domenica 6 aprile 2014

Ricordo di Stuart Hall

Senza nascondere le responsabilità di SH, e di chi ne ha divulgato il pensiero, nei cedimenti del pensiero critico al postmodernismo [SGA].

Vite di passaggio
Ritratti. Una riflessione intorno alla figura di Stuart Hall, a partire dal film di John Akomfrah. Il teorico dei «cultural studies» sarà ricordato al Guggenheim di New York il 25 aprile Sandro Mezzadra, il Manifesto 5.4.2014



Un senso di «incer­tezza e inquie­tu­dine», e una certa nostal­gia «per ciò che non può essere»: così Stuart Hall, nelle prime bat­tute del film di John Akom­frah, The Stuart Hall Pro­ject (2013), rias­sume il debito da lui con­tratto con la musica di Miles Davis fin da quando, all’età di vent’anni, il grande jaz­zi­sta afro-americano gli «mise il dito sull’anima». E «incer­tezza e inquie­tu­dine» avvol­gono parole e imma­gini nel film, come dis­se­mi­nate dalla tromba di Davis, a cui si deve gran parte della colonna sonora: quest’ultima diventa anzi lo spar­tito su cui parole e imma­gini si intrec­ciano, dando vita a uno straor­di­na­rio rac­conto a un tempo di un’avventura intel­let­tuale (quella di Hall, di cui si ascol­tano brani di inter­venti lungo l’arco di un cin­quan­ten­nio) e di una sto­ria, quella bri­tan­nica del dopo­guerra, rico­struita in chiave glo­bale, seguendo il duplice filo con­dut­tore dell’eredità dell’Impero e delle migra­zioni postcoloniali. 


Tra i pro­ta­go­ni­sti della «nuova sini­stra» inglese sul finire degli anni Cin­quanta (fu tra l’altro il primo diret­tore della New Left Review), Stuart Hall è stato a tutti gli effetti uno degli intel­let­tuali più inno­va­tivi e impor­tanti della seconda metà del Nove­cento: straor­di­na­rio sag­gi­sta e grande orga­niz­za­tore cul­tu­rale più che autore di opere «siste­ma­ti­che», è legit­ti­ma­mente con­si­de­rato uno dei padri dei cul­tu­ral stu­dies, e ha offerto un con­tri­buto impre­scin­di­bile, per citare sol­tanto qual­che tema, allo stu­dio di vec­chi e nuovi media, pra­ti­che arti­sti­che e sub-culture gio­va­nili, pro­cessi di cri­mi­na­liz­za­zione e raz­zi­smo, cul­ture popo­lari e ideo­lo­gia, mul­ti­cul­tu­ra­li­smo e postcolonialismo. 

A gui­dare la ricerca di Hall, come si legge in una bella con­ver­sa­zione con Miguel Mel­lino (La cul­tura e il potere, Mel­temi, 2007), è sem­pre stato l’interesse per «il rap­porto, la con­nes­sione e l’interazione tra cul­tura e potere». E la «cul­tura» si è tal­mente allar­gata con il pas­sare degli anni da finire non para­dos­sal­mente per con­trarsi, diven­tando una lente straor­di­na­ria­mente effi­cace per ana­liz­zare le tra­sfor­ma­zioni del rap­porto tra potere e sog­get­ti­vità: sia dal punto di vista delle pres­sioni che il primo eser­cita sulla seconda, attra­verso dispo­si­tivi di assog­get­ta­mento, sia soprat­tutto dal punto di vista delle pra­ti­che con cui i sog­getti costruiti come «subal­terni» si sot­trag­gono alla presa del potere, lo sfi­dano e lo costrin­gono a rior­ga­niz­zarsi. Il Ses­san­totto e il fem­mi­ni­smo sono stati tor­nanti deci­sivi in que­sto senso. Il fem­mi­ni­smo in par­ti­co­lare, ha scritto Hall, «è ’arri­vato come un ladro di notte’; ha deter­mi­nato un’interruzione, ha fatto un bac­cano inde­co­roso, si è impa­dro­nito dell’epoca, ha messo in disor­dine il tavolo degli studi cul­tu­rali», obbli­gando que­sti ultimi a rein­ven­tarsi e mostrando l’impossibilità di una loro ridu­zione a un «canone». 
Arrivi e partenze 

