martedì 30 settembre 2014

La "Filosofia dell'azione" di Diego Fusaro

Il futuro è nostro
Diego Fusaro: Il futuro è nostro. Filosofia dell’azione, Bompiani, pp. 620, euro 15

Risvolto
Il nuovo saggio di Diego Fusaro è un colpo di frusta a un’attitudine sempre più diffusa: affrontare il mondo come se fosse una situazione immutabile, prendere atto della realtà anziché cambiarla e costruirne una migliore. Se il successo del nuovo realismo ci ha dato un quadro entro cui muoverci per descrivere e capire la realtà, è venuto il tempo di rompere quella cornice, perdere finalmente il contatto con la realtà per immaginare un mondo nuovo. Il cambiamento deve partire dalle nuove generazioni, un “nuovo idealismo” che contagi i giovani e ne vinca i timori reverenziali. Per tornare a pensare e ad agire.

Il tridente Fichte-Marx-Gentile per perforare il pensiero unico30 set 2014  Libero ADRIANOSCIANCA

Il giovane studioso fa sfoggio di critiche puntuali al presente e a chi non vuole cambiarlo. Ma poi tace su comemettere in pratica la sua «filosofia dell’azione» 
Il mondo, una volta, era perfetto. O almeno così raccontavano, dando a intendere che cambiarlo sarebbe stato teoricamente anche possibile. Chi vi si fosse avventurato, però, sarebbe stato trattato da pazzo e da criminale. Oggi le cose stanno altrimenti: il mondo in cui viviamo è schifosamente imperfetto. Poterlo cambiare sarebbe saggio e giusto. Solo che è impossibile. Non si può, non c’è alternativa. Qui, almeno, finisce il pensiero dominante. 
Diego Fusaro compie però un passo in più: e se quell’alternativa, invece, ci fosse? È questa domanda che fa da architrave all’ultima fatica del filosofo torinese, Il futuro è nostro. Filosofia dell’azione ( Bompiani, pp. 620, euro 15). Ricercatore presso l’Università San Raffaele di Milano, commentatore nei talk show televisivi, autore di una mole di saggi spaventosa se rapportata all’età (è nato nel 1983), animatore di filosofico.net, laWikipediadella filosofia, Fusaro è il nome più noto fra i nuovi filosofi italiani, diciamo quelli che hanno la metà degli anni dei soliti Vattimo e Cacciari. La sicurezza con cui si muove nella letteratura filosofica e la potenza delle parole d’ordine con cui sa fulminare la realtà rendono giustizia a questa fama. E anche è una dimostrazione di ciò. 
Nel saggio, Fusaro se la prende con «la rassegnata contemplazione di un mondo che sembra essersi ormai assestato in forma definitiva» e grazie alla quale «si restringe fino a sparire l’ideale dell’azione volta a incidere sulla struttura del reale in vista della sua trasformazione, con annessa progettazione di futuri alternativi». Insomma, dobbiamo adattarci al presente e cambiare strada non si può. Ce lo chiede l’Unione europea. 
A questa camicia di forza, a questo percorso obbligato verso la «fine della storia» si risponde con un ritorno in grande stile alla filosofia. E, nello specifico, della filosofia dialettica. «Pensare dialetticamente», scrive il giovane filosofo, «significa innanzitutto considerare la realtà in forma non statica né definitiva, ma nel flusso del divenire, e dunque nelle sue concrete figure storiche: ossia come luogo delle possibili trasformazioni e della critica operativa di ciò che è, ma potrebbe essere altrimenti». 
Il tridente d’attacco con il quale Fusaro cerca di perforare il pensiero unico è costruito da Fichte, Marx e Gentile. Il filosofo comunista in mezzo all’autore dei e al maggiore pensatore del regime fascista può risultare spiazzante. Ma si tratta di un Marx riletto come filosofo idealista, proprio sulla scorta dell’interpretazione gentiliana, in cui poco o nulla rimane dell’immaginetta propagandistica che spopolava nelle kermesse di partito dei regimi del socialismo reale. Ed è comunque proprio alla sinistra odierna che Fusaro dedica alcune delle pagine più caustiche del libro, criticando «il pacifismo delle masse impotenti che sfilano salmodianti tra bandiere policrome e sostengono il multiculturalismo con cui si contrabbanda il monoculturalismo del mercato». Al contrario, Fusaro individua proprio nello Stato nazione il modello da rilanciare come unica garanza di libertà e sovranità. 
Ma rilanciarlo come? E con chi? Fusaro dichiara esplicitamente che «occorre anche elaborare una piattaforma programmatica che permetta di organizzare la  individuando tanto i concreti attori sociali in grado di farsene carico, quanto il verso cui indirizzarla». Di questo programma filosofico, ma anche politico, si dispiega nel saggio l’orizzonte valoriale ultimo, ma resta quanto meno indefinita la concretezza di questa prassi. Alla fine del libro, il lettore sa un sacco di cose in più sulla filosofia e anche sul mondo che lo circonda. Non, però, su come riappropriarsi del proprio futuro o su come «passare all’azione».  
Non sarebbe un problema, di per sé, se il saggio non promettesse nel titolo e nel sottotitolo esattamente questo. Beninteso, non ambisce a diventare un nuovo e sarebbe ingiusto rimproverargli di non essere ciò che non vuole essere. La politicità, la non neutralità e l’impeto trasformatore che Fusaro individua nella pratica filosofica, tuttavia, comportano delle conseguenze e inchiodano il libro a delle aspettative. Fuori dalla caverna platonica il mondo è spietato e allora può anche capitare che qualcuno faccia notare come in questa «filosofia dell’azione» una parola, forse, sia di troppo.


