E' giusto dire che la modernità è stata piena di contraddizioni. Tuttavia, i rappresentanti di quella storiografia alla quale il recensore si richiama con orgoglio, non hanno mai avuto lo stesso atteggiamento comprensivo quando si è trattato del socialismo. Eppure era esattamente la stessa cosa. Anzi una cosa più difficile, perché si trattava di concentrare in pochi decenni uno sviluppo che il modo di produzione capitalistico aveva effettuato nel c orso di secoli. Nonostante questa enorme diluizione del dolore, il capitalismo è stato un meccanismo di morte - e di progresso ad un tempo - impareggiabile [SGA].
Marcus Rediker: La nave negriera, traduzione di Francesco Francis, Il Mulino, pagine 464, e 36
Risvolto
Rediker
si concentra sul momento-chiave del trasporto dall'Africa all'America
mettendo sotto la lente d'ingrandimento la nave quale microcosmo che
riassume l'intero mondo della tratta. Con una sequenza di storie
esemplari, dedotte da fonti d'epoca, il libro racconta com'era fatta la
nave, cosa vi accadeva, chi e come la popolava gli schiavi, il capitano,
la ciurma, gli ospiti eventuali, i mercanti. Così il libro evoca il
mondo di quelle terribili "prigioni galleggianti" che solcando
l'Atlantico produssero insieme enorme ricchezza e altrettanta
desolazione e dolore.
Franco Cardini Avvenire 24 ottobre 2014
Il laboratorio nave negrieraStrumento della tratta degli schiavib ma anche incubatrice della modernità
di Paolo Mieli Corriere 30.9.14
Un
microcosmo in cui regnavano la violenza e la sopraffazione Esce in
libreria dopodomani, giovedì 2 ottobre, il saggio dello storico
americano Marcus Rediker La nave negriera (traduzione di Francesco
Francis, Il Mulino, pagine 464, e 36), che analizza a fondo il
microcosmo costituito dalle imbarcazioni che trasportavano gli schiavi
neri dall’Africa alle Americhe. Docente di Storia atlantica
all’Università di Pittsburgh, Rediker ha pubblicato diversi volumi
tradotti nel nostro Paese, tra cui Canaglie di tutto il mondo unitevi.
L’epoca d’oro della pirateria (Elèuthera, 2005) e
La ribellione
dell’Amistad (Feltrinelli, 2013). Sul tema specifico del traffico di
esseri umani attraverso l’Oceano Atlantico, Il Mulino ha pubblicato
negli scorsi anni
il libro di Olivier Pétré-Grenouilleau La tratta
degli schiavi (2010) e quello di Lisa Lindsay Il commercio degli schiavi
(2011).
Il 25 agosto del 1775, quando i marinai di Liverpool
avevano appena finito di attrezzare la nave «Derby» in preparazione di
un viaggio alla volta dell’Angola (per trasportare schiavi dalla costa
africana alla Giamaica), il comandante, Lucas Mann, annunciò che avrebbe
ridotto la paga mensile da trenta a venti scellini. Tanto, disse, «di
manodopera ce n’è quanta ne voglio». Per reazione i marinai sciolsero il
cordame e lo lasciarono sul ponte in un ammasso aggrovigliato.
L’armatore, Thomas Yates, chiamò le guardie che arrestarono nove ribelli
e un giudice li condannò all’istante. A questo punto sul molo si radunò
una folla decisa a liberare i «fratelli marinai». Ci riuscirono. Di lì
ebbe origine una nuova forma di protesta, che presto si sarebbe
trasformata in una vera e propria insurrezione. Liberati i loro
compagni, i marinai si dedicarono a disattrezzare le navi dell’intero
porto. Si diressero poi al quartier generale dei mercanti per avanzare
la richiesta che si tornasse alla paga di sempre. Dal Mercantile
Exchange furono esplosi dei colpi e alcuni lavoratori del mare restarono
uccisi sul selciato. I loro «fratelli» risposero colpendo l’edificio
con proiettili dei cannoni presi dalle navi. Non solo. I rivoltosi
marciarono compatti dietro George Oliver che portava il bloody flag , la
bandiera rossa che nel codice dei pirati annunciava la loro intenzione
di non chiedere né dare quartiere: sarebbe stata, la loro, una battaglia
all’ultimo sangue. Liverpool ammutolì terrorizzata. La rivolta durò una
settimana, finché fu domata dal reggimento di lord Penbroke che, dopo
aver marciato una notte intera da Manchester sotto la pioggia, si
presentò in una città stremata, riuscendo in poche ore ad aver ragione
dei ribelli. Nacque in quei giorni quello che oggi chiamiamo sciopero e
che in inglese prende il nome ( strike ) proprio dall’azione compiuta
dai marinai di «abbattere» le vele delle navi. Non tutte le navi, però.
