Golpe contro la CostituzioneObama non ha giustificazionidi Daniel Ellsberg Repubblica 11.6.13
Che
equivale di fatto a un “golpe esecutivo” contro la Costituzione Usa. A
partire dall’11 settembre la Carta dei diritti per la quale questo Paese
lottò più di 200 anni fa è stata revocata — dapprima segretamente, poi
in maniera sempre più aperta. In particolare il quarto e quinto
emendamento della Costituzione Usa, che tutelano i cittadini contro
l’arbitraria intrusione del governo nella loro esistenza privata, sono
stati praticamente sospesi.
Il governo sostiene di aver agito con un
mandato del tribunale emesso sulla base della Fisa (Atto sulla
sorveglianza e l’intelligence straniera). Quel mandato, ampiamente
incostituzionale, proviene però da un tribunale segreto, lontano da ogni
effettiva supervisione e quasi completamente sottoposto all’esecutivo. È
dunque assurdo che il presidente dichiari che tutto sia avvenuto sotto
il controllo giudiziario — così come assurda è la presunta funzione di
controllo esercitata dai comitati di intelligence del Congresso. Il
fatto che i leader del Congresso siano stati “convocati” su questo
aspetto senza aprire alcun dibattito, proporre udienze o indagini e
sottraendolo quindi a qualsiasi effettiva possibilità di un vero e
proprio confronto, dimostra solo quanto in questo Paese il sistema dei
controlli e dei contrappesi si sia spezzato.
Naturalmente gli Stati
Uniti non sono diventati uno stato di polizia. Se scoppiasse una guerra
capace di scatenare un movimento pacifista su larga scala — come quello
che nacque per contrastare la guerra in Vietnam — o, com’è più
probabile, se subissimo nuovamente un attentato della magnitudine di
quello dell’11 settembre, oggi avrei motivi di temere per la nostra
democrazia.
La segretezza, e in particolare la segretezza
dell’intelligence delle comunicazioni, si basa su motivazioni legittime.
Ed è questo il motivo per cui Bradley Manning ed io scegliemmo di non
rendere pubblica alcuna informazione ritenuta tale.
Né il presidente
né il Congresso possono revocare, da soli, il quarto emendamento — ed è
per questo che quanto rivelato da Snowden sino ad oggi era stato tenuto
nascosto al popolo americano. Nel 1975 il senatore Frank Church parlò
dell’Agenzia per la sicurezza nazionale in questi termini: «Ha la
capacità di instaurare in America una tirannia totale, e dobbiamo
assicurarci che questa agenzia e tutte le agenzie dotate di questa
tecnologia operino all’interno della legge e vengano opportunamente
controllate ». Ciò su cui Church ci metteva in guardia era la capacità
dell’intelligence americana di raccogliere informazioni. Grazie alle
nuove tecnologie digitali, oggi Nsa, Fbi e Cia possono controllare i
cittadini con una precisione che la Stasi — la polizia segreta dell’ex
Ddr — non si poteva nemmeno sognare. Snowden ci rivela che la cosiddetta
“comunità dell’intelligence” si è trasformata nella Stasi Unita
d’America.
Siamo dunque precipitati nell’abisso tanto temuto dal
senatore Church. Adesso che Edward Snowden ha rischiato la propria vita
per farci sapere cosa sta accadendo, con un gesto di coraggio civile che
probabilmente indurrà altri individui in possesso di dati analoghi e
dotati di una coscienza e un patriottismo simili al suo a fare
altrettanto — nella sfera pubblica, nel Congresso, nello stesso ramo
esecutivo — intravedo l’inattesa possibilità di risalire, e uscire,
dall’abisso.
Facendo pressione sul Congresso affinché costituisca un
comitato apposito per indagare sulle rivelazioni di Snowden, un’opinione
pubblica informata potrebbe ricondurre sotto un’effettiva supervisione
la comunità dell’intelligence, limitandone il campo d’azione e
ripristinando così le garanzie sancite dalla Carta dei diritti.
Snowden
ha fatto ciò che ha fatto perché ha visto i programmi di sorveglianza
della Nsa per quel che sono: un’attività incostituzionale e pericolosa.