“È vietato rassegnarsi, il mondo si può cambiare”
Partendo dal mito della caverna di Platone, Diego Fusaro invita con Il domani è nostro a credere in un futuro migliore
di Claudio Gallo La Stampa 12.10.14

Bisognerebbe smettere di chiamare Diego Fusaro «giovane filosofo», nonostante abbia soltanto 31 anni. Dopotutto ha ormai diversi libri di successo alle spalle, come il bestseller filosofico Bentornato Marx! e Il futuro è nostro, appena uscito da Bompiani. Seguace indipendente di Hegel, Marx e Gramsci, docente all’Università San Raffaele di Milano, critica radicalmente la nostra società, senza risparmiare «la falsa coscienza» della sinistra. Un atteggiamento che nel mondo della fine della storia conferisce un caratteristico sentore di zolfo.
«Il futuro è nostro» parte dalla caverna di Platone per dire come il singolo non deve rinunciare a desiderare un mondo più vero e più giusto, un’aspirazione che si realizza compiutamente nella dimensione sociale. Ma non ci aveva spiegato Popper che Platone era una specie di proto-nazista?
«Si può essere liberi solo se libera è la società. L’essere liberi, con buona pace delle retoriche neoliberali, non è questione meramente individuale. Metafora dell’unione inscindibile di verità e liberazione, la caverna di Platone ci insegna che il compito della filosofia non arresa all’esistente è affrancare l’umanità dalle catene ideali e materiali, dalle ideologie e dalla schiavitù che domina in un mondo che continua a proclamarsi libero. Dalla sua prospettiva liberale, Popper demonizzava Platone, Hegel e Marx come precursori dei totalitarismi: io li recupero integralmente, mostrando come non vi sia società meno “aperta” e più totalitaria di quella capitalistica. Essa ci imprigiona nella caverna e ce la fa amare, illudendoci che essa sia il solo mondo possibile. Oggi, complice l’ideologia dominante, il sistema si presenta come “gabbia d’acciaio” da cui non è possibile evadere: occorre, allora, tornare a pensarlo come caverna da cui si può uscire; a patto, naturalmente, che si comprenda la natura autenticamente falsa e totalitaria del mondo in cui siamo prigionieri, anziché continuare a viverlo come un destino ineluttabile o come il trionfo della libertà».
Lei individua in Robinson Crusoe la figura emblematica dell’individualismo che domina la nostra società: perché dovremmo sentirci naufraghi su un’isola deserta?
«Robinson è il paradigma del soggetto moderno. E’ incapace di intrattenere relazioni autentiche con l’altro: la sola forma relazionale che egli conosce e pratica è quella incardinata sull’utile e sul tornaconto personale, ai danni del povero Venerdì di turno. La nostra è, oggi, una società di Robinson isolati ed egoisti, incapaci di instaurare relazioni con l’altro. In riferimento al mondo moderno Hegel parlava di “sistema dell’atomistica”, a sottolineare come – oggi più di ieri – viviamo nel tempo della morte del legame comunitario. Il mio libro è un tentativo di reagire a tutto questo, ripartendo da Hegel e da Aristotele, e dunque dall’idea dell’uomo come animale politico e comunitario».
La percezione generale è che il nostro mondo sia il più libero e tollerante della storia, perché lei sostiene invece che la democrazia occidentale sarebbe il più perfido dei totalitarismi?
«È il totalitarismo perfettamente realizzato, il più subdolo e ingannevole: infatti, illude i suoi sudditi di essere liberi. Quale totalitarismo – rosso o nero – sarebbe riuscito a piazzare nelle tasche dei suoi sudditi un telefono cellulare? Quale sarebbe riuscito a schedare tutti i suoi sudditi, come accade oggi con Facebook e Twitter? Nell’odierno gregge omologato della società di massa, ognuno fa ciò “liberamente”, pensando di essere libero di compiere quel gesto intimamente necessitato dalle logiche del sistema. È una gabbia d’acciaio in cui puoi fare tutto ciò che vuoi, fuorché pensare una società diversa e batterti per la sua realizzazione. Quando un mondo storico riesce a convincere i suoi abitatori di essere il solo mondo possibile, allora può allentare la presa sui corpi, perché è “totale” quella sulle anime».
Lei individua nella Russia di Putin un polo di resistenza all’omologazione globale. L’attuale società russa non sembra però esattamente un modello da esportare.
«Putin non è Lenin (purtroppo!): e tuttavia dispone di autonomia strategica e di armi di dissuasione di massa. Per questo, pur con tutti i suoi manifesti limiti, la Russia ha oggi il compito di appoggiare il più possibile gli Stati resistenti all’impero americano, ponendosi essa stessa come Stato che resiste: con la potenza russa, è come se al ritratto stilizzato del presidente americano Obama accompagnato dall’asserto yes, we can si affiancasse un’analoga immagine di Putin, a sua volta associata alla scritta no, you can’t».

Fuga dall'eterno presente per ritrovare la speranza
Il domani non genera sogni ma soltanto paura. E pare che la società tecnocratica sia definitiva. Ma un altro mondo è (ancora) possibile


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