Solo quelle impegnate nel commercio di schiavi.
A questo genere di
imbarcazioni è dedicato il libro La nave negriera di Marcus Rediker, in
uscita dal Mulino. Su quei velieri per quattro secoli circa — dalla fine
del XV alla seconda metà del XIX — viaggiarono da una parte all’altra
dell’Atlantico, in quello che venne definito il «passaggio di mezzo», 12
milioni di neri deportati, due terzi dei quali tra il 1700 e il 1808.
Con una quantità impressionante di morti: un milione e mezzo. Ai quali
se ne deve aggiungere un numero ancora più imponente (un milione e 800
mila) di deceduti nel corso del viaggio che li aveva trasportati dalle
zone interne dell’Africa a quelle costiere. Più 750 mila trapassati
durante il primo anno di lavoro nel Nuovo Mondo. Per un totale di oltre
quattro milioni. Una mostruosità che ha fin qui offuscato il ruolo che
ebbe la protagonista di questo libro, la nave, che pure è stata un
elemento fondamentale del passaggio alla modernità.
La nave
negriera, rileva Rediker, «è stata un argomento trascurato nella
letteratura storica sul traffico atlantico di schiavi». Sono state
condotte «eccellenti ricerche sull’origine, sulla distribuzione nel
tempo, sui volumi, sui flussi e sui profitti della tratta degli schiavi,
ma non esistono studi sufficientemente ampi sulla nave che aveva reso
possibile un commercio destinato a trasformare il mondo: non esistono
analisi dei meccanismi della più grande migrazione forzata della storia,
che sotto molti aspetti fu il punto chiave di un’intera fase della
globalizzazione; non esistono studi sullo strumento che spianò la strada
alla “rivoluzione commerciale” dell’Europa, alla creazione delle sue
piantagioni e dei suoi imperi globali, allo sviluppo del suo capitalismo
e per finire alla sua industrializzazione». In breve, «la nave negriera
e le relazioni sociali al suo interno hanno dato forma al mondo
moderno» ed è giunto il momento di renderne conto. Quel vascello, scrive
Rediker, «è un fantasma che naviga ai margini della coscienza moderna».
Esso fu «uno dei cardini su cui ruotava il sistema atlantico di
capitale e lavoro che si stava rapidamente affermando e che coinvolgeva
lavoratori liberi, non liberi e in condizioni intermedie, nelle società
capitalistiche come in quelle non capitalistiche, in più continenti».
Compito del marinaio era trasformare il prigioniero africano in un bene
vendibile. E la nave fu il luogo dove questo processo si compiva.
I
primi ad accorgersi di quale portento fosse quel mezzo di locomozione
sui mari furono i futuri schiavi, che, dopo essere stati catturati da
altri neri con delle razzie all’interno del loro continente, venivano
trasportati sulla costa in viaggi che duravano mesi. Al termine dei
quali, avevano la visione sorprendente di quella che molti di loro
definivano «casa con le ali». L’esploratore Mungo Park riferisce nel
1797 che i «prigionieri rimanevano strabiliati alla vista delle navi»:
si chiedevano quale fosse «la maniera per collegare insieme le tavole
che componevano lo scafo e di tappare le connessure per non fare entrare
l’acqua»; erano affascinati «dalla funzione degli alberi, delle vele,
delle sartie», si meravigliavano che «fosse possibile far muovere un
oggetto così grande con la sola forza del vento». E ancor più si
stupivano che, come per magia, quei giganti riuscissero all’improvviso a
fermarsi. Olaudah Equiano, lo schiavo che nel 1789 scrisse
un’autobiografia destinata a diventare il libro di riferimento di tutti
gli abolizionisti, racconta che ritenne fossero gli spiriti a far
arrestare la nave. Tanto più che gli schiavi venivano rinchiusi nel
ponte inferiore in modo da impedir loro di vedere come l’imbarcazione
veniva manovrata, così da scoraggiare tentazioni di ammutinamento.
