Quel «principe» era nato nel 1773 a Coblenza da una famiglia
aristocratica. La sua è una tipica educazione renana, parla
correntemente sia il tedesco che il francese e ha, in comune con
Napoleone, una sconfinata ammirazione per Jean-Jacques Rousseau. Studia a
Strasburgo negli anni della Rivoluzione francese e prova sgomento per
il saccheggio dell’Hotel de Ville: il popolo rivoluzionario gli appare
come «plebaglia infuriata». Suggestiva gli era sembrata, invece,
l’incoronazione dell’imperatore Leopoldo II, alla quale aveva
presenziato, nel 1790, a Francoforte, in compagnia del padre: uno degli
spettacoli «più grandiosi e magnifici» ai quali aveva assistito nel
corso della sua vita. Fu sempre al seguito del padre che conobbe
Napoleone. I due, Napoleone e Metternich, si incontrarono al Congresso
di Rastadt (novembre 1797), che aveva fatto seguito al trattato di
Campoformio, successivo alla sconfitta austriaca.
A quei tempi il generale corso, mandato in Italia dal Direttorio, aveva
28 anni e Klemens 24. Franz Georg Metternich, il padre, era lì come
plenipotenziario dell’imperatore e appariva al figlio come
un’incarnazione dell’Antico Regime. Regime che opponeva qualcosa di
sostanzialmente inadeguato a quei francesi «ribaldi dalle scarpe rozze»,
vestiti di «grossi pantaloni blu», «giacchette di ogni colore»,
«orribili fazzoletti di cotone intorno al collo», «grandi cappelli con
un’enorme piuma rossa che li incorona», «capelli lunghi, neri e
sporchi». Ma il giovane Metternich, pur con tutto il suo bagaglio di
convinzioni legittimiste, è, secondo Mascilli Migliorini, «più vicino ai
suoi coetanei di oltre Reno di quanto non lo sia alla diplomazia che
circonda il padre e, come tale, molto più capace di intendere quel
nuovo, sconvolgente rapporto tra forza e legittimità che appartiene
assai ai suoi sfrontati avversari e assai meno al proprio mondo
d’origine».
Quello che si consuma a Rastadt tra Metternich e il suo pur apprezzato
mondo d’appartenenza è una sorta di «congedo generazionale». Importante
perché, come ogni congedo di questo tipo, trasforma, anche nel caso in
questione, un tendenziale «parricidio» in «una complessa elaborazione di
rotture e riconoscimenti di continuità». Elaborazione che si realizza
«in una dimensione privata e pubblica insieme, la quale viene esaltata
dall’avere, sotto entrambi gli aspetti, lo stesso teatro di
svolgimento». Per gradi il giovane Metternich «si sostituisce al padre
nella gestione di quegli affari di famiglia che sono, per chi come loro
ha beni collocati sulla riva sinistra del Reno, l’oggetto da seguire con
attenzione nello svolgimento della partita diplomatica che ha il suo
punto chiave, appunto, negli indennizzi dei territori dell’Impero ceduti
alla Francia». Allo stesso modo «quella partita diplomatica trova il
figlio sostanzialmente distante, per le modalità in cui essa avviene e
per gli obiettivi che si propone, dalla impostazione che il padre, e con
lui il governo di Vienna, danno alle trattative del Congresso». Il
giovane Klemens «si accorge con prontezza (forse anche perché coinvolto
in prima persona) dello scatenarsi di piccole rivalità, di minuscoli
interessi tra i principi tedeschi minacciati dalla spoliazione o dalla
secolarizzazione dei loro beni e, soprattutto, avverte sin dall’inizio
la distanza enorme che separa Vienna, inconsapevole e poco informata,
dalle dinamiche grandi e piccole dei frammenti di un Impero al suo
naufragio». E «sembra trovare un irresistibile punto di riferimento in
quel ventottenne generale nemico che, nella sua rapida apparizione… già
si mostra come l’esecutore testamentario del vecchio Impero».
