venerdì 16 novembre 2018

Il libro di Stephen A. Smith sulla rivoluzione russa. Il parere del Nostro Toynbee

Stephen A. Smith: La rivoluzione russa. Un impero in crisi (1890-1928), traduzione di Maurizio Ginocchi, Carocci, pp. 464, euro 34

Risvolto
La Rivoluzione del 1917 rappresentò un mutamento politico, economico, sociale e culturale, ma allo stesso tempo conservò anche forti elementi di continuità con la struttura profonda della storia russa. Stephen A. Smith – fra i massimi specialisti in materia a livello internazionale – presenta un avvincente racconto dell’evoluzione della Russia, dai primi segni di crisi del regime zarista, travolto dalla modernizzazione industriale della fine del XIX secolo, alla “rivoluzione dall’alto” scatenata da Stalin nel 1928.


Questo libro è stato scritto in primo luogo per il lettore che affronta per la prima volta la materia, anche se spero che in quanto sintesi delle recenti ricerche degli studiosi russi e occidentali, e in quanto tentativo di rimettere in discussione alcune interpretazioni ormai familiari, abbia qualcosa di interessante da dire anche ai miei colleghi accademici; offre un resoconto completo dei principali eventi, sviluppi e personaggi nell’ex impero russo dalla fine del XIX secolo fino all’inizio del Primo piano quinquennale e delle collettivizzazioni forzate del 1928-29, quando Stalin scatenò sul popolo sovietico una “rivoluzione dall’alto”.

