Tortorella e lo «scontro aperto» su Berlinguer
di T. L. Corriere 234.3.14
ROMA — «Non c’era soltanto l’opposizione dell’ala dei miglioristi dentro il Pci», e l’orologio di questa storia è sempre sincronizzato sull’anno 1984, «c’era da tempo uno scontro aperto, che riguardava la politica di Enrico Berlinguer. Sia chiaro, questa replica a Macaluso la faccio in amicizia. L’amicizia con Emanuele mi è cara». Aldo Tortorella, all’epoca coordinatore della segreteria del Pci, conferma le parole pronunciate di fronte alla macchina da presa di Walter Veltroni, che l’ha intervistato per il film «Quando c’era Berlinguer». È la tesi del Berlinguer che, poco prima di morire, era praticamente in minoranza nella direzione del partito. Una tesi che l’ala dei miglioristi, come ha detto Macaluso al Corriere di ieri evocando «la maggioranza bulgara» del segretario, ha contestato. «Ma il mio è un giudizio, non una rivelazione». «Non c’era nessuna maggioranza bulgara», insiste Tortorella. E, tanto per essere più precisi, l’ex dirigente comunista ribadisce che «non eravamo più in tanti, ormai, a essere d’accordo con Enrico. C’era uno scontro aperto. E Berlinguer ne era perfettamente consapevole». Basti pensare, aggiunge, «a quelle parole che il segretario aveva pronunciato qualche tempo prima, quando aveva detto: “sia chiaro, non l’ho chiesto io di venire in questo posto (alla segreteria del Pci, ndr), questo posto è sempre a disposizione”». Ma tolte le posizioni dell’ala migliorista rivendicate da Macaluso, chi altri nella direzione di Botteghe Oscure si opponeva a un Berlinguer che, spiega Tortorella, «adottava una politica che puntava a rifare i fondamenti del Pci?». La risposta dell’ex coordinatore della segreteria berlingueriana inizia con un nome: «Persino Alessandro Natta», che era stato vicinissimo a Berlinguer e che gli sarebbe succeduto. «Natta, come avrebbe scritto nei diari resi pubblici dopo la sua morte, lo scriveva chiaramente: “Non capisco più quello che dice Berlinguer”». E oltre Natta? «Lasciamo perdere», sussurra Tortorella. «Molte di queste persone, tra l’altro, non ci sono più… Resta il fatto che quello scontro c’era. E che il dissenso era molto più esteso rispetto all’area di Macaluso».
«Berlinguer divenne segretario perché era il più togliattiano di tutti»
Macaluso: Napolitano? Penso lascerà fra sei mesi, dopo la riforma elettorale
Mi legai a Erminia Peggio, sorella di un dirigente pci, una storia difficile
Lei si suicidò e Amendola volle che fossi accusato di scorrettezza morale
intervista di Aldo Cazzullo Corriere 17.3.14
Emanuele Macaluso — capo della Cgil siciliana con Di Vittorio, nel comitato centrale del Pci con Togliatti, capo dell’organizzazione con Longo, direttore dell’Unità con Berlinguer, amico di una vita di Napolitano — venerdì prossimo compie 90 anni.
Qual è il suo primo ricordo?
«Matteotti. Fu ucciso che avevo un anno, ma mio padre me ne parlava sempre».
Suo padre era antifascista?
«Fu costretto a prendere la tessera del fascio per riavere il posto in ferrovia: era stato licenziato per aver preso parte agli scioperi del ’22. Per tutto il ventennio fu inchiodato alla qualifica di manovale, anche se faceva il fuochista. Mangiava mezzo chilo di pasta e beveva un litro di vino nero di Vittoria, ma era magro come un chiodo: impalava tonnellate di carbone al giorno. Aveva fatto la Grande Guerra e iniziato a lavorare come muratore a otto anni. Sempre meglio che scendere in miniera, però».
Cosa ricorda delle zolfare?
«Entrambi i miei nonni erano minatori. Rivedo la corsa delle donne scarmigliate, dopo che si era saputo dell’esplosione di grisù, per vedere se tra i morti c’era il marito o un figlio. Io stesso sono perito industriale minerario. I figli degli operai non potevano fare il liceo».
Come divenne comunista?