Nei primi dieci anni dell’Ottocento la carriera politica del giovane
Metternich prenderà poi il volo. Dapprima ambasciatore a Dresda (1801),
poi a Berlino (1803). Sono momenti duri per il suo Paese, sconfitto da
Napoleone ad Austerlitz (1805). Ma felici per Metternich, che in quello
stesso anno sposerà Eleonora, nipote del grande cancelliere di Maria
Teresa d’Austria, Wenzel Anton von Kaunitz. Dopo quelle nozze,
Metternich avrà l’incarico di ambasciatore a Parigi (1806), a seguito di
una spregiudicata manovra dell’uomo destinato ad essere un suo
importante interlocutore: il ministro degli Esteri francese
Charles-Maurice Talleyrand-Périgord. «È lì, nel luogo di tanti crimini e
di tanti orrori… che ebbe inizio la mia vita pubblica», scriverà anni
dopo Metternich, mettendo in luce come da quell’istante tutto poteva
accadere e il suo destino avrebbe potuto riservargli un posto «o molto
in alto o molto in basso». Ed è nei panni di ambasciatore a Parigi che
il 10 agosto del 1806 incontra nuovamente Napoleone, stavolta, come in
quelle successive, a tu per tu.
È impressionato, il diplomatico austriaco, dalla «velocità»
dell’imperatore che promette e mantiene, promette nuovamente e mantiene
nuovamente. Soprattutto in campo militare, laddove lasciando Parigi
orfana per quasi un anno, il Bonaparte riesce a sconfiggere in modi
fulminei sia la Russia che la Prussia. Ma Metternich avverte anche che
qualcosa comincia a scricchiolare tra le persone comuni. Scopre che
l’opinione pubblica francese «è assai meno sedotta dalla gloria delle
vittorie napoleoniche, di quanto da lontano si sarebbe potuto credere (e
si credeva)». Napoleone ai suoi occhi è condannato «a non fermarsi
mai», il suo gli appare come «un esercizio della forza in perenne
movimento». Mentre il continente, a suo giudizio, manifesta l’esigenza
di una politica stabilizzatrice di quiete. «Lo stato attuale delle cose
in Europa», scrive, «porta in sé i propri germi di distruzione, e la
saggezza del nostro governo deve farci arrivare al giorno in cui
trecentomila uomini riuniti, sorretti dalla medesima volontà e diretti
verso uno scopo comune, giocheranno il ruolo principale». Il ruolo di
chi riporta l’ordine «in un momento di anarchia universale, in una di
quelle epoche che fanno sempre seguito a grandi usurpazioni e cancellano
persino le tracce dei conquistatori». È ora — intuisce Metternich — di
por fine alla stagione della forza in movimento. E all’occorrenza,
riserva giudizi spietati anche contro il «delirio guerriero che si è
impadronito della famiglia dell’imperatore d’Austria».
Nel 1809 è nominato ministro degli Esteri e, con un’abilità davvero
meritevole d’encomio, organizza per l’anno successivo il colpo di scena
che avrebbe dovuto suggellare la concretizzazione della sua visione del
mondo: il matrimonio di Napoleone con Maria Luisa, figlia
dell’imperatore austriaco. Anche nel precedente regime, quarant’anni
prima, il futuro Luigi XVI aveva sposato (nel 1770) Maria Antonietta,
figlia di Maria Teresa d’Austria. Ma a quei tempi l’alleanza
matrimoniale si concretizzava dopo quella politica, cioè a quattordici
anni dal trattato del 1756 tra la Francia borbonica e l’Austria
asburgica. Adesso invece Metternich era riuscito in un lampo a
dissuadere Napoleone, che appariva come un vincitore assoluto,
dall’andare a nozze con la sorella dello zar Alessandro. Matrimonio che
avrebbe stabilito un’alleanza tra Francia e Russia e avrebbe reso
definitivi i termini della pace di Tilsit, ottenuta dopo che Napoleone
aveva sconfitto i russi a Eylau (1807). Quello sposalizio con Maria
Luisa fu perciò un vero capolavoro politico. Anche perché, come già mise
in luce Albert Sorel nell’Ottocento, il risultato del matrimonio tra
Napoleone e Maria Luisa «fu di riavvicinare all’Austria una Russia che
da quell’avvenimento traeva la convinzione della definitiva rottura
dell’alleanza di Tilsit, intravedendo come ormai inevitabile una guerra
con la Francia; e cercava, di conseguenza, in un buon vicinato con
Vienna, di ridurre la forza degli eventuali avversari». Quel matrimonio
tra Napoleone e la figlia dell’imperatore d’Austria è a tal punto «suo»
che Metternich, da ministro degli Esteri, si trasferisce per quasi un
anno a Parigi, così da aver le mani libere per accudire lo sposo e
cercare, in qualche modo, di indirizzarne la politica.
