mercoledì 29 ottobre 2014

La fantacritica dell'economia politica: Marx e Keynes uniti nella lotta salvano il mondo. Papa Francesco discriminato?

Marx & Keynes. Un romanzo economico
Pierangelo Dacrema: Marx & Keynes, un romanzo economico, Jacabook

Risvolto
Karl Heinrich Marx e John Maynard Keynes, l’uno morto nel 1883 e l’altro nato nello stesso anno, si incontrano, in carne e ossa, in una bella mattinata primaverile del 2015, e si comportano da subito come vecchi amici. La vicenda ha inizio in un bar di Parigi, e si sviluppa poi a New York, Londra, Washington, Dublino... Le loro vite sono state assai avventurose, ma nei ricordi di Marx e Keynes non c’è nulla di paragonabile all’avventura che li vede protagonisti di questo libro per quale misteriosa ragione viene concessa a Marx e a Keynes un’opportunità così strabiliante? Dev’essere del tutto speciale il motivo per cui vengono violate tutte le leggi dello spazio, del tempo e della fisica. E si presenta infatti delicatissima la missione affidata a questi due uomini dal cervello vulcanico il cui pensiero ha ispirato le politiche di chi ha governato miliardi di persone. Richiamati sulla terra hanno ora il compito di indagare. Chi è il colpevole? Chi ha sabotato la macchina dell’economia e ne ha inceppato il motore a tutto vantaggio di un’esigua minoranza e a danno della moltitudine? Come mai queste idee, avvincenti e apparentemente così solide, hanno fallito?

Il capitalismo? È un casinò 
Marco Dotti, il Manifesto 29.10.2014
Scaffale. «Marx & Keynes, un romanzo economico» di Pierangelo Dacrema, per Jacabook. Una discussione messa in scena fra il filosofo di Treviri e l'economista della Teoria Generale, tornati d'attualità a causa del bizzarro andamento finanziario del mondo

