giovedì 1 dicembre 2011

Un ritratto di Benedetto Croce

Libertà motore della storia
Benedetto Croce superò lo statalismo hegeliano per esaltare l'aperta competizione di uomini e idee
Giuseppe Bedeschi Corriere della Sera 30.11.11

Nel 1917, scrivendo la prefazione alla terza edizione del suo libro Materialismo storico ed economia marxistica, Benedetto Croce asserì che il marxismo lo aveva riportato «alle migliori tradizioni della scienza politica italiana, mercé la ferma asserzione del principio della forza, della lotta, della potenza, e la satirica e caustica opposizione alle insipidezze giusnaturalistiche, antistoriche e democratiche, ai cosiddetti ideali dell'89». Certo, aggiungeva Croce, Marx aveva perduto ormai in gran parte l'ufficio di maestro che un tempo aveva avuto, poiché il concetto di potenza e di lotta, che egli aveva trasportato dagli Stati alle classi sociali, era ormai tornato dalle classi agli Stati. E tuttavia, precisava il filosofo, ciò non doveva «impedire di ammirare pur sempre il vecchio pensatore rivoluzionario (per molti aspetti assai più moderno del Mazzini, che gli si suole presso di noi contrapporre)», e non poteva cancellare «la gratitudine» che gli si doveva «per aver conferito a renderci insensibili alle alcinesche seduzioni (…) della Dea giustizia e della Dea umanità».
In questa celebre pagina Croce esprimeva un'idea per lui centrale: il divenire della realtà, e dunque della storia, ha luogo attraverso urti, contrasti, lotte, che giungono inevitabilmente fino alle guerre. In questo processo l'elemento decisivo è la forza. E contro di essa non ha senso invocare la fraternità (e le altre «ciarle illuministiche», l'eguaglianza e la giustizia): in primo luogo perché gli Stati si combattono fra loro continuamente per accrescere la loro potenza, e nulla possono concedere alla fraternità; in secondo luogo perché l'eguaglianza è un concetto fallace (così come è fallace la giustizia, che vorrebbe realizzarla): un concetto perennemente smentito dalla diversità delle attitudini, dei bisogni e dei sentimenti individuali. Gli Stati, dunque, sono i grandi protagonisti della storia universale, e gli individui hanno una sola missione, quella di identificarsi col destino dello Stato al quale essi appartengono.
Era, questa di Croce, una concezione di origine hegeliana. Ritornava infatti in essa l'idea della vita dei popoli e degli Stati come lotta continua e insopprimibile per il primato e per l'egemonia, lotta che aveva nella guerra il suo momento supremo. Perciò Croce avvertiva che bisognava tenersi «sempre pronti a considerare qualsiasi popolo, anche quello che più parla al nostro cuore o alla nostra fantasia, come avversario, se un giorno i reggitori dello Stato ce l'additeranno come tale», in quanto le faccende politiche non possono essere plasmate «dal nostro tenero cuore, ma appartengono a quei Leviatani che si chiamano gli Stati, a quei colossali esseri viventi dalle viscere di bronzo, ai quali noi abbiamo il dovere di servire ed obbedire, ed essi da parte loro hanno buone e profonde ragioni di guardarsi in cagnesco, di addentarsi, di sbranarsi, di divorarsi, visto e considerato che solo così si è mossa finora, e così sostanzialmente si muoverà sempre, la storia del mondo».
Questa concezione crociana della politica, professata nei primi due decenni del Novecento, fu abbandonata dal filosofo con l'avvento della dittatura fascista, in opposizione alla quale egli svolse un importante magistero intellettuale. Contro Gentile e i gentiliani, contro la loro esaltazione dello Stato come massima espressione dell'eticità, Croce venne ora fissando che lo Stato è solo una «forma elementare e angusta della vita pratica, dalla quale la vita morale esce fuori da ogni banda e trabocca, spargendosi in rivoli copiosi e fecondi; così fecondi da disfare e rifare in perpetuo la vita politica stessa e gli Stati, ossia costringerli a rinnovarsi conforme alle esigenze che essa pone». È evidente il profondo mutamento d'accento di queste parole rispetto alle dottrine sostenute da Croce agli inizi del Novecento. Ora egli non guarda più con ammirazione allo Stato-potenza, bensì allo «Stato di cultura» (così lo definisce), cioè allo Stato che si ispira agli ideali morali, che promuove la libertà, e che rimuove tutti gli ostacoli che intralciano o mortificano la libertà medesima.
Croce è ormai pervenuto a posizioni liberali. Nel 1925 (l'anno in cui incomincia la svolta dittatoriale del fascismo) egli scrive che nel liberalismo si esprime il bisogno, anzi la necessità, «di lasciare, quanto più è possibile, libero giuoco alle forze spontanee e inventive degli individui e dei gruppi sociali, perché solo da queste forze si può aspettare il progresso mentale, morale ed economico, e solo nel libero giuoco si disegna il cammino che la storia deve percorrere».
In quale rapporto si trovava il liberalismo crociano con quelli che l'avevano preceduto? A questo proposito il filosofo sottolineava con forza un punto: e cioè che la sua idea dello Stato liberale non aveva come presupposto le filosofie empiristico-sensistiche inglesi e scozzesi, incapaci di dimostrare l'ideale liberale se non con argomenti utilitaristici (come avveniva, a suo parere, nel trattato sulla libertà di John Stuart Mill), bensì aveva come presupposto la filosofia idealistica, concepita come assoluto immanentismo dello spirito. E poiché lo spirito è dialettica di distinzioni e opposizioni, e perpetuo crescere su se stesso e perpetuo progresso, tale spiritualismo doveva essere uno storicismo assoluto.
Era, dunque, una concezione metapolitica (in quanto non si fondava su una particolare teoria politica) quella che Croce aveva del liberalismo, completamente diversa dalla tradizione inglese. Ciò emergeva bene in due proposizioni crociane. La prima era che l'idea di libertà non si può definire per mezzo di distinzioni giuridiche, le quali hanno carattere pratico, e si riferiscono a istituti particolari e transeunti, i quali, essendo fatti storici, non hanno un legame necessario con la libertà, e possono essere sostituiti da altri istituti. La seconda proposizione era che il liberalismo non ha legami organici col sistema economico della libera concorrenza, e può ben ammettere svariati modi di ordinamento della proprietà e di distribuzione della ricchezza (comunismo compreso). Una proposizione, questa, che attirò a Croce una serrata critica di Luigi Einaudi.