Nell’introduzione
al suo libro Principles of Naval Architecture (1784), Thomas Gordon fa
un’affermazione radicale: «Poiché indiscutibilmente la nave è la più
nobile e fra le più utili macchine mai inventate, ogni tentativo di
migliorarla va guardato come ad un’impresa di grande importanza e merita
la considerazione dell’umanità tutta». L’origine della nave negriera in
quanto «macchina capace di trasformare il mondo», risale alla fine del
Cinquecento, allorché i portoghesi intrapresero i loro viaggi verso le
coste occidentali dell’Africa. L’importanza specifica della nave
negriera, secondo Rediker, fu poi legata a un’altra fondamentale
istituzione collegata allo schiavismo: la piantagione. Una forma di
organizzazione economica che ebbe inizio nel Mediterraneo durante il
Medioevo, si diffuse nelle isole dell’Atlantico orientale per emergere
infine, nel corso del Seicento, in una forma nuova e rivoluzionaria nel
Nuovo Mondo, specie in Brasile, nei Caraibi e nell’America
settentrionale. La nave e le piantagioni fecero compiere all’economia un
salto definitivo nella modernità. In che senso?
La nave negriera
era «una poderosa macchina per la navigazione», ma era anche di più:
«qualcosa di unico nel suo genere». Era infatti «una factory nonché una
prigione», e in questa combinazione risiedevano «la sua genialità e il
suo orrore». La nave era «una fabbrica, uno stabilimento produttivo in
senso moderno; il veliero oceanico era un classico luogo di lavoro, dove
mercanti capitalisti ammassavano e confinavano un gran numero di
lavoratori poveri e si servivano di capisquadra (comandanti e ufficiali)
per organizzare, o meglio sincronizzare, le varie mansioni». Fu il
mercante e lobbista Malachy Postlethwayt a teorizzare nel 1745 il
«commercio triangolare», secondo cui le navi dovevano partire da porti
europei con un carico di manufatti industriali alla volta dell’Africa
occidentale, dove li avrebbero scambiati con un carico di schiavi, per
poi proseguire per le Americhe dove questi ultimi sarebbero stati
scambiati con merci come zucchero, tabacco o riso da trasportare ai
porti di partenza. Nel corso di quel viaggio uomini e donne africani
erano stati trasformati in merce.
L’ingresso «nello sconvolgente,
terrificante mondo della nave negriera», scrive Rediker, «rappresentò
per i neri catturati una traumatica transizione dal controllo africano a
quello europeo». L’unica via di fuga da questa «fabbrica» era il
suicidio, compiuto con il lasciarsi cadere in acqua. Una pratica molto
diffusa. I comandanti negrieri «si servivano coscientemente degli squali
per generare terrore durante il viaggio: contavano infatti su quel
terrore, durante le lunghe soste sulla costa africana nel tempo
occorrente a completare il “carico umano”, per prevenire sia le
diserzioni dei marinai sia le fughe di schiavi». Tutto appariva magico e
spaventoso durante il tragitto dall’Africa all’America. Narra Equiano
che, quando le onde cominciavano a sollevarsi, lui e i suoi compagni di
viaggio pensavano che fossero segno dell’ira del dio dei mari, al quale
si aspettavano di essere sacrificati. Lo stesso accadeva quando vedevano
le orche, che scambiavano per «spiriti dei mari». E quando il cibo
cominciò a scarseggiare, ritennero più che probabile essere dati in
pasto all’equipaggio. Anzi, pensarono che per questo fine erano stati
ammassati a bordo. Un secondo momento di grande paura dei neri era
all’arrivo, dove, riferiscono le loro testimonianze, al cospetto degli
acquirenti, «pensavamo che saremmo stati mangiati da quegli uomini
orribili, perché così li vedevamo». Talché dovevano essere fatti salire a
bordo «alcuni vecchi schiavi da terra per calmarci».