Nel 1929, Irving Fisher godeva fama di uno dei migliori eco­no­mi­sti al mondo. Mone­ta­ri­sta con­vinto, a suo tempo soste­ni­tore di tesi euge­ne­ti­che decli­nate in chiave sta­ti­stica, Fisher soste­neva che il prezzo delle azioni aveva ora­mai rag­giunto un «ele­vato livello per­ma­nente». Ma non tutte le pro­fe­zie si avve­rano o si autoav­ve­rano, anzi. Accadde così che le parole dell’ascoltatissimo Fisher venis­sero smen­tite dai fatti. Pochi giorni dopo aver pro­nun­ciato la pro­pria pre­di­zione, infatti, il Big Crash del mer­cato azio­na­rio tra­volse tutto. Eppure, solo una set­ti­mana prima, il 21 otto­bre, Fisher aveva rin­ca­rato la dose affer­mando che il mer­cato azio­na­rio, come un orga­ni­smo col­pito da feb­bre, stava solo espel­lendo da sé ciò che rispetto a quel mer­cato poteva defi­nirsi – o, almeno, così Fisher lo definì — «luna­tic fringe», la fran­gia estrema.
Sta di fatto che, di fran­gia estrema in fran­gia estrema, fu tutto il sistema a crol­lare e la repu­ta­zione di Fisher con essa.
Per uno strano destino – al di là dei meriti scien­ti­fici, che sono altra cosa – il nome di Fisher tor­nerà d’attualità poli­tica sulla bocca di Mil­ton Fried­man e delle sue elette schiere che, negli anni Ottanta dell’imprevedibile Secolo Breve, si rivol­ge­ranno pro­prio a lui come nume tute­lare in fun­zione anti-keynesiana. Un nuovo ritorno d’attualità lo abbiamo ai giorni nostri, quando le sue ipo­tesi più pro­pria­mente tec­ni­che sulla spi­rale debito-deflazione hanno ripreso a cir­co­lare anche nelle éli­tes ame­ri­cane più orien­tate all’orizzonte demo­cra­tico.
Sia come sia, a muo­vere le crisi, die­tro ai fatti con­tin­genti sui quali le sta­ti­sti­che si arre­stano, sem­bra esserci troppo, per­ché un mero gra­fico lo con­tenga. È stato pro­prio Key­nes a intuire che die­tro quelle crisi, su un fondo oscuro, si muove una pul­sione, uma­nis­sima ma dagli effetti disu­ma­niz­zanti. Quella pul­sione che l’economista a cui molti guar­de­ranno dopo il 1929, chiamò «a mor­bid desire for liqui­dity».
Que­sta richie­sta di denaro a mezzo denaro, que­sta costante invo­ca­zione di liqui­dità – da parte di ban­che e «mer­cati», oggi biz­zar­ra­mente decli­nati all’impersonale plu­rale – è forse il cuore nero della crisi e di quel casinò-capitalismo che nelle prima pagine della sua Teo­ria gene­rale l’economista inglese così descri­verà: «Quando l’accumulazione di capi­tale di un Paese diventa il sot­to­pro­dotto delle atti­vità di un Casinò, è pro­ba­bile che le cose vadano male».
Era il 1936 e gli effetti del crollo del ’29 si dispie­ga­vano ancora evi­denti su scala glo­bale. John May­nard Key­nes aveva allora 53 anni, essendo nato a Cam­bridge il 5 giu­gno 1883. Pochi mesi prima, il 14 marzo, a pochi chi­lo­me­tri di distanza da Cam­bridge, pre­ci­sa­mente i 90 che la sepa­rano da Lon­dra, moriva Karl Marx. Una coin­ci­denza for­tuita, ma non per que­sto meno signi­fi­ca­tiva.
È pro­prio que­sta coin­ci­denza, pro­iet­tata in forma di disto­pia sto­rica, che si trova al cen­tro di Marx & Key­nes. Un romanzo eco­no­mico (Jaca book, pp. 240, euro 12) fir­mato da un altro eco­no­mi­sta, Pie­ran­gelo Dacrema, che da alcuni anni sta por­tando avanti una ricerca sulla «fine del denaro» e l’economia post­mo­ne­ta­ria. Al cuore del romanzo, docu­men­tato e avvin­cente, ci sono non solo due vite, ma anche due teo­rie sem­pre con­si­de­rate scon­fitte sulla scena del mondo eppure desti­nate a riaf­fio­rare quando una nuova crisi scom­pi­glia i ter­mini primi e ultimi di quella scena. Acco­mu­nati dall’anno di morte e di nascita, Marx e Key­nes sono da sem­pre con­tem­po­ra­nei della fine del mondo. L’interesse per il loro lavoro riaf­fiora, soprat­tutto nei punti in cui ancora sfugge dall’orizzonte sal­vi­fico decli­nato in chiave main­stream.
Nes­sun ritorno a Marx, nes­sun ben­tor­nato a Key­nes: caso­mai la neces­sità di inscri­vere una rilet­tura in quel ten­ta­tivo di andare oltre che già faceva dire a una frase varia­mente attri­buita al filo­sofo di Tre­viri, amante iro­nico delle crip­to­ci­ta­zioni let­te­ra­rie, «moi, je ne suis pas mar­xi­ste». Il Capi­tale, opus magnum di Marx al pari della Teo­ria Gene­rale di Key­nes, diventa allora oggetto delle loro rifles­sioni, pro­prio là dove qual­cosa al dibat­tito gene­rale era sfug­gito. Il Capi­tale, leg­giamo nel volume di Dacrema, è allora una sorta di ele­gia dell’impenetrabilità del fatto eco­no­mico e di uno dei suoi nodi cri­tici diri­menti: il denaro, la cosid­detta «merce esclusa».
Il tempo è denaro, affer­mava Ben­ja­min Frank­lin. Ma quel tempo, ora, ai pro­ta­go­ni­sti del romanzo di Dacrema, pro­iet­tati dinanzi alla crisi dei sub­prime, appare fuori di sesto ben più di quanto potes­sero imma­gi­nare. La velo­cità ha supe­rato per­sino l’ultima resi­stenza mate­riale, quasi fisica, del denaro. La carta moneta offre un attrito troppo grande per­ché non debba cedere a quella sma­te­ria­liz­za­zione che ha già tra­volto le strut­ture mate­riali della società, dado vita a un nuovo feu­da­le­simo digi­tale. Avanza, favo­rita dalle tec­no­strut­ture, una forma di denaro che è liquido nella sua dimen­sione tem­po­rale, non meno che in quella mate­riale. Il desi­de­rio per­verso – mor­bid desire – diventa infi­nito, per­ché esteso, poten­ziato, dila­tato, poten­zial­mente sem­pre in atto gra­zie alle tec­no­strut­ture.
Eppure, nelle discus­sioni fra Key­nes e Marx messe in scena nel «romanzo eco­no­mico», qual­che dub­bio affiora. «Il denaro è lento», afferma il Marx imma­gi­nato da Dacrema, «un cinese povero, legit­ti­ma­mente desi­de­roso di diven­tare ricco, vuole appro­priarsi dello stile di vita occi­den­tale non per i suoi figli ma per sé, non domani ma oggi, subito, ed è la tec­nica delle comu­ni­ca­zioni tele­vi­sive e tele­ma­ti­che a dir­gli che l’obiettivo è a por­tata di mano». Qui è ancora l’uomo – ma per quanto? Per quanto que­sta len­tezza per­met­terà a un sog­getto di desi­de­rare? — a decli­nare il pro­prio, per quanto mor­boso, desi­de­rio. Ma se l’uomo stesse per diven­tare nient’altro che un orpello, un pic­colo desi­de­rio mor­boso della tec­no­strut­tura del denaro? Infatti, il «denaro esige molti sacri­fici, tutti desti­nati alla sua soprav­vi­venza e al suo benes­sere».
In un con­te­sto siste­mico di que­sto tipo, si potrebbe avan­zare l’ipotesi –adom­brata dai due inter­lo­cu­tori – che il denaro esiga sacri­fici umani, ma possa, da un momento all’altro, tra­scen­dere dalla pre­senza stessa e per­sino dal sacri­fi­cio dell’uomo. «La linfa del denaro è il numero, suo unico ali­mento e appog­gio nel mondo. (…) Anche il suo sup­porto car­ta­ceo è diven­tato sem­pre più irri­le­vante, ragione per cui la vera arma­tura della moneta è il numero».
«A mor­bid desire for liqui­dity»: e se l’uomo stesse per diven­tare nient’altro che un orpello, un pic­colo desi­de­rio mor­boso da tec­no­strut­tura del denaro? Jac­ques Ellul scri­veva che l’uomo avrebbe pre­sto ridotto la pro­pria parte attiva nel mondo a quella di un essere che, come dinanzi a una slot machine glo­bale, inne­sca pro­cessi che poi non è in grado di con­te­nere. Ancora non è tardi, si dicono con non meno rea­li­smo, ma con più senso dell’umana spe­ranza, i due pro­ta­go­ni­sti nell’appassionante finale del libro. «Non è tardi, ma qual­cosa va fatto, ora».
Prima che l’innesco e la sma­te­ria­liz­za­zione del denaro – magari con l’alibi di «trac­ciare i capi­tali» — si riveli fatale e il denaro ridotto a pura liqui­dity prenda a cor­rere più veloce di ogni gesto, di ogni desi­de­rio, di ogni pen­siero, di ogni azione e per­sino di ogni even­tuale, ma a quel punto chissà quanto pos­si­bile reazione.

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