Il libro cerca di dare una risposta alle grandi questioni che interessano gli studenti e i lettori appassionati di storia: perché l’autocrazia zarista fallì? Perché dopo la Rivoluzione di Febbraio del 1917 naufragò anche il tentativo di instaurare una democrazia parlamentare? Come riuscì un piccolo partito socialista estremista ad assumere il potere e a mantenerlo malgrado una feroce guerra civile (1918-21)? Come arrivò al potere Stalin? Perché alla fine degli anni Venti ordinò una collettivizzazione brutale e un’industrializzazione forzata?
Al suo livello più fondamentale il libro cerca di far luce sulla natura del potere: come l’ostinazione a esercitarlo delle forme tradizionali possa portare al collasso di un intero ordine sociale; e come la volontà di mantenerlo a ogni costo possa corrompere anche coloro che cercano di dar vita a una società migliore. Si tratta di questioni spinose, ma una massa di fonti documentarie inedite divenute disponibili dopo la caduta dell’Unione Sovietica nel 1991 getta una nuova luce sulla storia sociale e politica di questo periodo.
Negli ultimi venticinque anni gli storici russi e occidentali hanno iniziato a utilizzare questo materiale per riesaminare vecchi interrogativi, suscitarne di nuovi e ripensare alcuni giudizi ormai consolidati. Il libro cerca di dar conto di questi studi di archivio e di fornire al lettore un assaggio di come nel corso degli ultimi decenni la comprensione della Rivoluzione russa da parte degli storici sia cambiata, sebbene continui a essere una materia sulla quale le loro interpretazioni differiscono grandemente. Il suo proposito principale, tuttavia, è quello di offrire al lettore un ampio resoconto del collasso dell’autocrazia zarista e dell’ascesa del Partito bolscevico, prestando molta più attenzione di quanto fosse possibile prima del 1991 a questioni quali la dimensione imperiale e nazionale della Rivoluzione; la complessità delle forze coinvolte nella guerra civile; i tentativi dei socialisti moderati e dei partiti anarchici di opporsi al monopolio bolscevico del potere; la resistenza di contadini e lavoratori al regime bolscevico; le privazioni e le sofferenze inflitte dalla Rivoluzione; e il conflitto fra Chiesa e Stato, fino alle contraddizioni economiche e sociali nell’Unione Sovietica sotto la Nuova politica economica degli anni Venti.
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Stalin vinse con il sorriso 
Oltre al talento organizzativo e al brutale cinismo il futuro despota dell’Urss aveva preziose doti caratteriali. La socievolezza lo aiutò a prevalere sull’alterigia di Trotsky 
Mieli Corriere 5 sett 2018
Come riuscì Stalin ad impadronirsi, dopo la morte di Lenin (21 gennaio 1924), del Partito comunista dell’Unione Sovietica a dispetto della diffidenza manifestatagli negli ultimi mesi di vita dal leader stesso della Rivoluzione d’ottobre? È uno dei temi meglio approfonditi da Stephen A. Smith in La rivoluzione russa. Un impero in crisi 1890-1928, che Carocci si accinge a dare alle stampe in occasione dei cento anni dall’evento che cambiò la storia d’Europa e del mondo. La scena in cui si svolge la lotta per la successione a Lenin è quella nota dei conflitti interni alla Russia successivi alla fine della Prima guerra mondiale. Conflitti che si svilupparono in un contesto di crisi economica da brividi: la produttività lavorativa scese al 18 per cento dei valori prebellici; il tasso di furti e omicidi aumentò di dieci o quindici volte rispetto a quello di prima della guerra; la popolazione di Pietrogrado passò da 2,4 milioni a 722 mila abitanti (i mancanti erano fuggiti in campagna pensando di trovare qualcosa di cui nutrirsi; ma fu un’illusione). L’Ucraina si sottrasse al potere bolscevico e con essa venne meno il 35 per cento della produzione cerealicola. Le ventuno regioni consumatrici di grano restarono tutte in mano ai comunisti, che però — sul versante opposto — ne controllavano solo cinque delle ventiquattro esportatrici. 
Il degrado delle linee ferroviarie era all’epoca inimmaginabile: nel 1920 dei 1.605 milioni di chili di patate trasportate dagli Urali, solo 81,9 giungono a destinazione, alla popolazione urbana. Il resto viene rubato o lasciato marcire. Insieme a quella civile si proclama la guerra alla «borghesia rurale», ai kulaki, piccoli possidenti sospettati di nascondere il grano anche per trasformarlo in liquore. È tempo di carestia. Grigorij Zinov’ev proclama che alla borghesia può essere lasciata «una quantità di pane appena sufficiente per non dimenticarne il profumo». 
Trotsky ha un ruolo di primo piano in questa stagione. «L’obbligo e la coercizione sono condizioni essenziali per il rovesciamento dell’anarchia borghese», scrive in Terrorismo e comunismo. Si sviluppa il fenomeno dei «disertori del lavoro»: nei primi nove mesi del 1920 il 90 per cento dei 38.514 operai mobilitati per lavorare nelle trentacinque fabbriche di armamenti, abbandona il proprio posto. Quelli che sono riacciuffati, vengono rinchiusi in campi di concentramento predisposti alla bisogna. La carestia (assieme a febbre tifoidea, colera, peste bubbonica e vaiolo) uccide cinque milioni di persone. Il commissariato per l’Istruzione riceve rapporti significativi (ancorché poco verosimili) secondo i quali le madri «legavano i propri figli ad angoli opposti delle abitazioni per paura che si mangiassero l’un l’altro». Colpa di avversità direttamente riconducibili ai bolscevichi? Sì. Per portare soccorso alle popolazioni intervennero l’American Relief Administration e la Croce Rossa internazionale, i cui operatori umanitari — provenienti da tutto il mondo — scrissero che i funzionari del partito nelle aree colpite dalla carestia erano «persone terribili, suscettibili, che diventavano violente alla minima provocazione». Ma perché? «La posizione di questi funzionari era così poco salda», misero per iscritto i tecnici stranieri nei suddetti rapporti, «che anche gli atti più innocenti suscitavano il loro sospetto». 


Dei nobili non si salvò nessuno, venivano definiti, come più o meno ogni superstite dell’antico regime, «ex persone». Si sottrasse a un destino tragico solo il rampollo di una famiglia georgiana, Michail G. Gelovani, che, grazie alla somiglianza con Stalin, fu chiamato a interpretarne la figura in numerosi film del regista anch’egli georgiano Michail Ediserovic Ciaureli. La persecuzione contro la Chiesa fu spietata: sui manifesti i sacerdoti apparivano come etilisti e crapuloni, frati e monache come «corvi neri». Le stime degli ecclesiastici uccisi sono ancora oggi incerte. 


