domenica 2 dicembre 2012
Questione nazionale e crisi del debito in Grecia parte 3
Ad Atene il ricordo dei crimini di guerra tedeschi ha quasi eclissato quello dell’aggressione italiana
di Sergio Romano
Corriere La Lettura 2.12.12
Non è giusto pretendere che i tedeschi continuino a espiare le colpe del
Terzo Reich. Hanno pagato quasi sempre i loro debiti, hanno innalzato
monumenti in onore delle loro vittime, hanno organizzato grandi
esposizioni storiche sulle malefatte del regime di Hitler, da cui
emergono, tra l'altro, anche le responsabilità della Wehrmacht. Ma è
probabile, forse inevitabile, che alcune colpe siano state riconosciute
con maggiore diligenza ed altre considerate più lievi, se non
addirittura giustificate dalle circostanze. Fra queste vi è
probabilmente l'occupazione tedesca della Grecia fra il 1941 e il 1944.
La Resistenza si è battuta duramente con i metodi e lo stile delle
popolazioni balcaniche. I tedeschi hanno reagito distruggendo villaggi e
spesso fucilando chiunque, fra gli uomini, avesse più di 14 anni. Ogni
forza d'occupazione vive, per quanto possibile, alle spalle degli
occupati (gli Alleati, in Italia, lo fecero stampando le lire con cui
avrebbero pagato le spese del loro soggiorno nella penisola), ma i
tedeschi in Grecia furono particolarmente arroganti, esosi, spietati e
indifferenti alle disastrose condizioni economiche della popolazione.
I cittadini della Repubblica federale lo avevano dimenticato, i greci
no. Gli insulti lanciati contro la cancelliera Merkel sui muri di
Exarchia, il turbolento quartiere degli anarchici vicino al Politecnico
di Atene, e le manifestazioni contro l'ambasciata di Germania sono le
pretestuose provocazioni di coloro che vanno a caccia d'incidenti. Ma
risvegliano ricordi che giacevano appena assopiti sul fondo della
memoria. Abbiamo assistito in Grecia, negli scorsi mesi, al
funzionamento di un ingranaggio perverso. Quanto più la stampa tedesca
impartiva lezioni e bacchettava il popolo greco, tanto più facilmente il
passato restituiva intatto alla società nazionale il ricordo
dell'occupazione. Il viaggio di Angela Merkel ad Atene il 9 ottobre è
stato un gesto di coraggioso buon senso. Ma ci vorrà del tempo perché i
fantasmi del passato ritornino nel subconscio da cui sono usciti.
Mi sono chiesto, durante un viaggio in Grecia, perché in questi ricordi
non vi sia anche un capitolo italiano. Il solo rimprovero mosso
all'Italia, nei giorni che ho passato ad Atene, è stato
storico-archeologico. È accaduto mentre stavo pranzando con una studiosa
dell'Università di Salonicco all'ultimo piano dello stupendo museo
dell'Acropoli inaugurato nel giugno del 2009. Avevo appeno ammirato le
grandi metope del tempio, ma alcuni restauri mi erano sembrati
eccessivi. È lecito ricostruire interamente un corpo umano quando i
pezzi rimasti rappresentano più o meno una decima parte dell'insieme?
L'archeologa mi ha risposto che esiste una buona documentazione a cui è
possibile fare riferimento e che comunque non è colpa dei greci se i
veneziani hanno bombardato l'Acropoli, demolito il tetto, abbattuto
alcune colonne, frantumato molte delle figure che decoravano i fregi del
tempio. Accadde nel 1687, quando il vecchio Francesco Morosini, detto
il Peloponnesiaco, era tornato in campo con una flotta per strappare ai
turchi Patrasso, Lepanto, Corinto, Atene. Ho risposto, per amor di
patria, che le cannonate del Morosini non avrebbero fatto tanti danni se
i turchi non avessero trasformato l'Acropoli in un arsenale pieno di
barili di polvere. Ma avrei avuto maggiori difficoltà se la mia
archeologa, anziché evocare l'ombra del Peloponnesiaco, avesse ricordato
la guerra che Mussolini e Ciano avevano dichiarato alla Grecia
nell'ottobre del 1940.