Croce
Così divenne il faro dell'opposizione al fascismo
Per quanto fosse del tutto estraneo al mondo accademico (non era neppure laureato), il filosofo Benedetto Croce (1866-1952), nato a Pescasseroli (L'Aquila) e vissuto sempre a Napoli, fu la personalità di maggior rilievo della cultura italiana per un lungo periodo di tempo. I suoi Elementi di politica, che il «Corriere della Sera» manda in edicola domani con prefazione di Giuseppe Galasso, sono una delle testimonianze più significative della sua concezione liberale. Si tratta della quinta uscita della serie «Laicicattolici, I maestri del pensiero democratico», in vendita ogni giovedì con il «Corriere» al prezzo di 1,50 più il costo del quotidiano. Ostile al positivismo e critico verso l'eredità dell'Illuminismo, ma anche verso la Chiesa e le religioni rivelate, Croce fu un oppositore del fascismo, dopo un primo periodo di benevolenza per Benito Mussolini, e divenne un punto di riferimento per tutti coloro che non si riconoscevano nel regime. Dopo la caduta del Duce, esercitò una notevole influenza nel Partito liberale e ne approvò l'alleanza con la Dc degasperiana. Nella collana del «Corriere» il libro di Croce sarà seguito da un'antologia di un altro grande studioso meridionale, lo storico pugliese Gaetano Salvemini. Il volume s'intitola La sinistra e la questione meridionale: uscirà giovedì 8 dicembre con prefazione di Giovanni Russo. Il 15 dicembre toccherà invece a Quale socialismo? di Norberto Bobbio, con prefazione di Michele Salvati.

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