lunedì 15 aprile 2013
Dewey socialista e Cina turbocapitalista: così va il mondo secondo Carlo Sini
Da una parte il minimalismo neoliberista dall’altra il «socialismo logico» C’è ancora un New Deal a cui ispirarci per evitare il declino del Vecchio Continente? Il confronto con gli States non riguarda soltanto il mercato e l’economi Ci sono modelli politici e culturali che possono esserci utili e altri da evitare con cura
di Carlo Sini l’Unità 15.4.13
L’APPELLO DEL DOCUMENTO DI FABRIZIO BARCA A UNA DEMOCRAZIA DELIBERATIVA
FONDATA SULLO SPERIMENTALISMO SUSCITA IL RICORDO DI VICENDE E DI
PENSIERI che hanno contrassegnato l’orizzonte politico degli Stati Uniti
nel corso del Novecento. Non a caso, infatti, Barca cita il mondo
industriale avanzato degli anni Trenta in America, nato dalla grande
crisi del ’29 (tante volte evocata anche ai nostri giorni) e dalla
apertura del New Deal, cioè da un nuovo patto tra lavoro e industria e
dalla funzione mediatrice dello Stato, volta al superamento, come dice
appunto Barca, della contrapposizione tra capitale e lavoro.
Questo cammino, continua Barca, venne accantonato bruscamente negli anni
Settanta, quando alla ispirazione socialdemocratica si sostituì il
minimalismo neoliberista che è tuttora prevalente, nonostante i
correttivi che il presidente Obama tenta, con alterna fortuna, di
imporre. Barca mette in luce i limiti sia del pensiero
socialdemocratico, elitario e dirigista, sia della presunzione
tecnologica e formale dei neoliberisti (illusi che le organizzazioni
multinazionali possano farsi carico davvero dell’interesse generale).
Propone invece una diffusa mobilitazione cognitiva che esca dalle
ambiguità e dalle storture della democrazia di massa e che inauguri
invece una politica ampiamente partecipativa: una politica che sappia
coniugare principio di competenza e principio di maggioranza,
trasformando l’azione politica mediatrice dei partiti in una sorta di
palestra sempre aperta delle decisioni e delle idee condivise.
Mi pare che taluni aspetti delle tesi qui molto succintamente richiamate
rievochino certe vicende classiche del capitalismo americano, delle
quali non sarà forse inutile fare qui un breve cenno. Anzitutto la
vicenda del cosiddetto darwinismo sociale, cioè della teoria di Herbert
Spencer che applicava alla società il principio darwiniano della
selezione naturale. Suo massimo rappresentante fu in America William
Graham Sumner, professore a Yale. Se non vogliamo la sopravvivenza del
più adatto, scriveva Sumner alla fine dell’800, dobbiamo accettare la
sopravvivenza del meno adatto, cioè il contrario della civilizzazione.
Perciò bisogna opporsi a ogni ingerenza dello stato a favore dei più
deboli. I più adatti, cioè i milionari diceva Sumner, sono invece
l’evidente e benefico prodotto della selezione naturale nella società.
Gli faceva eco John Rockefeller: «Io credo che la capacità di fare
denaro sia un dono di Dio. È mio dovere far denaro e poi ancora denaro e
sempre più denaro...». A questa filosofia dell’avidità, come la
definì Charles Sanders Peirce, si opposero all’inizio del ‘900 i
filosofi del pragmatismo, cioè della più grande e più originale
corrente di pensiero nata negli Stati Uniti. William James dimostrò
efficacemente che applicare alla società i principi della selezione
darwiniana era un non senso scientifico, se non altro perché la
selezione naturale si misura in milioni di anni, mentre le
trasformazioni della società solo in migliaia. Peirce mostrò a sua
volta che ogni comportamento egoistico è profondamente irrazionale e
destinato al fallimento. Nessun individuo, sosteneva Peirce, è in grado
di incarnare la verità. L’opinione individuale è sempre
caratterizzata da idiosincrasia ed errore, mentre la verità è una
formazione sociale, è un lungo cammino di tentativi, di ipotesi e di
verifiche di fatto mai concluse. La verità è pubblica sicché, dice
oggi Barca, è un errore ritenere che alcuni o pochi siano in possesso
delle conoscenze adeguate per decidere dell’interesse generale. «La
logicità inesorabile, scriveva Peirce, chiede che i nostri interessi
non siano limitati. Essi non devono fermarsi al nostro destino
personale, ma devono abbracciare l’intera comunità. Questa comunità, a
sua volta, non deve essere limitata, ma deve estendersi a tutte le
razze di esseri con i quali possiamo venire in relazione immediata e
mediata».
Questo «socialismo logico», come venne definito, trovò la sua
traduzione strumentale e scientifica in John Dewey, il filosofo più
rappresentativo dell’America della prima metà del ‘900 e del New Deal.
Democrazia ed educazione furono le sue parole d’ordine, volte a fare
della scuola un’industria di idee al lavoro e della fabbrica un luogo di
sperimentazione culturale in atto.
Idee generose e intelligenti, ma segnate da alcune contraddizioni che da
sempre disegnano il doppio cuore dell’America. Da un lato la vocazione
fortemente individualistica e ribellistica, ostile a ogni ordinamento
statale dall’alto: una vocazione che, senza la rozzezza della sociologia
da milionari di una volta, nondimeno considera ancora oggi ogni
intervento a favore del bene comune e a difesa dei più deboli una
eresia e un’intrusione intollerabile. Obama ne sa appunto qualcosa. Da
un altro lato una forte vocazione comunitaria, con evidenti radici
religiose, profetiche e millenaristiche. Idee destinate a piccoli gruppi
elitari, oppure alle degenerazioni del moralismo di massa e dell’etica
dei predicatori da video, dai quali Barca è ben attento a distanziarsi.
Quando egli evoca la messa in opera di processi di mutuo apprendimento,
che nascano dalla vita concreta, dalle esperienze dal basso, per
affrontare il confronto con le conseguenze e per accogliere la
necessità di continue modifiche in itinere, riproduce di fatto e alla
lettera molte delle idee di Dewey. Idee destinate, nel loro tempo, a una
élite politica, industriale e intellettuale che ne fu certamente
influenzata. Idee che non riuscirono però a imporsi davvero, per essere
infine del tutto dimenticate o disattese. Idee la cui diffusione a
livello di comprensione e di condivisione popolare sembra di ben
difficile attuazione anche oggi. Almeno due grandi ostacoli vi si
oppongono. Da un lato la mercificazione mediatica della vita collettiva
che distoglie i più da una partecipazione spontanea all’impegno
politico reale. Dall’altro la grande tragedia attuale delle centinaia di
milioni di lavoratori e di lavoratrici impiegati come schiavi nelle
fabbriche-dormitorio cinesi, in connivenza con i capitali internazionali
e con le autorità locali (si veda Pun Ngai, Cina. La società
armoniosa. Sfruttamento e resistenza degli operai migranti, Jaca Book
2012): modello di produzione globale del profitto che di fatto
capillarmente e quotidianamente ci governa e che, restando egemone,
riduce di molto i nostri orizzonti politici.
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