Ho scritto «Mussolini e Ciano» perché ciascuno dei due aveva il suo
personale obiettivo. Il primo era infastidito dalle vittorie tedesche,
temeva che la Germania, dopo la fine del conflitto, avrebbe dominato
l'Europa e lasciato all'alleato un posto di seconda fila. Voleva
dimostrare che l'Italia avrebbe fatto la «sua» guerra e che sarebbe
stata, al momento della pace, padrona del Mediterraneo orientale. Ciano,
invece, era deciso a conquistare un pezzo di Grecia per un Paese,
l'Albania, che considerava una sorta di principato personale. Aveva già
battezzato Porto Edda (dal nome della moglie, figlia di Mussolini)
l'isola che i veneziani chiamavano Santi Quaranta, e voleva regalare ai
suoi schipetari una zona dell'Epiro settentrionale, la Ciamuria, abitata
in parte da popolazioni albanesi.
La decisione d'invadere la Grecia fu presa a Palazzo Venezia, nel corso
di una riunione segreta con i vertici militari del regime, il 15 ottobre
1940. Il governo di Atene sarebbe stato accusato di avere fatto della
Grecia una base militare britannica. Vi sarebbe stato un falso incidente
di frontiera. Un ultimatum avrebbe intimato ai greci di consentire che
le truppe italiane entrassero nel loro Paese per presidiare alcune zone
strategicamente importanti. E per impedire qualsiasi manovra dilatoria,
ai greci sarebbe stato imposto di rispondere entro un tempo brevissimo:
tre ore. Per la stessa ragione fu deciso di mettere il ministro d'Italia
ad Atene di fronte a un fatto compiuto. Si chiamava Emanuele Grazzi,
aveva 51 anni, rappresentava l'Italia in Grecia dall'aprile del 1939 ed
era convinto che il Paese, benché molto legato alla Gran Bretagna,
avesse deciso di restare impeccabilmente neutrale. Capì che la guerra
era nell'aria durante una conversazione con Curzio Malaparte, arrivato
ad Atene dopo una seconda riunione di Palazzo Venezia per scrivere
articoli che avrebbero giustificato il conflitto. Malaparte gli disse
che il ministro Ciano lo aveva incaricato della seguente commissione:
«Di' a Grazzi che lui può scrivere quello che vuole, ma tanto io la
guerra alla Grecia gliela farò lo stesso».
La storia, da quel momento, divenne una tragica farsa. Il caso volle che
proprio in quei giorni il teatro nazionale avesse deciso di inaugurare
la stagione con la rappresentazione della Madama Butterfly di Giacomo
Puccini. Il direttore del teatro invitò ad Atene il figlio di Puccini,
dette un pranzo in suo onore e il giorno dopo, il 25 ottobre, si alzò il
sipario in una sala dove sedevano il re Giorgio II, la famiglia reale e
Ioannis Metaxas, primo ministro e dittatore dal 4 agosto 1936. Il
programma dei festeggiamenti italo-greci prevedeva che anche il ministro
italiano avrebbe organizzato un grande ricevimento la sera del 26
ottobre. La festa ebbe luogo, ma nelle ore in cui gli invitati, nei
salotti della Legazione, brindavano all'amicizia fra i due Paesi, i
funzionari della cancelleria stavano decifrando un lungo telegramma di
Palazzo Chigi (allora sede del ministero degli Esteri) che spiegava
minuziosamente tutto ciò che Grazzi avrebbe dovuto fare nella notte tra
il 27 e il 28 ottobre. Si sarebbe presentato alle tre del mattino di
fronte al cancello della villa di Metaxas, nel sobborgo ateniese di
Kifissià, e avrebbe detto alla sentinella che il ministro d'Italia
desiderava essere ricevuto «per una comunicazione urgentissima». Grazzi
dovette eseguire l'ordine e Metaxas, svegliato dalla sentinella, apparve
in veste da camera a una porticina di servizio. Passarono in un salotto
dove il premier greco si mise a sedere su una grande poltrona di cuoio
accanto a una finestra e fece sedere il visitatore di fronte a sé.