Ma il destino
dei marinai non era molto migliore di quello degli africani. Per
trasportare milioni di schiavi, si dovettero arruolare equipaggi per un
totale di almeno 350 mila uomini, il 30 per cento dei quali era composto
da ufficiali o lavoratori specializzati che ricevevano particolari
incentivi e quindi tornavano ad arruolarsi più spesso dei marinai
comuni. Ma ce n’erano poi altri 200 mila e più che si facevano
ingaggiare a condizioni di lavoro durissime, paghe modeste, cibo
scadente e altissimo rischio di mortalità («per incidenti, abuso di
disciplina, rivolte di schiavi o malattie»). Essi venivano descritti dai
contemporanei come «rifiuti umani, feccia della nazione». Con le buone o
con le cattive «si attiravano a bordo uomini di tutti i tipi… alcuni,
ubriachi o indebitati, erano stati costretti a scambiare la prigione
della terraferma con una galleggiante». Ecco, appunto, anche per i
marinai quel genere d’imbarcazione era una «prigione galleggiante».
Appena la nave era distante dalle coste europee, talché nessuno avrebbe
potuto scendere, si trasformava in un «inferno sui mari». E qualcuno
come James Field Stanfield nel 1788 pensava che in un certo senso «gli
schiavi stessero meglio dell’equipaggio, se non altro perché il
comandante aveva un incentivo economico per nutrirli e mantenerli in
vita nel passaggio di mezzo». Anche la vita del comandante, però, non
era tutta rose e fiori, esposta com’era ad avversità, violenze,
ammutinamenti. Fu fatto un calcolo, tra gli anni 1801 e 1807, che un
comandante su sette moriva durante il viaggio e questo significava che i
mercanti dovevano predisporre una catena di comando con uno o a volte
due ufficiali pronti a subentrargli: «La stessa fragilità del potere a
bordo della nave può aver contribuito ad accrescerne la spietatezza».
Paradossalmente
l’odio per i trafficanti di schiavi (e con esso la battaglia
abolizionista) iniziò da un uomo che era stato al loro servizio.
Bartholomew Roberts, un giovane gallese, si era imbarcato come secondo
di bordo sulla «Princess», una nave negriera in partenza da Londra per
la Sierra Leone. Nel giugno del 1719 la «Princess» fu catturata da una
banda di pirati il cui comandante, Howell Davis, propose a Roberts di
unirsi alla «fratellanza». Roberts accettò, si trasformò in «Bart il
Nero» e ben presto divenne il corsaro più famoso della sua epoca: era a
capo di una flotta di navi e di molte centinaia di uomini, che
catturarono più di 400 mercantili in un periodo di tre anni. Le sue
caratteristiche erano quella di passeggiare sul ponte vestito da dandy
(gilet damascato, una piuma sul cappello e uno stuzzicadenti d’oro in
bocca) e quella di odiare i modi brutali dei comandanti delle navi
negriere. Al punto che «lui e la sua ciurma usavano celebrare una sorta
di cruento rituale, che chiamavano “dispensazione di giustizia”,
consistente nel somministrare una micidiale quantità di frustate ai
comandanti accusati dai marinai di comportamenti violenti nei confronti
dei neri». Roberts terrorizzò le coste africane, gettando nel panico i
mercanti locali. A seguito delle sue imprese, le cose cominciarono a
cambiare.