In quei mesi del 1810, però, Metternich, scrive Mascilli Migliorini,
«acquisisce la certezza che il matrimonio non ha regalato all’Austria
una condizione sia pur vagamente paritaria rispetto alla Francia
napoleonica nella progettazione di un nuovo equilibrio europeo: non c’è
speranza di alleanza sufficientemente egualitaria nella cornice di
un’Europa sufficientemente stabilizzata». Anzi, per dirla in modo più
preciso, «Metternich avverte allora in maniera pressoché definitiva che
l’unica forma di equilibrio e di stabilità possibile è l’egemonia
francese sul continente: un disegno di cui egli non può condividere né
l’ispirazione originaria (una egemonia appunto), né i termini ideali e
sociali di svolgimento (la rivoluzione) né il ruolo (di comprimario
subalterno o addirittura di esecutore) riservato all’Austria e alla sua
dinastia».
E infatti Napoleone, come da previsione di Metternich, riprenderà la via
delle armi e dell’avventura, che lo condurrà alla rovinosa campagna di
Russia (1812). E non si darà quiete neanche dopo la disastrosa ritirata
di cui resterà simbolo, a fine novembre 1812, la sconfitta della
Beresina. A questo punto Metternich lo incontra il 26 giugno 1813 a
Dresda, nel colloquio (voluto da Bonaparte) di cui si è detto
all’inizio. In piedi al centro del suo studio nel Palazzo Marcolini,
Napoleone riceve l’ospite con il cappello sotto il braccio. «Quel
cappello che decine e decine di immagini sparse in tutta Europa hanno
ormai reso celebre», racconta Mascilli Migliorini, «volerà nella sala
almeno quattro volte nel corso di una conversazione che durerà nove ore e
sembrerà fermarsi solo quando il buio della notte obbligherà i due
interlocutori ad abbandonare una stanza diventata nel frattempo scura
perché nessuno in quelle ore ha osato entrarvi». Metternich gli propone
delle soluzioni che comportano qualche passo indietro, ma che gli
consentirebbero di cavalcare il difficile frangente. Lui, però,
accetterà esclusivamente soluzioni di breve momento, di quelle che
«parlano il linguaggio della saggezza diplomatica che si dà ancora
qualche tempo per assecondare le forme e assestare le forze in campo».
Accomiatandosi, Metternich, che ha ben compreso il senso di quel che gli
ha detto Napoleone, gli risponderà con parole durissime: «Voi siete
perduto, sire. Ne avevo il presentimento venendo qui; ora che me ne
vado, ne ho la certezza». I fatti gli daranno ragione.
Per l’imperatore corso, che nel frattempo ha avuto un erede maschio
dalla figlia dell’imperatore austriaco, sarà la decisiva sconfitta di
Lipsia (ottobre 1813). Dopodiché, con grande finezza politica,
Metternich si muoverà «cercando di evitare il crollo troppo rapido e
rovinoso dell’Impero napoleonico e pensando, semmai, che la soluzione
più vantaggiosa potrebbe alla fine trovarsi in un’abdicazione a
vantaggio del figlio e una reggenza della madre (che è pur sempre
un’Asburgo!)». Ma Napoleone non desiste, viene sconfitto, mandato
all’Elba (1814), torna ed è, per lui, la disfatta definitiva di Waterloo
(1815). Per Metternich è il momento di una vittoria «troppo piena», nel
senso che non gli è consentito di tenere in vita qualche eredità della
Rivoluzione francese. A Vienna, dove si riunisce il Congresso per dare
un nuovo ordine al continente, la folla riconosce in lui il vincitore di
una partita che è durata due decenni: a teatro lo salutano le note
dell’Ouverture del Prometeo di Beethoven. Ma lui non si inebria, anzi è
assalito da una sorta di malinconia.