Questa invasione su larga scala della privacy dei cittadini americani e
stranieri non contribuisce alla nostra sicurezza, ma mette a rischio le
stesse libertà che desideriamo tutelare.
© The Guardian — La Repubblica (Traduzione di Marzia Porta)
In America è boom di vendite per il libro "1984"
L’opera
deve il suo nuovo successo allo scandalo scoppiato dopo le rivelazioni
del giovane informatico Edward Snowden, che ha svelato al mondo alcuni
dettagli sul programma di sorveglianza dell’intelligence statunitenseLuisa De Montis
- il Giornale
Mar, 11/06/2013
Le porte aperte al Grande Fratello
di Stefano Rodotà Repubblica 13.6.13
SI
PUÒ e si deve essere indignati e scandalizzati dalla notizia di una
rete elettronica di sorveglianza con la quale gli Stati Uniti hanno
avvolto il mondo. Ma non ci si può dire sorpresi. Da anni, infatti, si
assiste ad una convergenza tra sottovalutazione della privacy, crescita
degli strumenti elettronici di controllo, enfasi posta sulla lotta al
terrorismo ed alla criminalità. E non sono mancate le informazioni che
mostravano come soggetti pubblici e privati avessero adottato, con
diversi gradi di intensità, la logica secondo la quale la semplice
esistenza di tecnologie sempre più penetranti e pervasive legittimava il
ricorso ad esse in qualsiasi situazione.
Si stava abbattendo
sull'intero pianeta quello che, già nel 2008, un gruppo di ricerca
dell'Unione europea definiva un “digital tsunami”, destinato a
travolgere gli strumenti giuridici che garantiscono non solo l'identità,
ma la stessa libertà delle persone, aprendo la strada a una radicale
trasformazione delle nostre organizzazioni sociali, che vuol far
diventare la sicurezza l'unico criterio di riferimento. Soggetti
pubblici e privati si sono impadroniti di questa nuova opportunità,
mentre rimanevano deboli o inesistenti le reazioni politiche.
Evenivano
dileggiati o trascurati gli allarmi delle associazioni dei diritti
civili e del “popolo della rete”. Sempre nel 2008, il rapporto di una di
queste associazioni, Statewatch, criticava duramente l'abbandono del
principio secondo il quale le raccolte private di informazioni sulle
persone devono essere garantite contro l'accesso generalizzato da parte
dello Stato a favore dell'opposto principio, che legittima l'accesso a
qualsiasi dato personale con l'argomento, appunto, della sicurezza.
Questo
scivolamento verso forme di democrazia “protetta” è ormai davanti ai
nostri occhi, ed è stato descritto con i dettagli che ormai conosciamo
bene e che mettono in evidenza come i tabulati telefonici, gli accessi a
Internet, l'uso delle carte di credito, il passaggio quotidiano davanti
a telecamere di sorveglianza, e via elencando, compongano un paesaggio
all'interno del quale si muove una persona che lascia continue tracce,
implacabilmente seguite, che consentono un ininterrotto “data mining”,
una possibilità di sottoporre ogni individuo ad una sorveglianza
continua attingendo all'universo sterminato delle banche dati come ad
una miniera a cielo aperto. Non più la “folla solitaria” delle
metropoli, dove la persona poteva scomparire, ma persone “nude”,
spogliate d'intimità e di diritti.
