martedì 2 settembre 2014

La rivoluzione passiva postmoderno-capitalistica nelle arti

Tuttavia non basta riflettere sulla rivoluzione passiva: bisogna anche chiedersi su quali elementi oggettivi essa ha potuto far leva ovverso sulla natura e sui limiti della critica della società capitalistica propria delle avangaurdie [SGA]. 

Alessandro Simoncini: Governare lo sguardo, Aracne. 

Risvolto
Governare lo sguardo dei viventi, e con questo il loro desiderio, è uno dei compiti principali che la potenza di cattura del capitalismo contemporaneo deve risolvere. Dalla soluzione di quel problema, infatti, dipende in misura non trascurabile la sua stessa tenuta sistemica. Tenendo sullo sfondo concetti come sussunzione reale, feticismo della merce, spettacolo, biopotere, controllo, immagine–tempo, ed autori centrali del pensiero critico contemporaneo come Marx, Benjamin, Debord, Foucault, Deleuze, il volume offre un approccio storico–genealogico al problema teorico della produzione di soggettività attraverso il governo dello sguardo. Nella prima parte analizza il ruolo e la funzione dell'arte nella genesi del “nuovo spirito del capitalismo". Gli imperativi economici oggi egemoni sembrano aver tratto linfa vitale proprio da alcune penetranti intuizioni delle avanguardie storiche, questa l’ipotesi. Nella seconda parte, attraverso un'indagine sintetica del rapporto tra la soggettività spettatoriale e la “macchina–cinema", vengono indagate le ambivalenze principali del dispositivo cinematografico: luogo laboratoriale per la produzione di soggetti docili, ma anche fucina di pratiche di libertà capaci di sottrarre lo sguardo ai bagliori accecanti dello spettacolo. Un concetto, quest’ultimo, del quale la conclusione del volume ribadisce l’attualità. In forme sempre mutevoli, infatti, lo spettacolo resta quel “rapporto sociale tra individui mediato dalle immagini” in cui Guy Debord aveva visto la chiave di volta del governo capitalistico sui corpi e sulle menti, in una parola sulla vita (di una parte) delle moltitudini.

La merce pregiata della società dello spettacolo
Saggi. «Governare lo sguardo» di Alessandro Simoncini per Aracne. L’arte svuotata della sua capacità critica va di pari passo con l’uso che ne viene fatto nella produzioneMario Pezzella, 24.7.2014 il Manifesto

Dopo aver curato Una rivo­lu­zione dall’alto (Mime­sis, 2012), un libro sulle nuove forme di domi­nio nell’epoca della crisi finan­zia­ria, in que­sto suo nuovo lavoro Ales­san­dro Simon­cini ana­lizza il modo in cui il capi­tale è giunto a «cat­tu­rare l’intelligenza col­let­tiva», bloc­cando le sue poten­zia­lità libe­ra­to­rie (Gover­nare lo sguardo. Potere, arte, cinema tra primo e ultimo capi­ta­li­smo, Aracne, pp. 228, euro 15). Non solo i corpi e la mente, anche l’anima e l’immaginario sono stati messi al lavoro a par­tire dagli anni Ottanta del Nove­cento. Il capi­tale rie­la­bora e deforma pro­prio quelle forme visuali e arti­sti­che che con più fer­vore – nel corso del secolo pas­sato — ave­vano ten­tato di opporre al potere il desi­de­rio e il sogno del pos­si­bile. La rifles­sione di Simon­cini parte dalle avan­guar­die sto­ri­che: le rivo­lu­zioni del visi­bile ope­rate dal cubi­smo, dal futu­ri­smo e dal sur­rea­li­smo, sono state ambi­gua­mente recu­pe­rate dalla pub­bli­cità e dal cinema spet­ta­co­lare. Potremmo par­lare di una rivo­lu­zione pas­siva o di un vero e pro­prio détour­ne­ment (Guy Debord), che la fan­ta­sma­go­ria delle merci impone al loro carat­tere ori­gi­na­ria­mente sovversivo.
 
