lunedì 4 marzo 2013
Le origini strutturali dell'antisemitismo: il nuovo libro di Francesco Germinario
Questo libro sembra molto interessante nel suo approccio. Molto più interessante di altri testi di argomento analogo ma che hanno più a che fare con la teologia che con la storia. Bisogna però capire se il concetto di totalitarismo è usato proprio da Germinario o è solo una semplificazione del risvolto [SGA].
Risvolto
Nell’enorme bibliografia sull’argomento, spesso ha
prevalso un atteggiamento tendente a vedere nell’antisemitismo
un’eccezione nel quadro complessivo della cultura europea. Al contrario,
l’antisemitismo è da leggere quale componente di un pensiero politico
"rivoluzionario" ostile alla società borghese liberale e in aperta
concorrenza col socialismo e il marxismo.
L’antisemitismo si presenta
come un’ideologia di mobilitazione dei ceti medi timorosi di uno
sviluppo capitalistico che distrugga la proprietà, declinandosi quale
progressiva finanziarizzazione dell’economia. Da qui, di conseguenza, la
distinzione degli economisti antisemiti fra un capitalismo positivo e
il capitalismo aggressivo della «finanza ebraica», la domanda di un
«socialismo dei piccoli proprietari», l’elaborazione del concetto di
«razza» quale nuovo legame sociale che sostituisca quello, ritenuto
ormai corroso, della società borghese liberale, e, soprattutto, il
progetto di restituire al "politico" quel primato che, in epoca
capitalistica, sembra demandato alla «finanza ebraica». A questo punto,
l’antisemitismo, dopo che per decenni, attraverso sociologi ed
economisti, da Toussenel a Hamon, da Auguste Chirac a Malynski, aveva
polemizzato contro la finanziarizzazione dell’economia, è ormai
politicamente maturo per incrociare, subito dopo la prima guerra
mondiale, le suggestioni dei movimenti politici totalitari, portando in
dote una critica corrosiva della società borghese liberale.
La costruzione dell’ideologia antisemita
di Susanna Nierenstein Repubblica 3.3.13
Di Auschwitz si evita spesso di dare una spiegazione razionale, quasi
fosse un delitto da indagare attraverso la criminologia, la psichiatria e
non un mattatoio nato da un autentico progetto politico partorito dal
ventre dell’Europa. E invece se pensiamo all’enormità della sua
realizzazione è evidente quanto dietro la Shoah non possa che esserci
stata una forte prospettiva teorica, un sistema ideologico complesso,
anche se si fatica, si soffre a chiamare così l’odioso antisemitismo
fiorito nell’Ottocento, maturato nel ’900 nella sua contaminazione con
altre culture antidemocratiche, e infine inverato nel totalitarismo.
«Una teoria rivoluzionaria che dispone di una propria Weltanschauung» e
di una propria teoria economica mirate «a rovesciare la società borghese
liberale» «in aperta concorrenza col socialismo e il marxismo», animata
dallo stesso «attivismo antisistemico», la definisce, con un piglio
eretico che può meravigliare, uno storico da sempre a sinistra,
Francesco Germinario, studioso tra i più attenti delle ideologie e della
destra nel XIX e XX secolo, in questo Antisemitismo. Un’ideologia del
Novecento (Jaca Book, pagg. 247, euro 24).
Dunque l’antisemitismo non come pregiudizio scomposto, invasivo e
convulso, ma ideologia articolata e radicale che lascia alle spalle,
anche se non ne rinnega gli stereotipi, l’antigiudaismo cattolico.
Navigando nella vasta bibliografia sull’argomento, da Toussenel a
Drumont e Chirac, da Eckhart a Rosenberg e Hitler, Germinario parte dal
riassumere i tre pilastri su cui si sono via via fondate tutte le
declinazioni dell’antisemitismo: a) la convinzione che la storia umana
sia attraversata da una cospirazione dell’ebraismo volta a conseguire il
potere assoluto dell’umanità; b) la certezza che l’epoca borghese e
liberale corrisponda all’ebreizzazione del mondo, alla presa del potere
ebraica; c) infine la sicurezza che quella ebraica non sia una religione
ma una razza con caratteristiche biologiche e culturali comuni.
L’idea di Germinario è quella che l’antisemitismo si sia chiesto sempre
più, come le altre ideologie rivoluzionarie del momento, di rispondere
con una grande narrazione che legasse passato e presente alle domande
nate da una situazione storica angosciante, dove si erano stravolti
regni, assetti, poteri, modi di produzione, tradizioni, si erano
moltiplicati scontri sociali, povertà, guerre. E la narrazione (di cui
gli artefici cercano sempre di dimostrare le basi scientifiche per
reggere il confronto con le altre strategie rivoluzionarie) è quella
complottista, un aspetto che forse non è così forte nella prima fase,
quella di Toussenel e Tridon, ma poi, specie con Drumont, inizia a
definirsi saldando ed esaltando «le tematiche antisemite, specie quelle
anticapitaliste, di provenienza socialista col cospirazionismo di
provenienza cattolica»: è con i Protocolli dei Savi di Sion che si
assiste al salto decisivo, è qui e in quel che segue che si crea e si
rafforza la teoria secondo cui la Storia non è fatta dagli uomini, ma
tessuta dalle centrali occulte dell’ebraismo che nelle società borghesi e
liberali nuotano come pesci nell’acqua facendo credere ai popoli di
essere liberi ma in realtà dominando tutti con la finanza, e progettando
un futuro di tirannide. Una lettura della Storia che contesta
“l’individuo” del liberalismo e le “classi” del socialismo e riesce a
preconizzare un futuro di salvezza solo mettendo in campo le razze, da
un lato quella ebraica, da battere, il cui “attivismo diabolico” era
stato finora sottovalutato dall’umanità, dall’altro l’unica altra
concreta, naturalisticamente radicata nelle nazioni europee, l’unica su
cui si può fondare una politica, quella ariana. Ed è proprio il
matrimonio tra razzizzazione e cospirazionismo storico a cambiare
l’ultima faccia dell’antisemitismo novecentesco perché declinare
biologicamente il nemico voleva dire escludere con esso ogni
compromesso, e l’unica via per disfarsene diventava lo sterminio.
Germinario, dopo aver lungamente analizzato le metamorfosi dell’antisemitismo, si ferma al 1933. Peccato.
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