mercoledì 17 settembre 2014

L'ala moderata della lista Tachipirinas invita la sinistra PD a rompere con Renzi e a dar vita al Partito del Lavoro

C'è sempre stata e c'è ancora in Burgio una netta divaricazione tra la radicalità dell'analisi, ammirevole, e il moderatismo della proposta politica, a mio avviso senza sbocchi.
Il suo testo va letto assieme a quello di Steri, che dice che ciò che conta è andare in tv a farsi vedere e conferma con ciò tutte le preoccupazioni centrosinistre in merito a un appello inopportuno e dal destino segnato.
In apparenza si separano; in realtà si dividono il lavoro come i due carabinieri. Da quella parte purtroppo verranno solo danni nei prossimi mesi. La consolazione sta nel fatto che non si tratta di niente di serio e che questi danni saranno limitati come limitata è la loro influenza (come quella di tutti noi). La ricostruzione non è ancora iniziata e la strada per trovarne il bandolo è ancora lunga [SGA].

Qualche chiarimento a proposito dell’Appello


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Qualche chiarimento a proposito dell’Appello
17 Settembre 2014 di Bruno Steri | da www.ricostruirepc.it

Qualche chiarimento a proposito dell’Appello

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La radicalità di Renzi è una buona occasione 
Raccogliere la sfida del premier per un confronto tra le diverse anime del partito verso un sommovimento benefico nel frazionato campo della sinistra italiana