«Incer­tezza e inquie­tu­dine» segnano del resto l’esperienza di Stuart Hall fin dal suo prin­ci­pio. Nato in Gia­maica, giunse in Inghil­terra nel 1951 per stu­diare a Oxford, men­tre pren­deva avvio la grande migra­zione dalle «Indie occi­den­tali» che avrebbe cam­biato radi­cal­mente la società e la cul­tura inglesi. Anche se la sua espe­rienza in Gran Bre­ta­gna si svolse nelle aule uni­ver­si­ta­rie, e non nelle bet­tole, nei dor­mi­tori e nelle fab­bri­che fre­quen­tati dai lonely Lon­do­ners immor­ta­lati da Sam Sel­von in un grande romanzo del 1956 (Lon­di­nesi soli­tari, Mon­da­dori, 1998), pos­siamo ben imma­gi­nare che Hall con­di­vi­desse qual­cosa del mood di quei pro­le­tari carai­bici che «stanno in Inghil­terra da tempo, e tut­ta­via non rie­scono a togliersi l’abitudine di andare a Water­loo ogni volta che arriva un treno con pas­seg­geri dai Caraibi. Gli piace vedere facce fami­liari, gli piace guar­dare i com­pa­trioti scen­dere dal treno e, a volte, potreb­bero indi­vi­duare qual­cuno che conoscono». 

A Water­loo, del resto, i pro­ta­go­ni­sti del romanzo di Sel­von anda­vano non tanto per ali­men­tare il sogno del «ritorno», quanto per con­vi­vere con il suo neces­sa­rio con­ti­nuo «dif­fe­ri­mento»: per fron­teg­giare appunto l’incertezza e l’inquietudine col­le­gate a quella che pro­prio Hall avrebbe defi­nito in pagine molto belle la con­di­zione della dia­spora, ovvero alla sen­sa­zione di vivere all’interno di due diversi spazi senza «appar­te­nere» com­ple­ta­mente a nes­suno di essi. 

La migra­zione dalle Indie occi­den­tali, scri­veva Hall, era del resto «dia­spora di una dia­spora»: «i Caraibi sono già una dia­spora dell’Africa, dell’Europa, della Cina, dell’Asia, dell’India, e que­sta si è ri-diasporizzata in Gran Bretagna». 
Sug­ge­stioni gramsciane 

Que­sti temi hanno assunto un’importanza via via cre­scente nel lavoro di Hall, sia per quanto riguarda lo stu­dio delle pra­ti­che cul­tu­rali e arti­sti­che che hanno fatto dell’esperienza della dia­spora (tanto in Gia­maica quanto in Inghil­terra) una fonte di crea­ti­vità e ispi­ra­zione sia per quanto riguarda l’analisi mili­tante delle tra­sfor­ma­zioni del raz­zi­smo e il ten­ta­tivo di assu­mere la dia­spora come cri­te­rio gene­rale di sog­get­ti­vità poli­tica nel tempo della glo­ba­liz­za­zione. Hall è stato a un tempo testi­mone e pro­ta­go­ni­sta del dive­nire «mul­ti­cul­tu­rale» della Gran Bre­ta­gna, tenen­dosi a distanza di sicu­rezza dalle reto­ri­che main­stream sul mul­ti­cul­tu­ra­li­smo e seguendo piut­to­sto le pra­ti­che (cul­tu­rali e arti­sti­che, certo, ma anche di riot e di mate­riale con­tra­sto al raz­zi­smo) attra­verso cui i migranti post­co­lo­niali si sono let­te­ral­mente fatti largo nella società, sfi­dando imma­gini con­so­li­date della bri­ti­sh­ness e con­qui­stando spazi e diritti mai garan­titi una volta per tutte (un altro splen­dido film di John Akom­frah, The Nine Muses, del 2010, docu­menta e inter­preta que­sto processo). 

