas, è
la figura tragica, quasi più letteraria che reale, che ne incarna le
storture. Ragazzo prodigio e di ambizioni smisurate — al punto che il
padre gli autografò con ironia sprezzante una copia della Montagna
incantata, scrivendo «Al mio rispettato collega, il suo promettente
padre» — sessualmente incerto, ma legato più che fraternamente a sua
sorella Erika, tossicodipendente e antinazista più vibrante del suo
prudente e celebre congiunto, visse fino al suicidio una vita alla
continua ricerca dell’approvazione paterna, anche attraverso una
frustrante competizione letteraria. Nel 1936 pubblicò Mephisto, in cui
la figura di un personaggio che decide di non esporsi politicamente per
non rovinare il suo successo artistico è, secondo Tóibín, ispirata
precisamente da suo padre. Che, d’altra parte sembra rispondergli in
Carlotta a Weimar, descrivendo così il personaggio di August, figlio di
Goethe: «Essere figli di un grand’uomo è una grossa fortuna, un
considerevole vantaggio. Ma, d’altra parte, anche un fardello
opprimente, una umiliazione permanente del proprio ego».
Si dà il caso poi, ed è un caso non meno doloroso per una famiglia, di
una vita segreta rivelata post mortem da un lascito letterario. Sempre
nel libro di Tóibín si può leggere della vicenda legata ai Diari di John
Cheever, recentemente pubblicati da Feltrinelli, che svelarono
un’omosessualità tenuta a lungo nascosta tra le mura di casa. Mary
Cheever, la moglie dello scrittore della suburbia americana, decise di
non leggerli, giustificando così la sua scelta: «Non posso leggerli, non
è la mia vita. Si tratta di lui. È tutto dentro di lui». Ed è proprio
la consapevolezza di questo scarto tra realtà esterna e vita interiore,
identificato con disperata lucidità dalla moglie di Cheever, che
potrebbe alleviare i dolori delle vittime del fuoco amico, o parentale,
della letteratura.
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