«Una notte cominciai a vomitare sangue. Mi portarono in sanatorio. Tubercolosi. Mi facevano dolorose punture di aria per immobilizzare i polmoni, nella speranza che la ferita guarisse. Quasi tutti i ragazzi che erano con me morirono. Io sognavo di arrivare a trent’anni. Il sanatorio era in fondo al paese, da lontano si vedevano i passanti con il fazzoletto premuto sulla bocca. L’unico amico che mi veniva a trovare, Gino Giandone, era comunista».
Lei prese la tessera del Pci clandestino nel ’41.
«Fu un gesto di ribellione contro un mondo di una miseria e di un’ingiustizia medievali. Un giorno in miniera morirono quattro “carusi”. Nella cattedrale di Caltanissetta c’erano tre bare. La quarta rimase sul sagrato. Era morto “in peccato” perché non era sposato in chiesa. Lo rifiutarono anche cadavere!». (Macaluso picchia il pugno sul tavolo della trattoria del Testaccio, il quartiere romano dove vive. Sul tavolo fave, pecorino, sarde, e un solo bicchiere, per il vino. «Non bevo mai acqua, rovina i sapori» ).
Il primo maggio ’47 era a Portella della Gi nestra?
«No, parlai per commemorare la strage, un anno dopo. Ma ero a Villalba quando Calogero Vizzini, il capo della mafia, fece sparare sul nostro comizio. Io mi gettai a terra. Girolamo Li Causi rimase in piedi e fu ferito a una gamba. Zoppicò per tutta la vita. Un personaggio leggendario. Per i suoi comizi in siciliano arrivavano da tutta l’isola. L’ho amato molto. Come Di Vittorio, un uomo dolcissimo, e Pompeo Colajanni, “Barbato”, il comandante partigiano che liberò Torino. Lina, la mia donna, era incinta. Lui previde che avrebbe avuto due gemelli. Li ho chiamati Antonio, come mio padre, e Pompeo, come lui».
Lei e Lina foste arrestati per adulterio.
«A vent’anni Lina aveva già due figli, da un marito anziano. Andammo a vivere insieme. Ci portarono in carcere e ci diedero sei mesi, in parte condonati. Ma nel Pci non tutti furono dalla mia parte. Per un anno Paolo Robotti visse in Sicilia. Portava un busto di ferro, a Mosca l’avevano torturato per indurlo ad accusare Togliatti, che era suo cognato, ma lui aveva taciuto. Diceva: “Se lo si vuole davvero, si resiste”. Vero uomo sovietico. Robotti mangiava ogni giorno a casa nostra, e nei suoi rapporti, come lessi nel dossier Mitrokhin, mi descriveva come moralmente degenerato».
Negli Anni 60 lei ebbe un altro amore doloroso, vero?
«La relazione con Lina era esaurita. Mi legai a Erminia Peggio, sorella di un dirigente del partito, Eugenio. Ma io non ero pronto a troncare con la mia famiglia. Erminia soffrì molto. Dopo alcuni mesi si suicidò. Fu un dolore terribile».
Che ebbe conseguenze politiche.
«Giorgio Amendola chiese a Eugenio Peggio di formalizzare un’accusa di “scorrettezza morale” nei miei confronti».
Perché lo fece?
«Un po’ perché Amendola era un puritano, legatissimo alla moglie, non a caso sono morti insieme. Un po’ perché avevamo contrasti politici. Con Longo segretario, il partito era in mano a Berlinguer, capo della segreteria, a Natta e a me, capo dell’organizzazione. Ci chiamavano il “trio”. Amendola voleva spedire Berlinguer in Lombardia e me in Veneto. Longo si oppose».
Che ricordo ha di lui?
«Un grande segretario. Il più aperto a laici e socialisti, mentre Berlinguer vedeva solo la Dc. Fu Longo a portare Parri in Parlamento come indipendente di sinistra».
Giuseppe Boffa lo definì per certi aspetti il miglior segretario che il Pci abbia mai avuto.
«Ora non esageriamo. Il miglior segretario è stato Palmiro Togliatti. Un intellettuale di statura europea, uno che teneva testa a Stalin…».
Non sempre gli tenne testa.
«All’hotel Lux viveva come un prigioniero. A chi gli chiedeva di intercedere presso Stalin contro le purghe, rispondeva: “Non posso. Ma quando saremo in Europa la nostra bussola sarà la democrazia”. Nel ’49 Stalin gli chiese di andare a dirigere il Cominform. Tutti i capi del Pci, tranne Terracini e Di Vittorio, erano d’accordo. Lui rifiutò, con una lettera durissima: “Il Cominform non serve a nulla”. Sei mesi dopo Stalin lo sciolse».