Alberto Burgio, 15.9.2014 il Manifesto


La si può rac­con­tare come si vuole, ma quello mosso da Renzi nel comi­zio finale della Festa del Pd è stato un attacco con­tro i dis­si­denti e i recal­ci­tranti del suo par­tito. Un’invettiva det­tata dalla volontà di neu­tra­liz­zare ogni oppo­si­zione interna che nes­suna vischiosa prof­ferta uni­ta­ria può dis­si­mu­lare. Chi ha tra­dotto senza abbel­li­menti quel discorso ha evo­cato a ragione una pul­sione sterminatrice. 
Che cosa abbia indotto il presidente-segretario ad affon­dare il colpo alla vigi­lia di un autunno a dir poco pro­ble­ma­tico non è chiaro. Può avere inciso la nota voca­zione auto­ri­ta­ria, forse all’origine del primo dra­stico calo di popo­la­rità che i son­daggi docu­men­tano. Può essersi trat­tato di un riflesso imme­diato della più com­ples­siva ten­denza in atto alla con­cen­tra­zione del potere nelle mani del lea­der mas­simo. Pos­sono aver pesato anche le cre­scenti dif­fi­coltà in cui si muove il governo, in mezzo al guado in tutte le ini­zia­tive sin qui assunte men­tre gli indi­ca­tori della crisi sociale vol­gono al peg­gio e la situa­zione eco­no­mica si fa sem­pli­ce­mente allarmante. 
Può darsi che, alle strette, il gio­ca­tore d’azzardo bluffi e rilanci. Sta di fatto che è evi­dente l’intenzione di zit­tire bru­sca­mente i cri­tici — per­lo­più ricon­du­ci­bili alla com­po­nente post-comunista del Pd — se non di sba­raz­zar­sene una volta per tutte. Se que­sto è vero, sarà deci­siva la rispo­sta che la sini­stra demo­cra­tica darà a que­sta offen­siva. Deci­siva non sol­tanto per le vicende interne del Pd e per le sorti del governo, ma per il paese. Ne va della resi­dua pos­si­bi­lità di porre final­mente le pre­messe di un’inversione di rotta rispetto a quanto è acca­duto in que­sti sette anni di crisi e già nel corso del tren­ten­nio neoliberista. 
Tutto dipen­derà, per così dire, dall’ordine del discorso. Sarà diri­mente la pro­spet­tiva nella quale ci si disporrà nella replica. Se si ragio­nerà (come sem­pre sin qui) in ter­mini imme­dia­ta­mente (ridut­ti­va­mente) poli­tici, o invece in chiave politico-storica: in un’ottica occa­sio­nale oppure epo­cale. Il che, a sua volta, rive­lerà la con­ce­zione di sé che la sini­stra del Pd è in grado di mobi­li­tare. Se, cioè, essa si vive essen­zial­mente — se non sol­tanto — come un set­tore del ceto poli­tico, pre­oc­cu­pato soprat­tutto della pro­pria per­si­stenza, oppure ha l’ambizione di con­ce­pirsi come un sog­getto poli­tico respon­sa­bile, in campo in una deli­ca­tis­sima fase di tra­sfor­ma­zione degli assetti di comando della società che vede in discus­sione le stesse sorti della demo­cra­zia in Ita­lia e in Europa. 
Per rispetto della verità e di noi stessi, dob­biamo ammet­tere che l’esperienza scon­si­glia di nutrire sover­chie spe­ranze al riguardo. Ma non pos­siamo nem­meno esclu­dere che qual­cosa di nuovo accada, inter­rom­pendo una lunga sequenza di arre­tra­menti e di com­pro­mis­sione. Renzi ha il merito – se vogliamo – della bru­ta­lità. Nes­suno può nascon­dersi la radi­ca­lità del suo dise­gno, e ciò dovrebbe aiu­tare a capire che que­sto è uno di quei casi in cui la cau­tela mas­si­mizza i peri­coli. Se i suoi oppo­si­tori accet­tas­sero l’invito a col­la­bo­rare alla gestione della linea del segre­ta­rio, si con­se­gne­reb­bero in vin­coli al suo potere, fir­mando così la pro­pria estin­zione poli­tica di fatto. Al con­tra­rio, optare per l’autonomia, guar­dare in fac­cia la natura dello scon­tro, rac­co­gliere la sfida e lavo­rare per un pro­getto alter­na­tivo, tutto ciò sarebbe di certo molto rischioso. Ma potrebbe rive­larsi l’unica strada per sal­varsi, quindi la meno avventurosa. 
Ma c’è un ma. Sce­gliere l’autonomia e il con­flitto implica un com­pito che il gruppo diri­gente post-comunista ha sin qui accu­ra­ta­mente evi­tato, e che appare oggi indif­fe­ri­bile. Non è pos­si­bile porsi come sog­getto alter­na­tivo al pro­getto restau­ra­tore del pre­si­dente del Con­si­glio senza fare un bilan­cio delle scelte poli­ti­che e cul­tu­rali com­piute a par­tire dai primi anni Ottanta, quando si abbatté sul paese la prima onda d’urto del rea­ga­ni­smo. E quando in tutta Europa le forze socia­li­ste avvia­rono — per ini­zia­tiva, appunto, dei pro­pri gruppi diri­genti — una muta­zione gene­tica che le avrebbe di lì a poco poste alla testa della «moder­niz­za­zione neo­li­be­ri­sta». Della rivin­cita del pri­vato sul pub­blico. Del capi­tale sul lavoro. Delle éli­tes sui corpi sociali. E dell’imperialismo mili­tare dell’Occidente sui prin­cipi di pace scritti nelle Costi­tu­zioni demo­cra­ti­che e antifasciste. 