Questo è il mondo nuovo che
descrive il “Datagate”. Un mondo pazientemente costruito anche con
iniziative costituzionali, che negli Stati Uniti sono state definite con
nomi come Patriot Act e, oggi, Prism. Iniziative che hanno una lunga
storia e che, in altri momenti, si è cercato di contrastare. Vorrei
ricordare che, proprio all'indomani dell'11 settembre, il Gruppo dei
garanti europei per la privacy, per iniziativa dell'Italia, sollevò con
molta forza il problema e ingaggiò un vero braccio di ferro con
l'amministrazione americana che, per la prima volta nella sua storia, si
dotava di un ministero dell'Interno, il Department of Homeland
Security. I termini del conflitto furono subito chiarissimi. Si partiva
dai dati dei passeggeri delle linee aeree, di cui si voleva conoscere
ogni minuto dettaglio, dal modo in cui era stato acquistato il biglietto
alla eventuale dichiarazione di abitudini alimentari. Non si dava
nessuna vera garanzia sul modo in cui quei dati sarebbero stati
utilizzati e sulle concrete possibilità di ricorso a un giudice nel caso
di violazioni. Compariva con chiarezza la cancellazione tra dati
raccolti da soggetti pubblici o da soggetti privati, e si creava un
gigantesco conglomerato all'interno del quale le varie agenzie per la
sicurezza avrebbero potuto muoversi liberamente. La questione assumeva
una rilevantissima importanza politica, perché implicava la capacità
dell'Unione europea di difendere efficacemente il diritto d'ogni persona
alla protezione dei dati personali, la cui rilevanza e autonomia erano
state appena riconosciute dalla Carta dei diritti fondamentali del 2000.
Emerse allora una sorta di schizofrenia istituzionale, con un'alleanza
tra Parlamento europeo e Gruppo dei garanti, mentre la Commissione
finiva troppo spesso per comportarsi più come portavoce che come
controparte delle pretese degli Stati Uniti. Ci accorgiamo oggi del
fatto che, in quel conflitto, erano presenti tutti gli elementi che oggi
ritroviamo nel Prism. Mancanza di tutele effettive (la corte di
garanzia agisce in segreto), accesso all'enorme serbatoio offerto da
soggetti privati come Google o Facebook, nessun rispetto dei diritti dei
cittadini degli altri paesi, ai quali si negano i diritti esercitabili
da quelli americani. Allora si riuscì ad ottenere qualche risultato non
trascurabile. Ma oggi? Che cosa si intende fare di fronte a una
situazione assai più grave di quelle del passato?
La Commissione
europea, dopo essere stata reticente di fronte alle interrogazioni dei
parlamentari che chiedevano informazioni perché già circolavano notizie
sulla rete americana di sorveglianza, non ha reagito con l'immediatezza e
la decisione che sarebbero state necessarie, confermando una sorta di
subalternità di fronte agli Stati Uniti, evidente in molti casi degli
anni passati in cui assai debole è stata la sua difesa della privacy.
Dal Parlamento si dovrebbe attendere una reazione non ispirata alle
reticenze con le quali, all'inizio del 2000, venne affrontato il caso
allarmante della rete di sorveglianza più nota all'epoca, Echelon. E gli
Stati europei? Un segnale sembra venire solo dalla Germania. Inquieta
la passività degli altri, prigionieri tutti della logica di una
sicurezza insofferente d'ogni limite, tanto che più d'un paese europeo
si esercita anch'esso in spericolate iniziative di sorveglianza. Il
Governo italiano rimarrà parte di questo coro silenzioso?
Bisogna
ripetere che, di fronte a vicende come questa, la parola privacy è
inadeguata o, meglio, deve essere sempre più intesa come un riferimento
che dà fondamento concreto a questioni ineludibili di libertà e
democrazia. L'erosione della privacy, la sua negazione come diritto e
come regola sociale, non avviene soltanto all'insegna della sicurezza,
ma anche di una pressione economica di tutte quelle imprese che vogliono
considerare i dati personali come proprietà loro, come una tra le tante
risorse liberamente disponibili. Espropriata dei suoi dati, la persona
si fa merce tra le altre. Libertà e democrazia, dunque, rischiano
d'essere schiacciate nella tenaglia di sicurezza e mercato.
Terra di
diritti, regione del mondo dove più alta è la tutela comune della
privacy, proprio in questo momento l'Europa deve essere consapevole di
avere la responsabilità di poter essere un attore decisivo in questa
grande partita politica. Nel momento drammatico del conflitto seguito
all'11 settembre, nel febbraio del 2002, la più grande organizzazione
americana per la tutela dei diritti civili, l'American Civil Liberties
Union, pubblicò un documento con il quale invitava l'amministrazione
americana ad abbandonare la pretesa di imporre all'Europa le proprie
regole, facendo propri, invece, i principi di libertà che in quel
momento gli europei difendevano. Oggi dovremmo avere memoria di quelle
parole, creando le condizioni perché possano ancora essere pronunciate.
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