Il malcontento operaio cominciò a manifestarsi alle acciaierie Sormovi, nei pressi di Nižnij Novgorod, dove furono messi in minoranza i bolscevichi. Questi reagirono sciogliendo i soviet dove ciò era avvenuto. Il 10 marzo 1919 gli operai delle officine Putilov approvarono una risoluzione dei socialisti rivoluzionari di sinistra nella quale veniva denunciato «il giogo schiavistico dei lavoratori nelle fabbriche» e si chiedeva l’abolizione della «commissariocrazia». Si unirono nella denuncia gli operai della fabbrica di scarpe di Skorokhod e quelli delle officine ferroviarie di Aleksandrovskie. Il dirigente bolscevico Lunacharskij, che andò ad arringare i lavoratori del deposito tranviario di Roždestvenskij, fu accolto dalle urla: «Sei un damerino!», «Levati di dosso quella pelliccia!». A ristabilire l’ordine le autorità fecero intervenire i marinai di Kronstadt, base navale sull’isola di Kotlin nel golfo di Finlandia a una trentina di chilometri da Pietrogrado. Ziniov’ev definì quei lavoratori «arretrati». Tuchacevskij avvertì Lenin che quegli operai andavano considerati «inaffidabili». Intanto i Bianchi sono riusciti a «liberare» un milione e mezzo di chilometri quadrati. Nel corso dell’anno si sviluppano oltre cinquanta insurrezioni contadine in regioni tra loro distanti come l’Ucraina, la Bielorussia, il Caucaso settentrionale, la Carelia. La rivoluzione scricchiola. La reazione bolscevica, scrive Smith, è di una «spietatezza scioccante persino a paragone dei terribili standard di una guerra civile». 
A fine febbraio del 1921 si ribellano i soldati e i marinai di Kronstadt, che chiedono la cancellazione di «tutti i privilegi dei comunisti» e lo smantellamento della dittatura di un partito unico. Lenin definì la rivolta un «complotto delle Guardie Bianche» (ma non fu mai trovato alcun riscontro a questa accusa) e ordinò a quarantacinquemila soldati di stroncarla. Ciò che avvenne all’alba del 17 marzo. Successivamente Lenin disse, in termini più ambigui, che la rivolta di Kronstadt era stata «un lampo che aveva illuminato la realtà come meglio non sarebbe stato possibile». 
Il 1921 è l’anno più importante per l’assestamento della rivoluzione. In maggio Gavrijl Mjasnikov, un operaio delle officine Motovilica che è membro del partito da un quindicennio, scrive un articolo per chiedere la libertà d’espressione per operai e contadini, «dagli anarchici ai monarchici». Tutti. Lenin chiede che sia sanzionato, il partito esegue. I suoi compagni, però, sono solidali con lui: «a parte le bugie, la diffamazione e gli insulti, il comitato provinciale», si lamentano, «non conosce altra maniera di trattare con coloro che la pensano diversamente che ricorrere alla repressione». Niente da fare: Mjasnikov viene espulso. Le epurazioni che iniziarono nel gennaio del 1921, annota Smith, rimossero dal partito diverse centinaia di migliaia di «elementi ostili ed estranei», ma, «nonostante il linguaggio dell’infiltrazione e della cospirazione, la maggior parte venne espulsa per passività, carrierismo o ubriachezza». Nella seconda metà dell’anno le condizioni di salute del leader della rivoluzione si aggravano. Di qui al gennaio del 1924, quando morirà, conoscerà un costante peggioramento. Ma l’errore, se così lo si può definire, Lenin lo aveva commesso già nel 1920 quando, per bilanciare l’influenza di Trotsky aveva attribuito grande potere alla troika costituita da Zinov’ev, Stalin e Kamenev. 
La scalata di Stalin era iniziata molti anni prima, tant’è che nell’aprile del 1922 il leader georgiano si trovò a essere l’unico bolscevico ad aver trovato collocazione contemporaneamente e a pieno diritto nel Politburo, nella Segreteria e nell’Ufficio organizzativo. Aveva percepito che Lenin da tempo non si fidava più di lui, ma aveva altresì intuito che — come sarebbe emerso dal suo testamento politico scritto nel dicembre del 1922 — il capo rivoluzionario nutriva sentimenti di diffidenza anche nei confronti di Trotsky. Lenin aveva elogiato Trotsky per le sue eccezionali capacità, ma gli rimproverava l’eccessiva sicurezza di sé e «l’ossessione per le questioni amministrative». Del resto Trotsky, scrive Smith, «era di gran lunga il più dotato e carismatico dei luogotenenti di Lenin», era assai popolare, ma il gruppo dirigente del partito lo «detestava» e «questa fu una delle ragioni per le quali esitò a proporsi come successore». Timoroso di apparire frazionista «si lasciò sfuggire numerose opportunità di consolidare la propria posizione declinando addirittura, nell’aprile 1923, l’invito a redigere il rapporto politico per il XII Congresso del partito». 


