lunedì 14 aprile 2014

Individualità, transindividualità, totalità


Il transindividualeÉtienne Balibar e Vittorio Morfino: Il transindividuale. Soggetti, relazioni, mutazioni, Mimesis

Risvolto
‘Transindividuale’ in Simondon è precisamente il nome del darsi a un tempo dell’individuazione psichica e di quella collettiva. Né preesistenza dell’individuo rispetto alla società, né preesistenza della società rispetto all’individuo. È da questo significato del termine ‘transindividuale’ che siamo partiti ed è a partire da esso che si è tentato, da una parte, di costruire una sorta di genealogia filosofica del transindividuale da Averroè a Spinoza sino a Marx e ai suoi interpreti novecenteschi, la cui impossibile linearità apre su un gran numero di questioni che non possono essere evitate e su cui tuttavia si può solo cominciare a formulare qui una risposta, e dall’altra di mostrare come ‘il transindividuale’, inteso non come categoria prescrittiva, ma come tema o, meglio, come sintomo di un problema, emerga tanto nelle scienze della vita quanto nelle cosiddette scienze umane, dalla psicologia evolutiva all’antropologia e alla sociologia, dalla linguistica alla filosofia della mente, fino alla teoria della storia, sintomo ogni volta dell’impossibilità sia di isolare una singola disciplina, di ritagliare il tutto sociale separando astrattamente alcuni elementi, sia di porre alla sua base degli atomi, a qualsiasi livello siano essi pensati. (dall’«Introduzione» di Etienne Balibar e Vittorio Morfino).

E. Balibar, V. Morfino, Introduzione; M. Combes, La relazione transindividuale; A. Illuminati, L’intelletto materiale unico; M. Gainza, I confini dell’interiorità nella filosofia spinoziana; W. Montag, Transindividualità in Adam Smith e Spinoza; F. Lordon, L’imperio delle istituzioni; E. Balibar, Che fare con la sesta tesi di Marx su Feuerbach?; V. Morfino, Il transindividuale tra Goldmann e Althusser; J. Read, Dal transindividuale al comune; A. Cavazzini, Il transindividuale nelle scienze della vita contemporanee; F. Cimatti, Marx e Vygotskij sul transindivduale; P. Maniglier, Ambienti di cultura; G. Sibertin Blanc, Deleuze e Guattari con Althusser; F. Naishtat, Ontologie dell’accaduto; B. Karsenti, Il totemismo rivisitato.



Perché siamo diventati tutti “transindividuali”
Singolo e società non sono due entità opposte, l’uno non esiste senza l’altra e viceversa Così i filosofi hanno introdotto una nuova categoria, che si adatta anche alla scienza

