domenica 9 dicembre 2012

La più antica democrazia del mondo

Il revisionismo di Oliver Stone: meglio Stalin di Truman
di Ennio Caretto Corriere La Lettura 9.12.12


Il revisionismo storico ha ispirato a Oliver Stone i migliori film, da Platoon e Nato il quattro luglio sulla guerra del Vietnam, che gli fruttarono l'Oscar nel 1987 e nel 1990, al recente W. sull'invasione dell'Iraq. Questo percorso lo ha portato a pubblicare un libro di 750 pagine e a presentare un documentario di 10 ore in altrettante puntate, dal provocatorio titolo La storia non narrata degli Stati Uniti. Coautore del libro, che copre il periodo dalla Seconda guerra mondiale al primo mandato di Obama, è Peter Kuznick, direttore dell'istituto di Studi nucleari della American University di Washington. La tesi di Stone e di Kuznick è che l'America avrebbe potuto, anzi dovuto, evitare di usare l'atomica contro il Giappone e prevenire la guerra fredda: se l'avesse fatto si sarebbe risparmiata il conflitto in Vietnam e quelli successivi. Tesi che ha spaccato la nazione in due. Per l'establishment americano, il regista si è confermato il dissacratore delle istituzioni e dei valori patriottici. Per la minoranza del dissenso, ha innescato un importante dibattito. È intervenuto persino l'ex leader sovietico Mikhail Gorbaciov, secondo cui occorre chiedersi «se gli Stati Uniti sceglieranno di essere i gendarmi della pax americana, la ricetta del disastro, o i partner delle altre potenze nella ricerca di un futuro più sicuro, più equo e più sostenibile». Una volta tanto, Stone non indulge nella denuncia del complotto di Stato come nel film sull'assassinio di John Kennedy: non abbraccia le ipotesi secondo cui Franklin D. Roosevelt congiurò perché i giapponesi attaccassero Pearl Harbour e George W. Bush congiurò perché Al Qaeda abbattesse le Torri gemelle. Stone sostiene solo che lo spirito imperiale, l'exceptionalism o unicità americana, spinse gli Usa a una politica estera aggressiva. In particolare, più che di Stalin la guerra fredda sarebbe stata responsabilità del vice di Roosevelt, subentratogli dopo la morte nell'aprile del 1945, il presidente Harry Truman. Egli usò l'atomica contro il Giappone ormai sconfitto, afferma Stone, sebbene i generali Dwight Eisenhower e Douglas MacArthur fossero contrari, e silurò così anche l'alleanza tra la Casa Bianca e il Cremlino. Stando al regista, se alla convention del 1944 i democratici conservatori non avessero scalzato il precedente vice di Roosevelt, Henry Wallace, pacifista e riformista, mettendo Truman al suo posto, il corso della storia sarebbe stato assai diverso. Wallace, sostiene Stone, era un uomo avanti di vent'anni, fautore tra l'altro della sanità di Stato e dell'integrazione razziale. La storia non narrata degli Stati Uniti illustra gli errori commessi, secondo gli autori, sulla scia della «dottrina Truman», dal maccartismo, la caccia alle streghe comuniste, alla guerra del Vietnam: a loro parere Kennedy, se non fosse stato ucciso, si sarebbe disimpegnato dal conflitto. Invece Bush ignorò i moniti dei servizi segreti su un possibile attentato di Al Qaeda, e s'impantanò in Iraq. Il regista e lo storico esortano gli americani a rivedere i propri miti e a ripensare la guerra fredda. Ma mentre l'iniziale responso popolare sembra positivo, e quello dei democratici più liberali entusiasta, non mancano le proteste degli studiosi. Uno di essi, Sean Wilenz della Princeton University, ha obiettato che Stone e Kuznick sottovalutano le colpe di Stalin e sopravvalutano Wallace, nel 1948 un misero candidato alla Casa Bianca per il partito progressista. La storia, aggiunge, non è mai fatta dai «se». Wilenz paragona i due autori a Carl Manzani, un comunista italiano naturalizzato americano che fu un analista dell'Oss, l'antesignano della Cia, e venne imprigionato nel '47 per un anno. In un libro del 1952, We Can Be Friends («Possiamo essere amici»), Manzani propugnò la stessa tesi. Stone e Kuznick ribattono che non è ancora stata fatta piena luce sul maccartismo. Di più. Il regista spera che libro e documentario restino come pietre miliari del filone revisionista, con Storia del popolo americano di Howard Zinn (Il Saggiatore) e Lies My Teacher Told Me («Le bugie che il mio insegnante mi ha detto») di James Loewen. Per me, spiega Stone, sarebbe l'Oscar più bello.



Deputati più devoti dei cittadini

Un quinto degli americani adulti non ha credo Ma al Congresso c'è solo un eletto senza Chiesa

di Marco Ventura Corriere La Lettura 9.12.12

Si chiama Krysten Sinema, viene dall'Arizona, ha 36 anni ed è l'unica tra gli eletti al nuovo Parlamento americano a dirlo: non appartengo a una religione, non mi riconosco in una Chiesa. Negli Stati Uniti la pensa come Krysten un adulto su cinque. Sono chiamati i nones, perché alla domanda «di che religione sei?» rispondono «nessuna». Per le statistiche sono gli unaffiliated: non hanno un'affiliazione religiosa tradizionale, anche se non necessariamente ripudiano la fede o negano Dio. Sono in numero crescente nel Paese, ma tra i deputati e i senatori che giureranno nel prossimo gennaio c'è solo Krysten a rappresentarli.