Togliatti era antipatico?
«Niente affatto. Dopo l’esilio era affamato di Italia. Lo portai a Monreale e ne fu felice. Gli piacevano le trattorie romane, le passeggiate in Valle d’Aosta. Prima di partire per l’ultimo viaggio in Urss, mi chiamò da parte a Montecitorio e mi disse: “Se tardo, mandatemi un telegramma per richiamarmi con urgenza. Voglio andare a Cogne a respirare”».
Invece morì. E, dopo Longo, venne Berlinguer. Che viene considerato molto diverso da Togliatti. Non a caso ruppe con Mosca.
«Ma Berlinguer fu scelto proprio perché era il più togliattiano di tutti noi! Il suo prestigio veniva anche dal fatto che era stato Togliatti a indicarlo per il futuro del partito. Certo, non ne fu l’esecutore testamentario, seppe adattarsi alle circostanze. Ma la sua politica è tutta dentro il togliattismo: l’incontro con i cattolici, il compromesso storico, la solidarietà nazionale. Quando Veltroni disse che lui non era mai stato comunista, gli scrissi un biglietto: “Se sei andato a Palazzo Chigi con Prodi, lo devi a Palmiro Togliatti”».
D’Alema è meglio di Veltroni?
«D’Alema si è illuso di tenere tutto insieme, ma la sua politica e i suoi comportamenti hanno segnato una cesura. La loro generazione si è comportata male nei confronti di Natta, e non solo. Chi non era d’accordo era fuori. Con Berlinguer eravamo in dissenso sul rapporto con i socialisti, ma lui mantenne Napolitano capogruppo alla Camera, Chiaromonte al Senato e fece me direttore dell’Unità . Tre suoi critici».
Napolitano è stato eletto al Quirinale.
«Ma mica grazie a loro! Il candidato di Fassino era D’Alema. Diede anche un’intervista al Foglio per indicarne il programma…».
Su Craxi non aveva ragione Berlinguer?
«Craxi commise un errore capitale dopo l’89: anziché allearsi con noi, fece il Caf con Andreotti e Forlani. Ma il suo governo è stato tra i migliori della storia repubblicana. All’Unità gli sparavo contro tutti i giorni; ma aveva Visentini alle Finanze, Spadolini alla Difesa, Martinazzoli alla Giustizia, Andreotti agli Esteri. E Scalfaro, che è stato un coraggioso ministro dell’Interno».
Lei sparava anche contro Repubblica .
«Per forza. Secondo Scalfari tutto si giocava tra Craxi e De Mita. E fu proprio De Mita, dopo il crollo della Dc nell’83, a fare il nome di Craxi per Palazzo Chigi. Ricordo che Berlinguer si infuriò. Non l’avevo mai visto così arrabbiato».
Quando vide per la prima volta Napolitano?
«Nel 1950, in Sicilia. Faceva il militare. Aveva ancora i capelli. Non moltissimi però».
Quanto durerà il suo secondo settennato?
«Non ci sarà un secondo settennato. Lui stesso si è dato un tempo di 18 mesi. Ne restano poco più di sei. Credo proprio che, quando il Senato avrà approvato la riforma elettorale, si dimetterà. Non voleva assolutamente accettare la rielezione. Gli chiesero di sacrificarsi perché non c’era via d’uscita. Ora se ne sono già dimenticati».
Perché è così scettico su Renzi?
«Renzi è figlio di un’epoca che non capisco. La cultura politica non è più nulla. Tutto è comunicazione».
Chi andrà al Quirinale dopo Napolitano?
«Si aprirà un problema enorme, che tutti sottovalutano. Draghi sta bene dove sta. Monti ha fatto la sciocchezza di farsi un partitino…».
Chi resta?
«In Italia abbiamo solo due uomini in grado di rappresentarci nel mondo: Romano Prodi e Giuliano Amato. Ma Prodi non lo vuole la destra. E Amato ha nel Pd resistenze che lei non può neanche immaginare».
