ARTICOLO - Raffaele Laudani il manifesto 2013.07.06 - 18 PAGINE
Il 2 settembre 1839, mentre il pubblico «beveva, faceva a pugni,(...)
sputava per ogni dove tabacco masticato» e «le prostitute proponevano i
loro servigi nel loggione», il Bowery Theatre, il più grande teatro
popolare di New York, metteva in scena uno dei tanti melodrammi
marinareschi allora in voga: The Black Schooner, or The Pirate Slaver
Armistead , che raccontava il «recente e incredibile episodio di
pirateria e ammutinamento» verificatosi a bordo della goletta negriera
spagnola «La Amistad». Qui, il 1 luglio dello stesso anno, un gruppo di
africani della Sierra Leone destinati a lavorare nelle piantagioni
cubane di Puerto Principe era riuscito a liberarsi dei ceppi che li
immobilizzavano sottocoperta. Armati di machete, avevano ucciso il
capitano della nave e preso possesso dell'imbarcazione con l'obiettivo
di fare ritorno a casa in Africa, prima che una nave da pattuglia della
marina militare statunitense li abbordasse a largo di Long Island e li
consegnasse nelle prigioni di New Haven (Connecticut) con l'accusa di
pirateria. Di lì a poco avrebbe avuto inizio uno dei più celebricasi
giudiziari della storia degli Stati Uniti, che alcuni ricordano nella
versione cinematografica di Steven Spielberg (1997). La tournée degli
insorti Curiosa scelta quella dei gestori del Bowery Theatre, il cui
pubblico era stato protagonista qualche anno prima di una violenta
sommossa antiabolizionista. Curiosa ma azzeccata: l'opera fu un vero e
proprio successo al botteghino, vista da oltre quindicimila persone,
circa un newyorkese su venti. Era l'inizio di un poderoso processo di
spettacolarizzazione del caso, che vide folle oceaniche di curiosi
pagare «uno scellino di York» (12,5 centesimi di dollaro) per entrare in
carcere e osservare dal vivo i «pirati neri» dell'Amistad. I quali,
dopo la loro scarcerazione, furono anch'essi impegnati in una tournée
per gli Stati Uniti in cui misero in scena la loro storia per
raccogliere i fondi necessari a sostenere la spedizione che avrebbe
dovuto riportarli in Africa da uomini liberi. Anche la versione di
questa vicenda data recentemente alle stampe da Marcus Rediker ( La
ribellione dell'Amistad. , Feltrinelli, pp. 318, euro 20) non sfugge a
questa dinamica di drammatizzazione. Diversamente dalla versione
hollywoodiana di Spielberg, che celebra il sistema giudiziario americano
e la sua capacità «liberale»" di resistere alle pressioni altolocate
dei sostenitori dell'«istituzione peculiare» della schiavitù, in questo
caso però il racconto recupera la sua originaria dimensione atlantica ed
è riconsegnato al protagonismo dal basso dei rivoltosi, capaci di
«decidere autonomamente del proprio destino» e di sovvertire il
«microcosmo galleggiante della nave negriera» in una vera e propria
«epopea della libertà». In linea con una ricerca storiografica più che
ventennale, nota al pubblico italiano soprattutto per I ribelli
dell'Atlantico (Feltrinelli, 2004), scritto a quattro mani con Peter
Linebaugh, e per alcuni volumi sulla pirateria ( Sulle tracce dei pirati
, Piemme 1996; Canaglie di tutto il mondo. L'epoca d'oro della
pirateria , Elèuthera, 2005), lo sfondo su cui Rediker colloca questo
dramma è il mare. Vi si respira la stessa atmosfera cosmopolita dell'
Incredibile storia di Olaudah Equiano, o Gustavus Vassa, detto
l'africano (Epoché, 2008) e di altri simili racconti autobiografici
dell'Atlantico ribelle. Qui tutto è mare, spazio aperto alla
circolazione e al movimento; anche i fiumi che, visti da questa
prospettiva, diventano prolungamenti entroterra delle acque oceaniche,
come se il mondo fosse una grande laguna navigabile nella quale città,
porti e insediamenti costieri operano da nodi logistici di un viaggio
senza fine nel quale l'uomo di mare inventa e reinventa di volta in
volta la propria soggettività. Da quest'angolatura, la storia dei
ribelli dell'Amistad perde molti dei tratti «americani» che Spielberg le
ha voluto assegnare. Al pari della fortezza schiavista di Lomboko sulla
costa africana di Gallinas nella quale gli schiavi vengono portati
prima di essere imbarcati per il Nuovo Mondo sulla «Teçora», o delle
baracche di L'Avana nelle quali sono temporaneamente detenuti prima di
imbarcarsi sull'Amistad, gli Stati Uniti sono infatti solo uno degli
snodi territoriali in cui si scandisce la circolazione marittima del
desiderio di libertà e autonomia che anima questo gruppo di donne e di
uomini. Per Rediker la nave è un vero e proprio spazio politico, una
floating factory nella quale si condensano tanto le istanze ordinative e
disciplinanti del capitalismo moderno, quanto i processi di
soggettivazione e di solidarietà proletaria che a quelle istanze
resistono. Ciò vale in modo particolare per la nave negriera, di cui già
Paul Gilroy aveva messo in luce la centralità per la definizione
dell'identità nera ( The Black Atlantic , Meltemi, 2003) e alla quale
Rediker ha dedicato nel 2007 un volume importante ora in corso di
traduzione italiana presso Il Mulino ( The Slave Ship. A Human History ,
Viking).Così, se nel film di Spielberg le vicende a bordo dell'Amistad
costituiscono solo l'antefatto di una storia che si svolge a terra,
nelle aule giudiziarie statunitensi, nella versione di Rediker centrale è
invece proprio l'esperienza a bordo delle due navi negriere. E lì
infatti che un gruppo di uomini e donne catturati nei loro villaggi
d'origine in Africa e inseriti forzatamente nei circuiti atlantici del
commercio coloniale si reinventano «africani» e, più precisamente,
«popolo Mendi» (dal nome del gruppo etnico maggioritario sull'Amistad).