In tutto il comi­zio di Renzi a Bolo­gna c’è un ele­mento di verità, ed è l’attacco agli esperti e ai tec­nici che in que­sti vent’anni non hanno visto – o hanno finto di non vedere – che cosa stava acca­dendo. Lui, benin­teso, la regres­sione al nuovo regime oli­gar­chico sta facendo di tutto per acce­le­rarla. Come osser­vava Clau­dio Gne­sutta nel penul­timo inserto di Sbi­lancia­moci! pub­bli­cato dal mani­fe­sto, siamo nel pieno di una tran­si­zione orga­nica verso una società di mer­cato. Que­sto è l’obiettivo stra­te­gico della poli­tica eco­no­mica del governo, pra­ti­cata d’intesa con la buro-tecnocrazia comu­ni­ta­ria. Ma ciò non toglie che anche chi in que­sti vent’anni ha pre­ce­duto Renzi alla guida del centro-sinistra e in posti-chiave nel governo del paese ha lavo­rato in que­sta direzione. 
Basti un esem­pio. Pier Carlo Padoan non è sol­tanto il mini­stro dell’Economia di Renzi, che chiede a gran voce altri tagli alla spesa e «riforme strut­tu­rali»: ridu­zioni del wel­fare, com­pres­sione dei salari e pri­va­tiz­za­zioni. È anche colui che ieri (l’anno scorso), da capo-economista dell’Ocse, recla­mava il taglio dei salari ita­liani, già tra i più bassi d’Europa. E che l’altroieri pre­stava i suoi ser­vigi come con­si­gliere eco­no­mico dei pre­si­denti del Con­si­glio Amato e D’Alema. Del resto, negli anni Novanta la muta­zione gene­tica della social­de­mo­cra­zia — o la sua eclisse — non è stata certo un’anomalia ita­liana. Se oggi il Regno Unito rischia di per­dere pezzi, ciò si deve in gran parte agli effetti social­mente deva­stanti del blai­ri­smo, a una con­ce­zione dell’efficienza e del pre­sunto merito che ha siste­ma­ti­ca­mente sacri­fi­cato i diritti sociali ai pri­vi­legi delle oli­gar­chie. Il che per con­tro non signi­fica che alli­nearsi alla ten­denza fosse ine­vi­ta­bile, quasi che un incoer­ci­bile destino impo­nesse di inna­mo­rarsi del neoliberismo. 
Ripren­dere in mano la sto­ria di que­sti ultimi decenni è neces­sa­rio per­ché sol­tanto ponen­dosi sul ter­reno sto­rico è pos­si­bile com­pren­dere la por­tata del con­flitto che oggi attra­versa il Pd ren­ziano e, in gene­rale, le forze di quello che un tempo era il cen­tro­si­ni­stra. Di sicuro ripen­sare cri­ti­ca­mente alle scelte com­piute e agli errori com­messi è un tra­va­glio. Ma potrebbe essere anche un cimento libe­ra­to­rio, capace di dar vita a un’impresa di ben più vasta por­tata e per la quale var­rebbe dav­vero la pena d’impegnarsi. 
Rac­co­gliere in tutte le sue impli­ca­zioni la sfida lan­ciata da Renzi non darebbe vita sol­tanto a un con­fronto tra le diverse anime del par­tito, indi­spen­sa­bile per resti­tuire dignità e cre­dito alle com­po­nenti che l’attuale lea­der­ship intende met­tere sotto tutela. Ne deri­ve­rebbe anche la ripresa del discorso inter­rot­tosi, oltre vent’anni fa, con lo scia­gu­rato sman­tel­la­mento del Pci. Che — quali che fos­sero le inten­zioni dei suoi arte­fici — ha inne­ga­bil­mente com­por­tato l’estinguersi di qual­siasi rap­pre­sen­tanza poli­tica del lavoro. E ne discen­de­rebbe altresì, con ogni pro­ba­bi­lità, un bene­fico som­mo­vi­mento dell’intero campo della sini­stra ita­liana, oggi fran­tu­mato in un arci­pe­lago di pic­cole orga­niz­za­zioni (pic­cole, benin­teso, e per­ciò inin­fluenti, anche per loro diretta responsabilità). 
Met­tere al cen­tro della discus­sione e sot­to­porre a cri­tica un’idea di moder­nità che ha coin­ciso con l’abbandono del con­flitto sociale e di lavoro e col rein­stau­rarsi del potere pres­so­ché asso­luto del capi­tale pri­vato signi­fi­che­rebbe non sol­tanto riper­cor­rere i peg­giori anni della nostra vita ma anche ria­prire una pro­spet­tiva di lotta senza la quale è impen­sa­bile arre­stare la deriva post-democratica. Da qui oggi si può e si deve ripar­tire, sfrut­tando la radi­ca­lità dell’attacco ren­ziano. Per resti­tuire final­mente al paese una sini­stra poli­tica capace di stare in campo nel con­flitto in atto, ed evi­tare che a lucrare sui con­trac­colpi sociali della crisi sia, anche in Ita­lia, la destra neo­fa­sci­sta xeno­foba e razzista.

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