«Senza garan­zie» rimase sem­pre del resto la ricerca di Hall, come quel «mar­xi­smo senza garan­zie» a cui inti­tolò nel 1986 un suo sag­gio sul pro­blema dell’ideologia. 

Il con­fronto con Louis Althus­ser, e poi con gli svi­luppi del «post-strutturalismo fran­cese», fece da sfondo negli anni Ottanta a un’originale let­tura dell’opera di Gram­sci, da cui derivò una serie di sug­ge­stioni pro­prio «per lo stu­dio della razza e dell’etnicità» (per richia­mare un altro titolo di un sag­gio di Hall, anch’esso del 1986). Cen­trale, nel lavoro di Hall di que­sti anni, era il ten­ta­tivo di com­pren­dere «come il sistema del capi­tale possa fun­zio­nare mediante dif­fe­ren­zia­zione e dif­fe­renza (invece che mediante somi­glianza e iden­tità), se inten­diamo pren­dere sul serio la que­stione della com­po­si­zione cul­tu­rale, sociale, nazio­nale, etnica e ses­suale delle par­ti­co­lari, e sto­ri­ca­mente diverse, forme di lavoro». È in fondo que­sta la trac­cia che Hall seguì anche nell’analisi del «that­che­ri­smo», di quei «tempi nuovi» in cui una nuova ege­mo­nia con­ser­va­trice, costruita dap­prima come rea­zione alla carica ever­siva del Ses­san­totto e dei movi­menti che attorno a quell’anno si erano dispie­gati, faceva da sfondo a pode­rose tra­sfor­ma­zioni eco­no­mi­che, sociali e cul­tu­rali, nel segno della crisi del «for­di­smo» e delle figure sociali e poli­ti­che che lo ave­vano caratterizzato. 

Gli scritti di Hall sul that­che­ri­smo con­si­de­ra­vano que­ste tra­sfor­ma­zioni e que­sta crisi irre­ver­si­bili, e avver­ti­vano con­se­guen­te­mente dell’insufficienza di bat­ta­glie pura­mente difen­sive, con­dotte nella pro­spet­tiva di un «ritorno» al wel­fare state messo in discus­sione dai governi Thatcher. 

Nelle aspre pole­mi­che che segui­rono Hall fu accu­sato da espo­nenti della sini­stra bri­tan­nica di com­pli­cità con il neo-liberalismo prima, con il new labour poi: la cosa non può stu­pire, capitò anche a chi in Ita­lia, più o meno nello stesso periodo, avviò un per­corso di ana­lisi cri­tica del post-fordismo a par­tire da un’analoga con­vin­zione che la grande tra­sfor­ma­zione avviata con la crisi dei primi anni Set­tanta met­tesse in discus­sione la stessa poli­tica tra­di­zio­nale della sini­stra (e viene da aggiun­gere che quello tra Stuart Hall e il lavoro teo­rico ita­liano di pro­ve­nienza ope­rai­sta è stato dav­vero un incon­tro man­cato in que­gli anni!). 
Map­pa­ture soggettive 

«Il ritorno del sog­getto» era uno dei temi fon­da­men­tali che Hall pro­po­neva alla discus­sione della sini­stra nei «tempi nuovi»: in altre parole, l’esigenza di guar­dare oltre i modi con­so­li­dati di pen­sare e costruire la sog­get­ti­vità, che erano stati sfi­dati dai movi­menti prima che dalle poli­ti­che neo-liberali; di car­to­gra­fare le nuove istanze sog­get­tive, di seguire i per­corsi e le pra­ti­che in cui si espri­me­vano, con quell’ottimismo non inge­nuo (e natu­ral­mente «senza garan­zie») che sem­pre guidò Hall. E in cui pos­siamo in fondo vedere l’elaborazione della nostal­gia per «ciò che non può essere» che gli ispi­rava la musica di Miles Davis.

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