A dicembre del 1815 visita una prima volta il Lombardo Veneto. Poi
tornerà in Italia due anni dopo e se ne invaghirà. A Ferrara ammira il
teatro «che farebbe onore a una grande capitale». A Bologna incontra
l’erudito abate Mezzofanti, direttore della Biblioteca universitaria,
«che conosce trenta lingue e quando parla tedesco sembra di trovarsi al
cospetto di un autentico figlio della Sassonia». «Mi sarebbe difficile
esprimervi il genere di impressione che Firenze deve necessariamente
produrre su qualsiasi uomo che ami le cose belle e grandi», scrive alla
moglie, compiacendosi della lingua parlata dalla gente comune. «Un
vignaiolo che aveva l’aria di un mezzo negro mi ha fatto da Cicerone»,
racconta in un’altra lettera. A Lucca ammira gli eleganti ricordi
napoleonici. La penisola italiana gli provoca uno strano sentimento di
estasi, che lo spinge a volgere lo sguardo al passato. E si aggiunge
qualcosa di ancor più intenso l’anno successivo, nel 1818, quando
l’imperatore, a premiarlo per le sue benemerenze, gli regalerà, nella
sua terra natia, la tenuta di Johannisberg, dal cui castello, scrive
Metternich, «si possono vedere venti leghe di corso del Reno… otto o
dieci città, vigneti che quest’anno daranno almeno venti milioni di
litri di vino, interrotti da prati e da campi che sembrano dei giardini,
graziosi boschi di querce e una pianura immensa coperta di alberi che
si piegano sotto il peso di frutti eccellenti».
Metternich ha 45 anni ed è un uomo diverso da quello del passato. Con la
rivoluzione spagnola del 1820 l’Europa si rimette in movimento e ora
non c’è più Napoleone a fargli da contraltare. Adesso è lui che deve
trovare soluzioni e non è capace di dare risposte diverse da quelle che
comportano il ricorso alla forza. E questo mentre l’Inghilterra, alleata
fino a qualche istante prima nella campagna antinapoleonica, prende
(ovunque le sia consentito) le parti della lotta per la libertà.
Metternich, scrive Mascilli Migliorini, «entra in questa stagione con
una determinazione “vitale”, con un rapporto scarno e determinato con la
forza e con il suo utilizzo, che non aveva molto da invidiare a quel
Napoleone al quale, nelle ore del loro incontro a Dresda, egli non aveva
mancato di rimproverare proprio questo: una fiducia nella forza
destinata a soccombere alla ragionevolezza di chi agisce all’ombra e con
la tutela della tradizione». Adesso era lui che avrebbe potuto essere
rimproverato di eccessivo ricorso alla violenza a difesa dell’ordine
esistente contro le quattro rivoluzioni (Spagna, Portogallo, Napoli e
Piemonte) dei primi anni Venti. Stessa politica negli anni Trenta dopo
la rivoluzione di luglio (1830) in Francia, allorché darà vita alla lega
delle «tre aquile nere» (Austria, Prussia e Russia). E, soprattutto,
dopo la morte dell’imperatore Francesco I, quando vedrà crescere a
dismisura le proprie responsabilità politiche.
Sono anni in cui Metternich, scrive Mascilli Migliorini, colloca il
proprio Paese «in aperta, inevitabile rotta di collisione con tutte le
correnti innovatrici della lotta politica del suo tempo». Nel 1836 gioca
di nuovo la carta delle alleanze matrimoniali con il duca d’Orléans,
prima, e Ferdinando re delle due Sicilie, poi. Ma l’Europa è di nuovo in
sommovimento e il fatto che non ci sia all’orizzonte un Bonaparte
rafforza paradossalmente le rivoluzioni. È così anche negli anni
Quaranta, fino a quel 6 agosto del 1847 quando in una lettera al conte
Gyorgy Apponyi, vicecancelliere del Regno d’Ungheria, lascerà cadere la
definizione dell’Italia «espressione geografica». Si è molto discusso se
in quell’occasione Metternich volesse dire quel che di sprezzante nei
confronti della nostra penisola gli è stato attribuito. Quasi
sicuramente no. Ma è un fatto che l’uomo non è più in grado di capire
cosa siano i movimenti rivoluzionari e come li si debba affrontare. Ed è
così che la sua defenestrazione è la prima risposta che l’Austria
sceglie di dare, in marzo, ai moti del 1848.