L'incontro durò meno di un quarto d'ora. Grazzi consegnò l'ultimatum,
Metaxas lo prese con mani leggermente tremanti, lo lesse e disse infine
«Alors c'est la guerre», allora è la guerra. Da allora la poltrona su
cui sedette Metaxas è religiosamente conservata dalla nipote nella casa
di Kifissià, insieme ad altri cimeli e documenti della vita del nonno.
Quanto alla poltrona di Grazzi, si racconta che una signora ateniese,
durante una visita, stesse per sedervisi e fosse stata trattenuta dalla
moglie del dittatore con queste parole: «No, non vi sedete su quella
poltrona. È quella dove si sedette Grazzi la notte della dichiarazione
di guerra».
Quando cominciarono le ostilità, Malaparte, preavvertito dal direttore
del «Corriere» Aldo Borelli, aveva già lasciato Atene. Quasi tutti i
suoi articoli, quindi, apparvero nelle prime settimane del conflitto.
Fece un quadro fosco del Paese, dal ritorno in patria dei greci di
Smirne, dopo la creazione della Repubblica turca sino al colpo di Stato
di Metaxas il 4 agosto del 1936. Scrisse che il regime poliziesco di
Metaxas «inaugurava per la Grecia quel periodo, protrattosi per oltre
quattro anni sino a questi giorni, di miserie, di oppressione, di
servitù, di corruzione e di delitti che ha ridotto l'infelice popolo
greco a un livello di abiezione nazionale e di schiavitù sociale mai
raggiunto nella sua storia di incomparabili grandezze e di incomparabili
miserie». Scrisse che Atene era una città dove «bande di spie occupano
in permanenza i caffè, i ristoranti, i ritrovi pubblici, i luoghi di
spettacolo, i tranvai, gli autobus», dove la folla aveva «dipinte nel
viso la diffidenza, la tristezza, la paura». Descrisse un Paese
abbrutito, privo di volontà, di orgoglio, di spirito civile. Proclamò
che quella dell'Italia era una guerra di liberazione: «una guerra
sociale, di liberazione sociale». Disse che l'Italia sarebbe andata in
Grecia per difendere «l'ordine morale, sociale, religioso sul quale si
fondano le più alte tradizioni di civiltà dei popoli mediterranei». E
invitò i suoi lettori a immaginare «quale immensa speranza di libertà
susciti, nel cuore della Grecia, la marcia vittoriosa delle truppe
italiane verso l'Acropoli di Atene».
Malaparte dimenticò o finse di non sapere che Metaxas era certamente un
dittatore, ma aveva preso a prestito, per creare il suo regime, riti,
formule e istituzioni del regime fascista: l'abolizione dei partiti, il
saluto romano, la politica sociale, l'economia corporativa,
un'organizzazione nazionale giovanile, un simbolo (labrys, l'ascia
bipenne dell'antichità minoica) che aveva nel folclore del regime il
ruolo del fascio e della croce uncinata. L'errore più grave di
Malaparte, tuttavia, fu il suo giudizio sulla società greca. Quel popolo
abulico, prostrato e privo di valori morali fermò gli italiani per
qualche mese sul fronte dell'Epiro e combatté con grande coraggio. Su
quella vicenda esiste un bel libro, mai invecchiato, di Mario Cervi
(Storia della guerra di Grecia. Ottobre 1940-aprile 1941, Rizzoli).
Resta da comprendere perché i greci non rinfaccino più frequentemente
all'Italia l'aggressione del 28 ottobre 1940. Forse perché l'occupazione
degli italiani fu alquanto diversa da quella dei tedeschi e il
confronto tra l'una e l'altra ha provvidenzialmente cancellato il
ricordo dell'aggressione.
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