Quando i comunisti mangiavano oloturie
«La mia passione non è finita col Pci»
di Claudio Sardo l’Unità 21.3.14
Novant’anni. Come l’Unità. «Abbiamo sempre festeggiato insieme i decennali. Ma ammetto che stavolta mi fa più impressione». Emanuele Macaluso ha un legame forte, viscerale, con il nostro giornale. «Scrissi il primo articolo in clandestinità, nel ’42, sulle condizioni dei minatori delle zolfatare. Da allora non ho mai smesso». Ha scritto sulle lotte contadine, sul partito, sui governi, sulle svolte compiute e su quelle mancate. «Pubblicai i primi corsivi firmati em.ma. nell’inserto siciliano curato da Giorgio Frasca Polara». Poi Macaluso è diventato direttore de l’Unità, dall’82 all’86. Anni difficili, segnati dalla morte di Berlinguer, dalla crisi del Pci, dai debiti del giornale. Con Sergio Staino inventò Tango, il supplemento di satira. Lui riformista gentile e severo, Staino dissacratore geniale. «Volevo che la sinistra fosse capace anche di sorridere di se stessa, senza lasciare quello spazio ad altri. Molti però nel Pci lo vissero male». Non è un caso che, conclusa l’esperienza nelle istituzioni, Macaluso sia diventato una firma del giornalismo politico, tra le più polemiche e battagliere. Ora comunque si gode il suo compleanno: 21 marzo, primo giorno di primavera. Nello studio, sommerso di libri, della sua casa a Testaccio la conversazione è continuamente interrotta da telefonate di auguri. La sua vita è un catalogo di ferite, di successi e sconfitte, di battaglie combattute in prima linea. Ha conosciuto persino il carcere per essersi innamorato nel ’44 di una donna sposata: adulterio, secondo la legge dell’epoca. Ha percorso l’intera vicenda del Pci nella storia repubblicana e ne rivendica le radici vitali anche per la sinistra di oggi. Il fallimento del comunismo segnò una cesura, ma la sinistra italiana non fu azzerata. «Siamo debitori di Togliatti. Dovrebbero riconoscerlo tutti. Non ci sarebbe stata questa Costituzione senza Togliatti. Così la fedeltà democratica è diventata una stella polare della nostra azione politica e del nostro radicamento popolare». Il popolo, appunto. Per Macaluso è anzitutto la gente più povera, più bisognosa. È questo un tratto originale del «migliorista» Macaluso, che forse gli viene dalla Sicilia contadina nella quale è cresciuto: ha combattuto il massimalismo non per una vocazione liberal, ma perché lo ritiene un inganno anzitutto per i ceti deboli. «Il riformismo serve a migliorare le condizioni concrete di chi ha più bisogno, ad affermare i diritti. Sarà questo il vero banco di prova della sinistra europea di fronte alla crisi economica».
Emanuele, quando e perché ti sei iscritto al Pci clandestino? La Sicilia rurale di allora non appare il luogo ideale dove maturare la scelta comunista.
«Invece la cellula clandestina del Pci, a Caltanissetta, riunì e formò intellettuali di grande valore: Pompeo Colajanni, Calogero Roxas, Gino Cortese, Aldo Costa. Frequentava la cellula, pur senza avere la tessera, anche Leonardo Sciascia. Ed Elio Vittorini, nel ’42, venne da Milano per incontrarci in segreto. Non sapevo nulla di Togliatti e di Gramsci quando nel ’41 mi iscrissi al Pci. Lo feci perché non sopportavo il regime autoritario. E perché vedevo attorno ame sofferenze e povertà spaventose. Ebbi la tubercolosi a 16 anni. Solo un mio compagno ebbe il coraggio di venirmi a trovare in sanatorio: si chiamava Gino Giannone, era il figlio del libraio, e mi disse che per combattere davvero il fascismo c’era una sola scelta da fare: diventare comunista».
Certo, non è stato facile al Pci tenere insieme i minatori siciliani con gli operai dell’industria del Nord, le strutture militari della Resistenza con il partito del Sud. C’era il collante ideologico, è vero…
«Ma da solo non sarebbe bastato. C’era un’idea nazionale di riscatto. E la ricerca dell’unità delle masse popolari era uno dei fulcri della nostra politica insieme all’obiettivo del superamento del capitalismo. Bisogna riconoscere i meriti di Togliatti: lo dico a chi, anche a sinistra, pensa di vivere meglio semplicemente cancellando la storia del Pci. In quella militanza mi sono formato come uomo. Fu difficile, dura, ma non settaria. Quando divenni segretario della Camera del lavoro di Caltanissetta, subito dopo la liberazione, non c’era nulla: feci i primi contratti dei barbieri, dei panettieri. Guardavo negli occhi le persone che spesso faticavano a trovare da mangiare per i loro figli. La politica non ha senso se perde contatto con la drammaticità del reale».