Un suo grande rivale politico, Franz Anton von Kolowrat, la racconta in
questi termini: «Una compagnia di nobili percorre la puszta (pianura
ungherese) d’inverno a bordo di una slitta. Un branco di lupi li insegue
e sta per aggredire i cavalli. A questo punto i viaggiatori non hanno
altra soluzione se non buttare giù dalla slitta il più corpulento degli
occupanti, sperando che i lupi, impegnati a divorarlo, non si
preoccuperanno più della slitta». Quando Metternich quel giorno torna a
casa, la nuova moglie, Mélanie, gli domanda: «Allora siamo morti?». Non
ci sarà bisogno di risposta. E mentre Radetzky, nell’estate del 1848, dà
prova sul campo militare di tutta la rinnovata forza dell’Austria,
Metternich si vede costretto ad una sorta di esilio prima a Londra, poi
in Belgio. Per tornare a casa solo nell’ottobre del 1851 e ricevere lì
l’onore di una visita del nuovo, giovane sovrano, Francesco Giuseppe.
Metternich morirà nel 1859, non prima di averci lasciato otto corposi
volumi di memorie, all’interno dei quali si affaccia una ricorrente
considerazione sul carattere transitorio dei tempi in cui ha vissuto.
«Sono venuto al mondo o troppo presto o troppo tardi», scrive nel 1822. E
nel 1844 insiste: «La mia epoca è stata un periodo di transizione… in
una fase di questo tipo, l’edificio del passato è in rovina mentre il
nuovo edificio non è ancora in piedi». Il dato curioso è che sono tutte
riflessioni successive a quel Congresso di Vienna che lo aveva
consacrato al potere per più di trent’anni. Ed è interessante come torni
in lui la memoria di un palazzo viennese e di una sala «splendidamente
illuminata per l’occasione», dove si riaffacciò il «fantasma di Dresda».
Stavolta — siamo nell’inverno del 1825 — il principe di Metternich
incontra Federico Confalonieri, arrestato per aver partecipato ai moti
liberali di Milano e in procinto di essere inviato al carcere dello
Spielberg. Ma se a Dresda, scrive Mascilli Migliorini, «quasi con
sorpresa» si era vista circolare «un’impalpabile simpatia reciproca» tra
Metternich e Napoleone, qui si cercherebbe invano tra i due
protagonisti «un punto di contatto, un sentimento di fondo condiviso,
che sarebbe tanto più naturale in due uomini educati nello stesso
universo di valori e di simboli». Metternich sa bene che il conte
milanese non è certo della stessa pasta dei «demagoghi, dei giacobini,
dei rivoluzionari di mestiere», ma questo rappresenta ai suoi occhi «una
colpa ancor più grave». E il fatto che Confalonieri si ostini a non
volergli offrire elementi che potrebbero compromettere Carlo Alberto
nelle cospirazioni dell’epoca, aggrava la situazione. Peggio:
Confalonieri gli fa intendere di considerarlo un uomo del passato, gli
dà la sensazione che in quella stanza «non erano due uomini che si
incontravano, ma due età e due principii»; stavano di fronte l’uno
all’altro «il simbolo vivente del dispotismo con croci e ciondoli sul
petto» e il futuro, sia pur rappresentato da un «uomo in ceppi». Un
giudizio che «ci restituisce, a parti invertite, i sentimenti con i
quali Metternich aveva vissuto le ore di Dresda». Ed è in
quell’inversione delle parti che Metternich aveva perso la parte
migliore di sé .
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