Visioni por­no­gra­fi­che
I sur­rea­li­sti cita­vano e defor­ma­vano oggetti di con­sumo all’interno delle loro opere per spiaz­zare e sma­sche­rare il loro feti­ci­smo fasci­na­to­rio. È poi avve­nuto un feno­meno inverso: la pub­bli­cità ha uti­liz­zato a sua volta le inven­zioni oni­ri­che del sur­rea­li­smo, per resti­tuire aura e potere di attra­zione alle merci. Men­tre l’arte, da parte sua, diviene sem­pre più un puro valore di scam­bio tesau­riz­za­bile, le visioni dirom­penti dell’avanguardia ven­gono devi­ta­liz­zate e rein­cor­po­rate come deco­ra­zioni del mondo delle merci: «Pro­durre la forma-merce e costruire mate­rial­mente la sog­get­ti­vità imma­gi­na­ria del con­su­ma­tore saranno i due com­piti prin­ci­pali che la macchina-capitale dovrà assol­vere simultaneamente».
Le avan­guar­die sto­ri­che crea­vano vuoti e inquie­tanti plu­ra­lità, inter­ro­ga­vano il visi­bile, ele­vando a potenza le sue ombre, il suo pos­si­bile, il suo «fuori campo»; la riap­pro­pria­zione mer­ci­fi­cata dell’immagine can­cella ogni ambi­va­lenza, crea un «tutto tra­spa­rente» da cui ogni con­flitto e ogni inde­ter­mi­na­zione sono scom­parsi. Ciò che è visi­bile è ine­sau­ri­bil­mente asse­rito come unico esi­stente, in una lumi­no­sità con­ti­nua e asso­luta, in una posi­ti­vità che non ammette obie­zione. Ogni faglia, ogni discon­ti­nuità, ogni fini­tezza della vita, sono abba­gliati dall’«occhio vitreo» del capi­tale. È uno sguardo let­te­ral­mente pornografico.
Da que­sta uni­la­te­rale messa a fuoco del visi­bile viene escluso il desi­de­rio del pos­si­bile e dell’altro. Il cinema spet­ta­co­lare svolge un ruolo impor­tante in que­sta recin­zione del poter essere. Come la pub­bli­cità, anch’esso riprende e mor­ti­fica il lin­guag­gio delle avan­guar­die: lo choc, che ori­gi­na­ria­mente doveva disto­gliere lo spet­ta­tore dalla sua ade­sione all’ordine costi­tuito, si riduce a effetto spe­ciale che lo riat­trae stu­pe­fatto nel mondo dello spet­ta­colo. La pre­vi­sione di Wal­ter Ben­ja­min sulla scom­parsa dell’aura non si è rea­liz­zata: pub­bli­cità e cinema della società dello spet­ta­colo ripro­pon­gono una pseu­doaura, un «valore fan­ta­sma­tico», che illu­mina il sor­riso demente del divo o anche – come in uno spot di qual­che anno fa — la merce che si sro­tola dal cielo simile a un’apparizione di Magritte (si trat­tava di carta igienica).
Se il cinema spet­ta­co­lare diviene sem­pre più ripe­ti­zione di cli­chés, la cui appa­rente novità cela la sostanza sempre-uguale della merce, a que­sto destino non sfug­gono nem­meno le imma­gini più audaci del cinema critico-espressivo. Così è acca­duto – ad esem­pio — alla sequenza finale di «Zabri­skie Point» di Anto­nioni, in cui la grande esplo­sione faceva rica­dere verso il vuoto del deserto l’universo scom­po­sto e fram­men­tato delle merci: imma­gine poi ripresa dalla pub­bli­cità per esal­tare quelle merci stesse. La ridu­zione dell’immagine cri­tica a cli­ché è il feno­meno che Simon­cini ci mostra in tutto il libro: è una rivo­lu­zione pas­siva dell’immaginario, spe­cu­lare e paral­lela a quella eco­no­mica, che ha distorto ogni resi­duo di pen­siero cri­tico negli ultimi decenni del Novecento.
Simon­cini scrive di un bio­ca­pi­ta­li­smo, che oltre a gover­nare i corpi e i pro­cessi cogni­tivi, pro­duce anche l’immaginario e solo in tal modo sog­getti inte­ra­mente sot­to­messi al suo ordine sim­bo­lico. Così va intesa la con­ce­zione pro­dut­tiva che Michel Fou­cault aveva del potere: «Lo spet­ta­colo, insomma, non pro­duce sol­tanto imma­gini, ma anche — e soprat­tutto — i sog­getti neces­sari a ren­dere logi­ca­mente pos­si­bile la pro­pria stessa esi­stenza». Essi sono tut­ta­via sot­to­po­sti a una con­trad­di­zione costi­tu­tiva, a un dop­pio comando per­ma­nente: per cui da un lato per­mane l’imperativo al con­sumo, il «devi godere», che secondo Zizek è asso­lu­ta­mente indi­spen­sa­bile al mondo delle merci: ma d’altra parte ciò è assunto come un debito-colpa da scon­tare, in una col­pe­vo­liz­za­zione del vivente, che lo tra­sforma in preda inerme della teo­lo­gia astratta del denaro. I clown, che inter­pre­tano oggi il potere, met­tono e dismet­tono a tempo debito il saio peni­ten­ziale e gli stracci carnevaleschi.
 
Il pre­sente fuori fuoco
Come con­tra­stare que­sto imma­gi­na­rio senza «fuori campo», senza aper­tura al pos­si­bile? Per quanto riguarda il cinema, Simon­cini oppone l’immagine-tempo di Gil­les Deleuze ai cli­chés di quello spet­ta­co­lare, inter­pre­tando in senso deci­sa­mente poli­tico la rifles­sione del filo­sofo fran­cese. Le immagini-tempo (esem­plari in tal senso quelle di Alain Resnais) sono capaci di «cogliere in quel pas­sato che non è dive­nuto pre­sente le aper­ture di un futuro possibile».
Più in gene­rale, il pen­siero cri­tico deve disporsi come «una resi­stenza al pre­sente». Se il capi­tale impone un’eterna attua­lità immota, l’immagine-tempo sfalda costan­te­mente l’iterazione dei cli­chés nell’indeterminatezza di un ini­zio pos­si­bile. Forse que­sta inten­zione non vale solo per il cinema, ma più in gene­rale per quella «poli­ti­ciz­za­zione dell’arte», che Ben­ja­min si osti­nava ad opporre all’«estetizzazione della poli­tica» ope­rata dal fasci­smo (e di cui non ces­siamo di subire l’eredità).

Nessun commento: