martedì 10 aprile 2012

Ancora su Maxima-Minima

La metafisica dell’operaio negli oracoli di Jünger
di Luigi Forte  La Stampa 8.4.12 


E’ una vera sorpresa questo libretto di riflessioni e aforismi di Ernst Jünger, Maxima-Minima, curato con gusto e competenza da Alessandra Iadicicco per l’editore Guanda (123 pagine, 12 euro), il cui sottotitolo recita: «Annotazioni su L’operaio », cioè quell’opera fondamentale che lo scrittore pubblicò nel 1932, pochi mesi prima che Hitler salisse al potere.
Era un testo visionario in cui questo anomalo letterato e teoreta, innamorato dell’anticapitalismo romantico, predicava la fine dell’individuo borghese e l’avvento di una nuova «forma», quella del lavoratore, «figlio della terra come Anteo», un «titano» destinato a imporre, con ebbrezza mitica, il dominio planetario della tecnica.
Le cose, come si sa, andarono in modo diverso e lo stesso Jünger dovette ammettere che quel clima di esplosione e anarchia degli anni weimariani che doveva preparare il «nuovo ordine universale» e la civiltà del lavoratore stava degenerando in una folle dittatura. Lui si salvò con il pathos della distanza, la capacità di non lasciarsi coinvolgere che emerge anche dagli spunti aforistici di Maxima-Minima, concepiti come «note a margine» dell’ Operaio, ma pubblicati solo nel 1964.
Qui la prosa del sommo stilista Jünger ha un tono oracolare e sibillino, trasporta in uno spazio di mitiche allusioni, dispensa misteri come la Pizia di Apollo, che la curatrice nella sua bella postfazione dipana e svela a grandi linee. Resta centrale il «tipo» della nuova umanità, l’operaio, con il valore simbolico che ha acquisito nel tempo. Ma, a ben vedere, quell’utopia non si è realizzata: la specializzazione ha tolto al lavoro un possibile carattere di redenzione, la macchina si è resa indipendente dall’uomo tanto che egli – lo ribadì lo stesso Jünger – è diventato «sempre più fungibile e indifferente».
Altro che titano poi, di questi tempi: piuttosto un disoccupato senza speranze. Ma la metafisica dell’operaio spinge a riflettere sulle grandi trasformazioni tecnologiche dell’era moderna, sul mondo come cantiere di frenetiche attività e sull’inabissarsi di ogni nostalgia umanistica.
Ma che fare «quando sta venendo giù una slavina»? Ci saremmo aspettati che Jünger s’aggrappasse con coerenza al suo nichilismo e invece eccolo rifugiarsi in un’accettazione quasi religiosa del destino. Non aveva soluzioni, dopo tanti disastri, solo diagnosi, lucide e spiazzanti.

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