La nave negriera ebbe un’evoluzione dettata in un primo
tempo da esigenze economiche e in un secondo anche da pressioni degli
ambienti abolizionisti. Inizialmente i bastimenti usati per la tratta,
ricorda Rediker, non venivano costruiti specificamente per quel tipo di
commercio: per tutto il periodo 1700-1808 il traffico di schiavi fu
praticato da natanti di tutti i tipi e di tutte le stazze. Dopo il 1750,
però, cominciò ad apparire un nuovo genere di nave negriera, specie nei
cantieri navali di Liverpool, più grande e dotata di caratteristiche
particolari: prese d’aria, fondo rivestito di rame, più spazio fra i
ponti. La nave negriera «era una delle più importanti tecnologie del
tempo». Il disegno delle navi prodotte a Liverpool subì altre modifiche
verso il 1790, come risultato delle pressioni esercitate dal movimento
abolizionista e dell’approvazione da parte del Parlamento inglese di una
riforma volta a migliorare il trattamento e le condizioni sanitarie di
marinai e schiavi. Il Parlamento inglese abolirà la tratta degli schiavi
nel 1807 (ma lo schiavismo resterà in vigore fino al 1833). E quella
fattispecie di modernità venuta alla luce su quelle navi o a ridosso di
esse — con un impasto di accumulazione impetuosa, ribellioni, tensioni
interrazziali, insurrezioni violente — lasciò i mari per tornare
definitivamente sulla terraferma.
“A bordo la legge era la violenza”
Lo storico Rediker: ma non fate paragoni con i drammi d’oggi nel Mediterraneodi Paolo Mastrolilli La Stampa 2.6.15
«Le navi schiaviste navigano ancora. E non mi riferisco a quelle del
traffico umano nel Mediterraneo, che l’Unione Europea farebbe meglio a
non assimilare alla tragedia di due secoli fa».
La scoperta della São José riporta in vita l’orrore che Marcus Rediker
aveva descritto nel libro La nave negriera (ed. Mulino) dove aveva
spiegato nel dettaglio i meccanismi della tratta degli schiavi.
Perché è un fatto importante?
«Consente di raccontare quella tragedia in una maniera molto più efficace, dal vivo».
E’ la prima nave negriera ritrovata sul fondo del mare?
«No, ma è la prima affondata quando aveva a bordo degli schiavi».
Perché questo è rilevante?
«Se riuscissero a trovare dei frammenti ossei, gli antropologi
potrebbero scoprire molte informazioni nuove sul trattamento degli
schiavi e il livello di violenza a bordo».
Ci può spiegare il meccanismo della tratta?
«Le navi partivano dall’Europa, soprattutto Portogallo, Gran Bretagna e
Francia, cariche di armi, polvere da sparo, beni manifatturieri
metallici. Andavano soprattutto in Africa occidentale, e solo più tardi
in quella orientale, dove scambiavano queste merci con gli schiavi.
Quindi ripartivano per il Brasile, l’America del Nord, i Caraibi, dove
lasciavano gli schiavi in cambio di materie prime come lo zucchero o il
tabacco, che poi rivendevano in Europa. Facevano profitti tre volte. In
questo modo sono state deportate dall’Africa tra 12 e 14 milioni di
persone».
Come venivano trattati a bordo?
«La legge era la violenza, usata dal capitano per sedare qualunque
rivolta: si andava dalle frustate che spellavano le vittime,
all’omicidio. L’interesse dei trafficanti non era uccidere gli schiavi,
perché così perdevano la merce, ma ammazzavano i più riottosi per dare
l’esempio e dominare gli altri».
Perché lei dice che queste navi solcano ancora i mari?
«I problemi razziali che abbiamo in America derivano tutti da qui. La
paura del nero, la segregazione, la violenza usata per domarlo, sono
tutte eredità dell’epoca schiavista. Ne abbiamo discusso, grazie al
movimento per i diritti civili, ma non abbastanza per superarle».
Perché non dovremmo assimilare quella tratta degli schiavi al traffico che avviene oggi nel Mediterraneo?
«L’Europa lo fa, per avere una giustificazione morale di come tratta i
migranti, ma è un’operazione sbagliata e io ho firmato un manifesto con
altri trecento intellettuali per oppormi».
Perché?
«Prima di tutto, l’origine: gli schiavi venivano trasportati contro la
loro volontà, mentre i migranti di oggi scappano volontariamente da
situazioni insostenibili per la guerra, le persecuzioni etniche o
religiose, e la povertà. Gli schiavisti avevano paradossalmente
l’interesse a consegnare viva la “merce”, mentre agli scafisti non
importa la sorte dei passeggeri. Poi perché l’Europa, con gli errori
commessi durante il colonialismo, ha una forte responsabilità nell’aver
creato le condizioni che ora costringono questi poveretti a scappare».