Ognuno dei 530 deputati e senatori eletti alle due camere del Congresso, ha una storia che nessuna etichetta può ridurre. Ai ricercatori del Pew Forum, accaniti misuratori di fede, interessano però i numeri, le percentuali, le tendenze. Nel rapporto appena pubblicato sulla composizione religiosa del centotredicesimo Congresso americano uscito dalle elezioni del 6 novembre scorso (cfr. «la Lettura» n. 55), le traiettorie individuali sfumano e si trasformano in dati e grafici. Emerge così la sproporzione. Mentre i tanti nones sono rappresentati dalla sola Krysten, i 465 membri del Congresso che si dichiarano cristiani superano la reale quota di cristiani nel Paese: poco più del 20 per cento degli americani adulti si dichiara cattolico, ma i congressmen cattolici sono il 30 per cento del totale; meno della metà degli adulti, negli Usa, si dichiara protestante, ma nel nuovo Congresso i protestanti sono il 56 per cento.
Anche i 32 parlamentari ebrei pesano in proporzione più del doppio della comunità ebraica nel Paese, mentre i 15 eletti mormoni fotografano il 2 per cento che si riconosce nella Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli ultimi giorni. Le altre minoranze sono, come nel caso di Krysten, più storie individuali che numeri. È stato rieletto Keith Ellison, primo deputato musulmano entrato al Congresso nel 2006. Tulsi Gabbard, veterana della guerra in Iraq eletta a Honolulu, diverrà in gennaio il primo deputato hindu di sempre. Mazie K. Hirono sarà la prima senatrice buddista. Mancherà invece il californiano Pete Stark: deputato democratico dal 1973, fu il primo rappresentante del popolo americano a dichiarare nel 2007 di non credere in un Essere superiore: per un singolare contrappasso, ha perso le ultime elezioni. Vi è infine una decina di eletti che ha scelto di non indicare alcunché nel proprio profilo, neppure unaffiliated: come la democratica Tammy Baldwin, prima omosessuale dichiarata ad essere eletta senatrice.
Dire di che Dio siamo è un esercizio mai ovvio. Le identità religiose sono scatole a sorpresa. Sotto la calma superficie dei grandi numeri protestanti e cattolici vi è un mare in tempesta. Negli ultimi cinquant'anni, i protestanti sono passati dai tre quarti dei seggi a circa la metà. Tra di essi, sono in ascesa i battisti e in calo luterani, anglicani e metodisti: questi ultimi si sono dimezzati dal 1962 a oggi. I pentecostali sono sottorappresentati rispetto alla loro presenza sociale. Ben 58 eletti, l'11 per cento del Congresso, si dichiarano protestanti senza specificare a quale Chiesa appartengano.
Il mare cattolico è non meno mosso. Quella cattolica romana è la singola Chiesa più rappresentata nel nuovo Congresso: i cattolici sono passati dal 18,8 per cento di cinquant'anni fa all'odierno 30,4 per cento degli eletti; e la percentuale sale al 37 per cento se si considerano i soli eletti per la prima volta. A differenza dei protestanti, decisamente repubblicani, i cattolici sono in equilibrio tra i due fronti, con lieve prevalenza democratica. Le ricerche del Pew Forum sugli elettori cattolici, circa un quarto dell'intero elettorato americano, descrivono un universo composito: tra i cattolici moderati, un sottogruppo che vale più del 30 per cento dell'intero elettorato cattolico, più della metà ha votato per Obama. Hanno scelto il presidente uscente anche più del 70 per cento dei cattolici bianchi progressisti e ispanici. Ha invece preferito il mormone Romney il 78 per cento dei cattolici bianchi conservatori, un fronte cui appartiene un elettore cattolico su quattro. La battaglia sull'etica naturale non ha ridotto le distanze tra sottogruppi cattolici. Tra i cattolici moderati, rileva ancora il Pew Forum, il 65 per cento è favorevole all'aborto legale e il 60 per cento al matrimonio tra persone dello stesso sesso.
La super maggioranza ebraico-cristiana degli eletti, 497 su 530 tra Camera e Senato, lascia per ora la nuova religione americana alle porte del Congresso. Migrazioni e tensioni nelle grandi Chiese sfuggono all'osservatore distratto. Gli evangelici fondamentalisti si diluiscono nel mare protestante. Non ci sono testimoni di Geova e membri di Scientology. I musulmani sono solo due. La fede «spiritual» non si vede. Se non fosse per Krysten, non ci accorgeremmo dei nones. Il profilo religioso del nuovo Congresso preserva una tradizione formatasi dalla metà del XIX secolo, quando il primo ebreo fu eletto, nel 1845, seguito nel 1851 dal primo mormone. Ma ora, dietro le apparenze del Congresso, sotto le forme religiose consolidate, quella tradizione cede il posto a qualcosa di nuovo. La fede va spesso negli Stati Uniti per rinnovarsi. È Dio che benedice l'America.

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