di Roberto Esposito Repubblica 14.4.14



POCHI concetti come quello di individualismo sono oggetto di sguardi così contrastanti. Considerato dagli uni come il portato essenziale della modernità, è visto da altri come una potenziale minaccia alla dimensione della vita associata. La stessa opposizione metodologica tra modello individualistico, che parte dal singolo, e modello olistico, che privilegia la totalità rispetto alle parti, si è rivelata poco utilizzabile quando ci si trova di fronte a fenomeni irriducibili a schemi dicotomici. Nei suoi Saggi sull’individualismo ( Adelphi) l’antropologo Louis Dumont, ad esempio, ha dimostrato come il nazionalismo non sia riducibile a nessuno di questi due modelli, ma nasca precisamente dalla loro sovrapposizione.
ESSO è l’esito dell’applicazione della concezione individualistica, non al singolo individuo, ma allo Stato rispetto agli altri Stati. La verità è che le dinamiche socio-culturali contengono al proprio interno un elemento proveniente dal loro contrario. È stato così per il liberalismo, che a un certo punto ha dovuto inglobare misure di protezione sociale. Ma qualcosa del genere si può dire anche della globalizzazione, che si sviluppa generando al suo interno tendenze localistiche ed identitarie. La difficoltà in cui oggi si dibattono le scienze sociali dipende anche dalla sottovalutazione di questa legge fondamentale, relativa al carattere autocontraddittorio dei concetti politici moderni di popolo, sovranità, rappresentanza. E anche di individuo. Tipica di questa vera e propria miopia epistemologica è il contrasto che comunemente si pone tra esso e la società. L’intera tradizione sociologica si divide sul primato che assegna ad uno di questi due termini a detrimento dell’altro. O si immagina che gli individui precedano la
società, costituendola attraverso la loro aggregazione, o al contrario che sia soltanto questa a determinare il comportamento degli individui. Entrambi questi presupposti, evidentemente errati, sono adesso messi in discussione da una prospettiva più raffinata che fa capo alla categoria di “transindividuale”. Originata in Francia dai pioneristici lavori di Gilbert Simondon su l’individuazione psichica e collettiva (una traduzione del suo testo principale, così intitolato, è stata curata da Paolo Virno per Deriveapprodi), è adesso ripresa e sviluppata in un volume collettaneo introdotto da Étienne Balibar e Vittorio Morfino, edito da Mimesis con il titolo Il transindividuale. Contro tutte le interpretazioni che antepongono l’individuo alla società o viceversa, Simondon cerca di pensarli insieme, spostando lo sguardo dall’individuo già formato al processo di individuazione, di cui esso è solo l’esito provvisorio, destinato a riprodurre una nuova dinamica relazionale. In tal modo la stessa società appare, piuttosto che una entità trascendente il libero gioco degli individui, il processo, mai definitivamente compiuto, della loro costituzione momentanea. Ma l’elemento forse più suggestivo dell’ipotesi di Simondon è la sua traducibilità all’interno di altri saperi come l’antropologia e la psicologia, la linguistica e la biologia, fino alla filosofia della mente e alla teoria della storia. In questa chiave, per esempio, Andrea Cavazzini può dimostrare come gli “individui” con cui ha a che fare la biologia - specie, organismi, geni - tutt’altro che elementi originari, non sono che il risultato di combinazioni preindividuali convergenti in una trama di rapporti complessi.
A sua volta Felice Cimatti, rifacendosi alla prospettiva dello psicologo russo Lev Vygotskij, sostiene che l’evoluzione psichica dell’individuo non solo non è collocabile al di fuori del contesto sociale, ma si origina da un vero e proprio trapianto dell’esterno nell’interno. A differenza di quanto accade per un castoro, fin dall’inizio inchiodato alla sua natura – programmato a costruire dighe – l’uomo può optare tra le dighe e i ponti, oppure attraversare il fiume a nuoto. E ciò perché quella che chiamiamo “essenza umana” si trova al di fuori della costituzione biologica del singolo individuo, facendo capo a una rete di connessioni sociali. Né il cognitivista, che immagina la mente umana originariamente provvista di tutte le informazioni necessarie, né il comportamentista, che invece la considera vuota e perciò in balìa di stimoli esterni, colgono questo elemento transindividuale che destabilizza entrambi i modelli.
Un ultimo esempio della fungibilità di tale paradigma è fornito da Francisco Naishtat nell’ambito della teoria della storia. Alla domanda sulla responsabilità degli eventi storici – del singolo o del collettivo – egli replica con una risposta che taglia obliquamente le ipotesi contrapposte. Il verificarsi di un evento non può essere ascritto né all’individuo né al collettivo, dal momento che esso è costituito da una catena multipla, composta da una miriade di azioni individuali, ma irriducibile ad essa. Nella notte del 14 luglio 1789, giorno della presa della Bastiglia, Luigi XVI scrive sul diario «Rien» – che non è accaduto nulla. Certo, non era uomo di particolare perspicacia. Ma la cosa dimostra che un evento, pure decisivo come quello, per stagliarsi sui microfatti insignificanti di cui è composto, va inserito all’interno di un quadro interpretativo più ampio e multipolare di quello concesso ad un singolo uomo.

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