Fino al ’56 sei stato segretario regionale della Cgil. Poi per sei anni segretario del Pci siciliano. Hai combattuto la mafia dall’immediato dopoguerra.
«Ho conosciuto la violenza mafiosa, per la prima volta, nel settembre ’44. Accompagnavo Girolamo Li Causi, segretario del Pci siciliano, a Villalba, paese del capomafia Calogero Vizzini. Mai un comunista aveva parlato in pubblico a Villalba. Li Causi salì su un tavolo, nella piazza. Davanti al tavolo eravamo dieci persone. I contadini erano accalcati ai lati della piazza mentre Vizzini con i suoi sgherri erano schierati sul fondo. Li Causi, in dialetto siciliano, spiegò ai contadini perché erano doppiamente sfruttati, dai proprietari terrieri e degli intermediari come Vizzini. Ad un cenno del capomafia scoppiò il putiferio. Ci spararono. Lanciarono bombe a mano. Una scheggia colpì Li Causi alla gamba e lui rimase in piedi sul tavolo nonostante la grave ferita, che lo azzoppò per il resto della vita. Toccò a me tornare poi a Villalba per il primo comizio dopo l’agguato. Toccò a me il comizio a Portella della Ginestra, il primo maggio successivo alla strage del ’47. La mafia è stata nostra nemica giurata in Sicilia. Uccise 36 sindacalisti in quegli anni. La mafia era organica ai privilegi di ceto e voleva tenere la Sicilia nell’arretratezza. La Dc stipulò un patto con la mafia che durò fino agli anni dello stragismo».
Oggi la coscienza della mafia come anti-Stato è cresciuta. Ma è cresciuta anche la polemica tra chi la combatte. Tu stesso sei un polemista agguerrito.
«Ho combattuto la Dc che incluse la mafia nel suo blocco di potere. Ma si deve riconoscere che la Dc, quando la mafia degli anni 80 e 90 portò l’attacco al cuore dello Stato, ruppe quel patto. Andreotti firmò nottetempo un decreto che trattenne in carcere i capimafia, nonostante una sentenza della Cassazione a loro favorevole: Rodotà allora protestò con argomenti garantisti. Ciò che non accetto da alcune cattedre è l’idea che lo Stato stia sempre e comunque con la mafia. Questo non è vero. E non ci aiuta a capire i successi, le sconfitte, le trasformazioni delle organizzazioni criminali. Dopo Falcone e Borsellino, i capimafia sono stati quasi tutti arrestati. Questa storia della trattativa per molti aspetti non mi convince. Chiediamoci piuttosto perché e come la mafia è emigrata al Nord e ora si occupa di finanza. Chiediamoci perché la ’ndrangheta è diventata più forte della mafia».
Negli anni Cinquanta sei stato tra i protagonisti dell’operazione Milazzo. Un ribaltone al governo della Regione Sicilia, promosso da un pezzo della Dc, sostenuto dal Pci e anche dal Msi. Un episodio di trasformismo, secondo la storiografia prevalente.
«Invece fu il tentativo più importante per cambiare il corso della politica siciliana. Il progetto prese le mosse dalla legge sull’industrializzazione della Sicilia. L’idea - condivisa da personalità come Ludovico Corrao e Francesco Pignatone - era di porre l’autonomia siciliana a servizio di un programma di sviluppo. Altro che trasformismo. Fu una sfida che Togliatti sostenne in prima persona. Contro di noi si scatenò un’autentica guerra: il governo nazionale usò i servizi segreti, il cardinale Ruffini predicava contro Milazzo tutte le domeniche. Volevamo trasformare la Sicilia in una società industriale. Invece la conservazione voleva mantenere il sottosviluppo. Fummo sconfitti e i ritardi, le clientele e gli sprechi di oggi sono conseguenze del lungo immobilismo ».
Alla segreteria del Pci sei arrivato nel ’63. Togliatti ti affidò la guida dell’organizzazione.
«In realtà ero a Roma già da un anno. Condividevo una casa con Giancarlo Pajetta e avevo lavorato con Enrico Berlinguer alla preparazione del congresso del ’63. Il lavoro organizzativo è sempre stato per me di grandissima importanza. Ci vuole disciplina nella battaglia politica per ottenere risultati concreti».
Con la segreteria di Longo è Napolitano ad assumere il ruolo di numero due. È lì che si cementa la vostra amicizia?