Quindi cosa dovremmo fare?
«Non sono un politico e non ho suggerimenti pratici, ma dico che non
dovreste usare il tema della lotta allo schiavismo per giustificare le
vostre azioni. Piuttosto, dovreste riflettere di più sul ruolo che avete
avuto».
Cosa intende?
«Gli Usa hanno gravissimi problemi razziali, ma almeno abbiamo
cominciato una discussione sulle nostre responsabilità. L’Europa questa
riflessione non l’ha mai fatta, eppure era una protagonista dello
schiavismo. Questo ha contribuito a creare le difficoltà con cui adesso
gestite l’arrivo dei migranti e il razzismo nelle vostre società. Non ne
uscirete, fino a quando non affronterete con onestà la vostra eredità
razzista».
La nave negriera che affondò col carico di schiavi
Individuata
al largo del Sud Africa dagli esperti dello Smithsonian: è la prima
volta che si scopre una veliero con possibili resti umani a bordodi Paolo Mastrolilli La Stampa 2.6.15
È un fantasma che ci ricorda la peggior storia occidentale, la nave São
José Paquete Africa, scoperta sul fondo del mare al largo di Città del
Capo. Perché quando era colata a picco, il 3 dicembre del 1794, aveva a
bordo tra 400 e 500 schiavi in navigazione dal Mozambico a Maranhão, in
Brasile. Almeno la metà morirono, una strage che ci riporta alla mente
quanto vediamo accadere quasi ogni giorno adesso nel Mediterraneo.
La scoperta è stata fatta dal National Museum of African-American
History and Culture dello Smithsonian di Washington, e dall’Iziko
Museums of South Africa, ed è stata anticipata dal New York Times. Non è
la prima nave schiavista affondata e recuperata, ma è la prima che
aveva a bordo delle persone. Proveniva dal Portogallo, era stata in
Mozambico a caricare «la merce», e aveva appena passato il Capo di Buona
Speranza, quando venti molto forti l’avevano sbattuta contro gli
scogli. L’equipaggio e una parte degli schiavi si erano salvati usando
le scialuppe, ma quando la chiglia aveva ceduto almeno 212 di loro erano
ancora a bordo.
I sommozzatori ingaggiati dai due musei hanno avuto la certezza che
avevano trovato questo relitto, quando hanno visto nella sabbia le
zavorre metalliche usate in genere per stabilizzare le navi schiaviste.
La sua scoperta potrebbe risultare molto utile agli storici, soprattutto
se venissero individuati resti ossei. Lo Smithsonian si è impegnato nel
ritrovamento perché sta per aprire il nuovo National Museum of
African-American History and Culture, e riteneva fondamentale poter
mostrare uno di questi relitti, per raccontare in maniera più efficace
la terribile storia della tratta degli schiavi.
Islam e schiavitù intrecciati da 1400 anni
Solo il 2% degli schiavi è stato razziato da negrieri occidentali. La tratta iniziò già nel VII secolo per toccare l’apogeo con gli Ottomani. Ma anche oggi in Mauritania i neri sono asserviti agli arabi
Libero 22 May 2016 SIMONEPALIAGA GORIZIA RIPRODUZIONE RISERVATA
«Sono i bidanes, i bianchi, a controllare la vita sociale e commerciale in Mauritania e a imporre la loro scelte sugli haratin che vivono, pur essendo la maggioranza nel Paese, in una condizione di pesante asservimento», sostiene Yacoub Diarra, militante per i diritti civili e presidente dell’IRA MauritaniaItalia, vale a dire l’«Iniziativa per la Rinascita del Movimento Abolizionista», ospite al Festival èStoria di Gorizia intitolato quest’anno «Schiavi». Fin qui nessuno aggrotterebbe le sopracciglia. Eppure la sorpresa arriva quando Diarra spiega, nel suo intervento, che i bidanes sono i discendenti degli arabi e delle tribù berbere che hanno preso il controllo della Mauritania a partire dalla fine del X secolo, mentre gli haratin sono gli eredi dei wolof, soninke, bambara, pular, le popolazioni indigene finite sotto il giogo degli arabi.