Stalin colse al volo queste esitazioni del suo antagonista. E ne approfittò. Lenin giudicava Stalin un lavoratore che non aveva eguali. Ma lo considerava anche «rozzo, intollerante, incostante»; criticò il modo con il quale aveva trattato i comunisti georgiani, che si erano opposti al suo desiderio di annessione della propria terra natia; dopo che un giorno di marzo del 1923 Stalin insultò «furiosamente e rozzamente» la moglie di Lenin Nadežda Krupskaja, il fondatore del bolscevismo tornò a insistere perché l’uomo che lui stesso aveva scelto per il vertice del partito fosse immediatamente esautorato. Ma era tardi. Il futuro dittatore lo aveva isolato dal resto del mondo. 


Quando Lenin morì, per far dimenticare le perplessità nei suoi confronti sollevate dal leader della Rivoluzione d’ottobre, Stalin diede alle stampe i Fondamenti del leninismo, un’opera abbondantemente plagiata da un lavoro di Filipp Ksenofontov, nella quale la dottrina del capo bolscevico, appena defunto, veniva presentata come «l’intoccabile pietra di paragone della rettitudine ideologica». Nei due anni che precedettero la morte di Lenin, Stalin aveva saputo sfruttare a proprio vantaggio il distacco dello stesso Lenin da Trotsky. E lo aveva fatto con un capillare reclutamento in ogni angolo del partito. Oltreché con un’intelligente campagna per sfruttare i successi ma soprattutto gli insuccessi dei bolscevichi. In che senso? Trotsky, come è noto, proponeva la teoria della «rivoluzione permanente», secondo la quale il socialismo avrebbe conosciuto la propria realizzazione solo se il moto insurrezionale si fosse allargato dalla Russia ai Paesi più evoluti dell’Europa centro-occidentale. Ciò che non avvenne. E a quel punto, Stalin, teorico del «socialismo in un Paese solo», accusò Trotsky di aver sostenuto le proprie tesi per mancanza di fiducia nelle potenzialità della Rivoluzione d’ottobre. Costringendolo alla celebre autodifesa del XIII Congresso (maggio 1924), quando dovette pronunciare le parole «so che non si deve avere ragione contro il partito perché il partito in ultima analisi ha sempre ragione». Ma in quel momento — anche se alcuni storici hanno sostenuto che ci sarebbero stati ancora margini per una rimonta degli oppositori — il partito era già sinonimo di Stalin. 
Nel corso del 1924 Stalin e Zinov’ev lanciarono una «campagna di diffamazione» contro l’Opposizione di sinistra spingendosi a contestare le «credenziali bolsceviche» di Trotsky e riportando alla luce i molteplici conflitti tra lui e Lenin degli anni che avevano preceduto la rivoluzione. Nel gennaio del 1925 Trotsky venne rimosso dalla presidenza del Consiglio militare rivoluzionario. Zinov’ev e Lev Kamenev attaccarono Bucharin, grande difensore della Nep (la Nuova politica economica di apertura al mercato) che godeva del sostegno di Stalin. Il quale consentì a che Trotsky e Zinov’ev restassero nel Politburo, ma fece entrare anche i «suoi» Molotov, Kalinin e Vorošilov. Nell’estate del 1926 Zinov’ev e Kamenev formarono con Trotsky l’Opposizione unita. Ma era tardi: in ottobre Stalin — sempre alleato con Bucharin — li fece cacciare dal Comitato centrale e nel novembre del 1927 li fece espellere dal partito. Nel gennaio del 1928 Trotsky fu esiliato ad Alma Ata. 
Personaggi come Trotsky (e anche Kamenev) in principio erano considerati molto superiori a Stalin, lo avevano, sostiene Smith, «eclissato intellettualmente». Ma lui li sconfisse facendo leva su un indubbio talento organizzativo e anche su virtù che in genere gli vengono scarsamente riconosciute: «Socievolezza, senso dell’umorismo, apparente semplicità». In molti ne hanno ricordato l’eccellente memoria, la straordinaria capacità di lavoro, la sapienza tattica, l’inclinazione «caucasica» alla violenza. Pochi invece si sono soffermati sulle doti di cui parla Smith, contrapponendole all’alterigia di Trotsky. Alterigia ben descritta da Anatolij Lunacharskij che ne parlò come di una «tremenda imperiosità», denunciandone nel contempo «l’incapacità o la riluttanza a mostrarsi minimamente gentile e premuroso con le persone». Difetti che provocarono attorno a Trotsky un progressivo isolamento (ancorché fosse circondato da persone che per lui avrebbero dato la vita). E fu anche a causa di questo isolamento che nel 1940 si ritrovò inerme di fronte al piccone staliniano che (per mano di Ramon Mercader) gli avrebbe tolto la vita.

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