«Conobbi Giorgio Napolitano nel 1950. Faceva il servizio militare a Palermo e un giorno venne a trovare Li Causi. Negli anni successivi lavorammo insieme nelle grandi battaglie del Mezzogiorno. Quando divenne coordinatore della segreteria del Pci, Napolitano emerse per le sue doti di grande equilibrio. Confesso però che, dopo l’ictus che colpì Longo, nella consultazione per la scelta del vicesegretario, anch’io indicai Enrico Berlinguer. Napolitano risultò il secondo nelle preferenze. La mia stima e la nostra amicizia sono da allora cresciute nel tempo».
Avendo detto che Togliatti va rivalutato ed essendo tu uno dei capi dell’area «riformista» del Pci , si potrebbe dedurre che sei un berlingueriano critico.
«Sono invece stato un sostenitore convinto di Berlinguer. E un suo grande amico. Quando ci fu il gravissimo incidente d’auto in Bulgaria, nel ’73, Enrico confidò il suo sospetto soltanto alla sua famiglia e a me: volevano ucciderlo ma non si doveva dire perché la notizia avrebbe avuto effetti destabilizzanti. Tenni il segreto fino al ’91, poi mi sentii libero di parlare. Berlinguer fu scelto segretario perché era il più togliattiano. Il compromesso storico fu l’attualizzazione della politica di Togliatti. L’attenzione ai cattolici rientrava pienamente nella politica del Pci, anche perché si guardava al pensiero religioso come una forza critica del capitalismo ».
Tu però hai sempre sostenuto la politica unitaria a sinistra. Il dialogo con i socialisti è stato per te più importante del confronto con la Dc.
«Nell’impianto originario del compromesso storico non c’era contrapposizione tra politica unitaria con i socialisti e confronto con la Dc. Per questo con Napolitano, Bufalini, Chiaromonte siamo stati tra i più leali sostenitori dell’unità nazionale. La rottura avvenne con Craxi. Berlinguer non si fidava: coglieva nella sua politica il proposito di emarginare il Pci. Eppure non ruppe i ponti, almeno fino all’83, quando alle Frattocchie fu firmato un importante documento comune tra Pci e Psi. Il governo Craxi fu però per Berlinguer una rottura che non si ricomporrà più».
In quel periodo voi «miglioristi» cominciaste ad assumere una posizione diversa.
«Nel 1980, dopo un anno di pentapartito, proposi di ritornare all’unità nazionale affidando però la guida del governo ai socialisti. Berlinguer si affrettò a dire che si trattava di una mia opinione personale. Di lì a poco compì la svolta di Salerno. Ma l’alternativa democratica era soprattutto una difesa, una sfida a Dc e Psi: non ce la farete contro il Pci. Poi arrivò il decreto sulla scala mobile: fu la risposta di Craxi, si poteva governare contro il Pci. Noi riformisti avvertivamo che una lunga stagione si stava esaurendo. Il compromesso storico aveva un contenuto anti-capitalistico che rischiava di apparire velleitario. La fine del comunismo non ci avrebbe lasciato indenni, dovevamo puntare all’approdo nel socialismo europeo».
Volevate costruire un rapporto positivo con i socialisti. Ma il craxismo non fu anche all’origine della nuova destra berlusconiana.
«Non condivido quest’analisi. Berlusconi non è figlio del craxismo. È vero che nel Psi c’era una corrente governista, di cui è erede Brunetta, che cercava il governo comunque e con chiunque. Ma Berlusconi è stato un’altra cosa: è stato l’uomo che ha riempito il vuoto creato da Tangentopoli nella rappresentanza moderata. Piuttosto, la sinistra aiutò Berlusconi opponendogli la più improbabile delle alleanze, con Bertinotti e Leoluca Orlando. Ho sostenuto con convinzione la svolta di Occhetto. Ma i Progressisti furono un grave errore, che penalizzò la cultura riformista».
Non sei entrato nel Pd perché non era socialista: ora che è avvenuto l’ingresso nel Pse, sei disposto a riconoscere che la cultura dei democratici può dare un contributo ai progressisti europei?
«L’ingresso formale nel Pse è un passo avanti importante. Sono contento di questo. Il confronto con i cattolici sarà però utile se avrà il suo baricentro in una concreta politica riformista. Dobbiamo avere la forza di riattivare l’Europa sociale. In sintesi, il Pd farà bene se allargherà la sinistra a cattolici come Delors e se caccerà cattolici come Francantonio Genovese».
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