lunedì 11 novembre 2013

Il tradizionale "internazionalismo" aggressivo della socialdemocrazia rialza la testa in Francia



La vera linea di frattura tra socialdemocrazia e comunisti non passa per il nodo riforme-rivoluzione, che sarebbe una baggianata, ma per quello del colonialismo [SGA].

La Francia «neocon» che spiazza il mondo
Dall’Africa alla Siria all’Iran, Parigi scavalca Washington come gendarme d’Occidente 


di Stefano Montefiori Corriere 11.11.13

PARIGI — Il demonio a Teheran oggi è Le Grand Satan , la Francia, che ha strappato all’America il primato di nemico occidentale preferito. 
A Los Angeles invece «Stasera mangio French Fries», esulta l’ex portavoce americano alle Nazioni Unite, Richard Grenell, che 10 anni fa si indignava per il no di Chirac e Villepin alla guerra in Iraq e partecipava alla campagna di odio anti-francese (tra boicottaggio delle patatine al Congresso e litania di insulti ai «francesi arrendevoli scimmie mangiarane») 

I tempi sono cambiati. I falchi della politica internazionale sembrano non volare più a Washington ma a Parigi, e su tutti i dossier più delicati, dalla Siria all’Iran: il 31 agosto il presidente Hollande aveva già deciso per i raid aerei su Damasco, ed è stata solo la marcia indietro di Barack Obama a fargli disarmare i missili Rafale già pronti a colpire. La fiaccola del regime change , la formula neocon applicata dieci anni fa a Bagdad, è ora impugnata da Parigi, la prima a proclamare già un anno fa che «Bashar Assad se ne deve andare» da Damasco. 
In Africa, dal Mali alla Repubblica Centrafricana, la Francia è in prima linea. In Medio Oriente è la Francia a tenere il discorso più intransigente sull’Iran, a evocare l’uso della forza per costringere gli ayatollah a rinunciare alla bomba atomica, mostrandosi in questo più vicina a Israele di quanto non faccia l’America, alleato storico dello Stato ebraico. 
Il ruolo di baluardo degli interessi e valori dell’Occidente, almeno nel gioco diplomatico e della visibilità mediatica, sembra essere passato dagli Stati Uniti — che vogliono guidare from behind , dalla retroguardia — alla Francia, che teorizza il suo essere una «potenza di influenza»: con poche armate e pochissimi droni, è vero, ma con una rinnovata determinazione politica. 
Così succede che Laurent Fabius sia giudicato il maggiore se non l’unico responsabile della mancata intesa alla fine dei colloqui di Ginevra tra i «5 + 1» ( Stati Uniti, Cina, Regno Unito, Francia, Russia più Germania) e Iran. La Francia non si è fidata delle aperture del ministro iraniano Zarif, e ha preteso una rinuncia esplicita al reattore di Arak, che una volta completato potrebbe fornire il plutonio sufficiente per fabbricare ordigni nucleari e rendere così ininfluente l’addio iraniano all’arricchimento dell’uranio. 
Il Quai d’Orsay sostiene che nella bozza di accordo provvisorio — di una durata di sei mesi — discussa a Ginevra l’Occidente allentava sì le sanzioni all’Iran, ma in cambio non otteneva alcuno strumento concreto per fermare il programma atomico degli ayatollah. Meglio nessun accordo che un cattivo accordo, e Fabius si è precipitato ad annunciarlo per primo alla radio France Inter. Una esposizione di cui gode ora frutti, e svantaggi. 
Il ministro degli Esteri francese raccoglie gli inabituali complimenti degli americani intransigenti — «La Francia ha avuto coraggio. Vive la France!» (il senatore conservatore John McCain) — e gli insulti di tanti iraniani che sabato notte si aspettavano l’inizio di una nuova era nei rapporti tra Teheran e l’Occidente. 
Sul conto Twitter attribuito alla Guida suprema Ali Khamenei ieri sono ricomparse parole pronunciate a marzo, con le quali definiva «imprudente e inetta» l’ostilità francese verso l’Iran. E a Fabius arrivano via Facebook minacce in inglese e in persiano: da «occupiamo l’ambasciata francese a Teheran» a — di nuovo, ma stavolta all’altro capo del mondo — «boicottiamo le French Fries». 