Il volume di Rediker racconta il «farsi» di questo movimento, delle
modalità che durante l'attraversamento della «grande acqua» hanno
portato un gruppo di africani di estrazione etnica e linguistica
differente a dare vita a un soggetto politico radicale. Tra queste
particolarmente significative sono le palaver (dal portoghese palavra ,
parola), una pratica a quel tempo molto diffusa in Africa Occidentale,
che prevedeva sedute assembleari nel bari (casa comune) per risolvere le
controversie sorte tra i membri della comunità, nel corso delle quali i
partecipanti erano chiamati a combinare il rigore intellettuale con
l'arguzia e i toni patetici per costruire consenso diffuso attorno alle
proprie posizioni. Nel contesto «occidentale» della tratta negriera le
palaver divennero un efficace strumento per trasformare la «fratellanza»
costruita nell'oppressione in azione politica condivisa, pur senza
annullare le differenze culturali e le diverse opinioni sul da farsi
esistenti tra i ribelli. È all'interno di questo particolare modello di
democrazia dal basso che è emersa la leadership di Joseph Cinqué, la
figura con cui ancora oggi si identifica la ribellione dell'Amistad, che
nel racconto di Rediker emerge più per le sue capacità «discorsive» di
interprete delle comuni aspirazioni dei «fratelli» africani, che per le
sue indubbie doti di guerriero, condivise del resto anche da altri
protagonisti della rivolta. Curiosamente, mentre l'immaginario popolare
del periodo provava già a integrare Cinqué nel pantheon degli eroi
«americani», quest'ultimo e gli altri ribelli dell'Amistad riuscivano a
imporre il modello «africano» delle palaver anche come base per un
dialogo tra pari con i militanti abolizionisti. Nelle intenzioni degli
africani questi dovevano infatti limitarsi a tradurre nel linguaggio
giuridico occidentale le proprie richieste. Così, ad esempio, il giovane
undicenne Kale poteva scrivere senza alcun imbarazzo all'ex presidente
degli Stati Uniti John Quincy Adams, incaricato di difendere i ribelli
africani di fronte alla Corte Suprema: «Vorremmo che lei domandasse al
tribunale che cosa abbiamo fatto di male. Perché gli americani ci
tengono in prigione?» Un'alleanza contigente Rediker descrive i rapporti
tra i ribelli africani e i loro amici abolizionisti nei termini di una
«alleanza» tra movimenti portatori di interessi affini ma non
coincidenti. Per il movimento abolizionista, la vicenda dell'Amistad era
un'occasione per portare avanti la «riforma morale» della nazione (e
dei «selvaggi» africani). Per i ribelli dell'Amistad i progetti
civilizzatori degli abolizionisti erano invece subordinati all'obiettivo
primario del ritorno a casa. Nello stesso modo in cui abbracciarono con
curiosità gli usi e i costumi cristiani nel corso del processo e delle
fasi preparatorie della spedizione che li avrebbe portati a casa,
convinti dagli abolizionisti che questo avrebbe favorito il consenso
popolare verso la loro causa, non esitarono a riprendere i loro abiti e
le loro abitudini africane non appena rientrati in Africa, quando
capirono che di quella missione civilizzatrice essi sarebbero stati più
il tramite che non i protagonisti. In realtà, i processi di ibridazione
tra i due movimenti furono molto più ampi di quanto gli stessi attori
non fossero disposti ad ammettere. La stessa definizione di «popolo
Mendi» è inconcepibile al di fuori di questa relazione: come spiega
Rediker, la sua «condensazione» è stata infatti «un diretto correlato
dell'apprendimento dell'inglese e della dottrina cristiana» e al tempo
stesso un «fenomeno di resistenza» di fronte «alle insistenze degli
abolizionisti» di «fare degli africani dell'Amistad uomini nuovi».
Similmente, il mito dell'Amistad è stato decisivo per la
radicalizzazione del movimento abolizionista statunitense. Quella
vicenda dava infatti un nuovo significato alla «filosofia della riforma»
abolizionista: «chi professa di sostenere la libertà e tuttavia depreca
le agitazioni - avrebbe spiegato qualche anno più tardi Frederick
Douglass - vuole l'oceano senza il terribile scrosciare delle sue tante
acque», perché «il potere non concede nulla senza un'insistita
richiesta». Di lì a poco il capitano John Brown avrebbe preso in parola
questo suggerimento dando fuoco alle polveri a Harper Ferry. Era il
preludio alla guerra civile che avrebbe posto fine alla schiavitù.
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