Peccato che col passare dei secoli la situazione non sia cambiata, visto che solo nel 2007 è stata promulgata l’ennesima legge intenzionata a abolire la schiavitù. Fino a nove anni fa, dagli inizi del Novecento, si era già provato più volte a farlo, ma invano. Ora comunque, malgrado la nuova legge, a parere di Diarra la situazione non sembra migliorata. «I mori bianchi fanno profitto, i mori neri sono manodopera», assicura. Si calcola che, su «tre milioni e mezzo di abitanti, siano almeno 700 mila le persone costrette a vivere, del tutto o in parte, alle dipendenze di un padrone. Sono chiamati gli schiavi neri e nell’insieme costituiscono la metà della popolazione mauritana».
Nello Stato africano esistono almeno tre forme di schiavitù: «Una schiavitù domestica», spiega Diarra, «legata al lavoro non retribuito presso le case e le dipendenze dei padroni; una schiavitù minorile, esercitata attraverso lo sfruttamento di minori figli di schiavi, costretti a separarsi dalla famiglia e impiegati come schiavi per discendenza; e una schiavitù rurale, legata all’esercizio del lavoro agricolo e pastorale in regime di evidente e grave discriminazione e sottomissione».
Dura sicuramente da scardinare questa situazione perché il potere dei bidanes si sostiene su un sistema clientelare che favorisce gli arabo-berberi in tutti i settori dell’economia nazionale: dall’estrazione mineraria, alla pesca, ai servizi. Più del 90% dei portuali e dei domestici è haratin, come l’80% della popolazione analfabeta. Eppure, ancora nel 2013, solo 5 su 95 seggi dell’Assemblea Nazionale erano occupati da questo gruppo nazionale.
Non è una novità, comunque, lo schiavismo nel mondo arabo e islamico, se si pensa che, secondo una stima degli storici, tra il VII e il XX secolo
sono stati tra i 10 e i 18 milioni gli schiavi commerciati nel mondo arabo. Sempre a èStoria, ieri è intervenuto Olivier Pétré-Grenouilleau, storico francese autore de La tratta degli schiavi. Saggio di storia globale (il Mulino, pp. 472, euro 14). Il suo lavoro, da noi passato sotto silenzio, alla sua apparizione in Francia ha invece costretto lo storico a difendersi in tribunale. A scandalizzare i benpensanti e i corifei del politicamente corretto erano delle verità storiche spesso minimizzate dai media. Difficile accettare, negli anni del buonismo, che le tracce iniziali della tratta degli schiavi «risalgono alla prima espansione dell’islam, nel secolo VII, anche se il problema delle origini più lontane della tratta, in Africa nera, resta misterioso». Per lo storico francese dei milioni di schiavi commerciati «soltanto il 2% circa fu direttamente razziato dai negrieri occidentali, mentre il 98% dei prigionieri era dunque acquistato da venditori africani». E una buona parte passava dalle mani dei commercianti arabi, il più famoso dei quali, Tipu Tip, morì appena nel 1905.
Ma ci troviamo già al tempo dell’Impero ottomano dove «si realizzava», a parere invece di Ehud Toledano, direttore del Dipartimento di studi turchi e ottomani dell’Università di Tel Aviv e anche lui ospite ieri a Gorizia, «al meglio l’integrazione della tratta e della schiavitù in seno all’economia, alla società e alla cultura», per quanto una volta liberati gli schiavi potessero pure aspirare a diventare vizir. «Tutto era invece differente in Europa», continua Toledano, «dove gli armatori negrieri, che non erano certo una folla, si occupavano soltanto della conduzione dei prigionieri in lontane colonie tropicali».
E ora la situazione peggiora con l’affermarsi del sedicente califfato dell’Isis, che «con la decisione di riportare in vita, ostentandola con orgoglio, l’efferata pratica della schiavitù respinge un millennio di sforzi esegetici per adattare gli insegnamenti del Corano e della vita del Profeta all’evolversi della realtà sociale».
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