Medio Oriente, Parigi vuole riempire il vuoto Usa
Le ragioni geopolitiche ed economiche dietro l’interventismo di Hollande Le considerazioni di Bernard Guetta e Stefano Silvestri
di Umberto De Giovannangeli l’Unità 13.11.13

Il ministro degli Esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, rinvia al mittente le accuse rivolte dagli Stati Uniti all’indirizzo di Teheran, secondo le quali la responsabilità del mancato accordo sul nucleare a Ginevra sarebbe da attribuire all’Iran. «Il gruppo dei 5+1 era unanime sabato quando abbiamo presentato la nostra proposta agli iraniani, (...) ma l’Iran non ha potuto accettarla, in quel momento, non era in grado di accettarla», aveva detto l’altro ieri il segretario di Stato americano John Kerry. «Signor segretario di Stato, è stato forse l’Iran a svuotare per metà il testo degli americani e ad esprimersi pubblicamente contro?», ha replicato Zarif sul suo account Twitter, con un chiaro riferimento alle parole pronunciate in un’intervista dal ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius.
INFLESSIBILITÀ FRANCESE
I media e le autorità iraniane hanno accusato esplicitamente la Francia che con la sua intransigenza avrebbe fatto naufragare l’accordo. Riflettori puntati su Parigi. Sul dossier nucleare «la situazione è ancora sospesa, ma è ormai evidente che dalla Libia all’Iran, passando per la Siria e il Mali, la Francia è diventata sotto due governi diversi la più inflessibile delle potenze occidentali, molto più di quanto non lo siano gli stati Uniti», annota Bernard Guetta, tra i più autorevoli analisti di politica esteri francesi.
Ma dietro questo irrigidimento francese, non c’è solo una rinnovata edizione della tradizionale grandeur. Diversi osservatori vedono anche una chiara strategia economica di Parigi nel restare schierata con l’asse delle monarchie sunnite dei petrodollari dietro il veto francese sulla riduzione dell’embargo all’Iran, senza garanzie più vincolanti degli ayatollah sullo stop al programma di arricchimento dell’uranio al 20%, sull’utilizzo di quello già arricchito e sulla chiusura del nuovo reattore in costruzione ad Arak (generatore, anziché d’uranio, di plutonio, la seconda via per l’atomica).
Al Qatar, agli Emirati Arabi e ai sauditi, Parigi vende armi, sistemi di difesa anti-aerei e caccia-bombardieri per appalti da svariati miliardi di euro l’anno. Se poi il Qatar, con la possibile uscita di scena di Bashar al-Assad dalla Siria, avesse mano libera, attraverso il suo progetto di gasdotto verso la Turchia o (in alternativa) sul Mediterraneo, l’emiro del Golfo potrebbe vendere i suoi trilioni di metri cubi di gas naturale nel giacimento di South Pars-North Dome diviso a metà con l’Iran all’Europa, al momento cliente fissa dei russi di Gazprom. Sauditi e israeliani sarebbero della partita, insieme con le big company energetiche francesi e i colossi del petrolio inglesi.
NUOVO RUOLO
«Sicuramente i francesi stanno sviluppando una politica più interventista sia in Medio Oriente che in Nord Africa dice a l’Unità Stefano Silvestri, presidente dell’Istituto affari internazionali (Iai e questo può avere varie motivazioni». Una delle più rilevanti, spiega Silvestri, «è che il passo indietro compiuto dagli americani, lascia un vuoto, e i francesi, con questa politica più dura, si candidano, se non a riempire questo vuoto, a essere il Paese europeo leader per la politica in tutto il Medio Oriente e nel Nord Africa». E per far questo, aggiunge il presidente dello Iai, «ritengono, e forse non a torto, di dover avere il consenso di alcuni Paesi, tra cui l’Arabia Saudita, forse l’Egitto del colpo di Stato dei militari, e, in ultima analisi, anche di Israele».
In questa chiave, rimarca ancora Silvestri, «ci troviamo di fronte a qualcosa di molto diverso dalla tradizionale politica estera dell’Unione europea, che si basava sul fatto che gli americani facevano una cosa, e noi un’altra: gli Usa, ad esempio, finanziavano Israele e l’Europa i palestinesi. Se gli americani fanno un passo indietro, noi europei siamo sbilanciati. Un ripensamento europeo, politico e strategico, è necessario. Il dramma riflette il presidente dello Iai è che invece di avvenire (il ripensamento), siamo in presenza di una iniziativa unilaterale della Francia». Parigi, in ultima analisi, «si fa forte di una duplice debolezza: il basso profilo della baronessa Ashton (l’Alto responsabile per la politica estera dell’Ue, ndr) e della incapacità degli altri Paesi dell’Unione di parlare con una unica voce almeno sui più rilevanti dossier internazionali. In questo modo conclude Silvestri la Francia ritiene di poter esercitare una pseudo leadership che, a mio avviso, ha una scarsa solidità strategica ma che, nell’immediato, può portare dei benefici. Benefici per Parigi, non certo per l’Europa».



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ARTICOLO - Michele Giorgio il manifesto 2013.11.17 - 06

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