giovedì 23 ottobre 2014
Marx alla Biennale e il sistema dell'arte contemporanea
Tra “Il Capitale” e Piketty, letteratura e
politica, Africa e global: il neocuratore di Venezia racconta come sarà
questa 56esima edizione
Enwezor: “La mia Biennale con Marx”
“Parlare esclusivamente del mercato ci distrae da tutte le realtà che accadono nel sistema dell’arte”di Dario Pappalardo Repubblica 23.10.14
VENEZIA
LO spettro di Karl Marx si aggira per la Biennale di Venezia. La
lettura ininterrotta del Capitale è una delle idee che Okwui Enwezor
porterà in laguna nell’edizione numero 56, in programma dal 9 maggio al
22 novembre 2015. All the World’s Futures , questo il titolo, darà conto
delle «fratture che oggi ci circondano e che abbondano in ogni angolo
del panorama mondiale, rievocano le macerie evanescenti di precedenti
catastrofi accumulatesi ai piedi dell’angelo della storia nell’ Angelus
Novus.
Come fare per afferrare appieno l’inquietudine del nostro
tempo, renderla comprensibile, esaminarla e articolarla?». Citando
Walter Benjamin e l’opera-simbolo di Paul Klee che lo ispirò, Enwezor
spiega la sua “mostra”. Con le parole di Marx come ronzio di sottofondo.
A Venezia torna la politica. «Ricordiamo però che si tratta di una
esposizione d’arte e non di un convegno di economisti e politologi»,
ribadisce più volte il presidente della Biennale Paolo Baratta, durante
la presentazione di ieri (presenti 56 Paesi) a Ca’ Giustinian. Anche se
poi anticipa che in laguna ha invitato l’economy star Thomas Piketty.
Oggi
però la stella è Enwezor. Nato in Nigeria nel 1963, è il primo africano
a guidare la Biennale d’arte: l’unico, dopo il curatore Harald
Szeemann, ad aver firmato anche la rassegna Documenta di Kassel, nel
2002. Ha lo sguardo afropolitan: origini black ed esperienze global.
Vanta un lungo curriculum accademico americano, nel 1994 ha fondato
N-KA, rivista diventata punto di riferimento per l’arte africana
contemporanea e ora dirige la Haus der Kunst di Monaco di Baviera. La
sua Biennale sarà una disordinata radiografia dello «stato delle cose»,
come dice lui: metterà insieme artisti e attivisti. Non c’è un unico
tema, «uno solo non è possibile», ma tre filtri guida: “Vitalità: sulla
durata epica”, un programma di performance live sempre “accese” per
sette mesi; “Il giardino del disordine”, ai Giardini, al Padiglione
centrale e all’Arsenale, dove «gli artisti sono stati invitati ad
elaborare delle proposte che avranno come punto di partenza il concetto
di giardino, realizzando nuove sculture, film, performance e
installazioni per All the World’s Futures ». Ultimo filtro: “Il
Capitale: una lettura dal vivo”, la lettura di Marx che inizierà al
Padiglione centrale, dal primo istante di apertura della Biennale.
Mr Enwezor, perché ha scelto di portare Marx alla Biennale?
«Perché
Il Capitale non è solo un libro, è un monumento. Nulla come quest’opera
ha anticipato il dramma della contemporaneità. La stessa parola
“capitale” rappresenta il centro della vita di oggi. La lettura del
testo sarà inframmezzata da altre letture e interpretazioni. Verranno
invitati a misurarsi sul tema artisti, compositori, drammaturghi. A
ispirarmi in modo decisivo è stato Althusser con il suo Leggere il
capitale ».
Che Biennale dobbiamo aspettarci?
«Una Biennale
ambiziosa, confusionaria, politica — sì — , sensuale, visiva,
letteraria. Deve provocare esperienze, provare a mettere in relazione i
media dell’arte in modo diverso. Creare nuove intersezioni ».
Come sta scegliendo gli artisti?
«Voglio
artisti da guardare in faccia. Niente Skype o telefonate. Forse, dati i
tempi, sono ambizioso, ma voglio poter discutere con loro fisicamente,
dialogare, scontrarmi, condividere l’esperienza di fare la mostra
insieme».
Quindi non ci saranno opere del passato, come è accaduto nelle edizioni precedenti?
«Non
posso fare nomi. Mi viene impedito (ride ndr), ma saranno meno degli
artisti della scorsa Biennale. Quanti erano? Li sto ancora contando».
Quanta Africa ci sarà?
«Non
ragiono in questi termini: ci sarà tutto il mondo. La Mongolia
esordirà. Oggi una Biennale d’arte non può ignorare quello che accade in
Siria, Iraq, Palestina. Questo pianeta, cento anni dopo il primo colpo
che portò alla Grande guerra, è di nuovo in disordine. Viviamo conflitti
e pandemie. Cercheremo di darne conto. Dobbiamo farlo. E poi, sì, ci
sarà anche l’Africa, è normale che ci sia. Ma porterò alla mostra
inevitabilmente tutta la mia biografia intellettuale: l’Africa,
l’Europa, l’Occidente e quello che non è Occidente ».
Questa settimana Vuitton sta aprendo il suo museo a Parigi. Cosa pensa dei marchi della moda coinvolti nell’arte contemporanea?
«Dico:
perché no? Prada vanta un eccellente sistema di mostre, pubblicazioni,
collezione. Il punto è, se tutto è fatto per le ragioni giuste, perché
no? Se questo mette in circolo idee e artisti, perché no? L’arte può
essere strumentalizzata, certo. Ma anche questo fa parte della sua
storia. La Chiesa, la politica lo hanno fatto. In quanto a Vuitton, per
ora c’è solo un interessante sigillo di vetro nel Bois de Boulogne.
Vedremo se la programmazione sarà altrettanto interessante».
Alcuni critici sostengono che l’arte contemporanea sia ormai solo in mano al mercato. È così?
«Penso
che sia semplicistico dire così. Il mercato è solo un aspetto. La
letteratura non esiste solo perché c’è Amazon. Parlare esclusivamente
del mercato ci distrae da altro. Da tutte le realtà che accadono nel
sistema dell’arte. Il mercato è solo un anello di questo ecosistema».
Lei si definisce un autodidatta. C’è una mostra o un artista che ha cambiato il suo punto di vista sul mondo dell’arte?
«È
stato tutto un accumulo di esperienze. Arrivato a New York, nel 1982,
sono stato investito dalla creatività del periodo. C’era una incredibile
vitalità, c’erano le gallerie, un certo Jean-Michel Basquiat che stava
esplodendo. Tutti quelli che erano spazi off poi sarebbero diventati
spazi ufficiali e riconosciuti. Non è importante un nome o una mostra.
Ma tutta l’energia che si accumula quando mondi diversi si incontrano.
Pensiamo agli artisti che tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del XX
secolo scoprirono l’arte primitiva. Pensiamo alla prima volta in cui una
maschera africana è entrata al MoMA. Questo mi interessa: mettere
insieme i mondi».
Ha citato Marx, Benjamin, Althusser. Cosa sta leggendo adesso?
«Sto finendo Il 1-8 Brumaio di Luigi Bonaparte di Karl Marx. È incredibile!».
Lei è nato in Nigeria come Teju Cole e Chimamanda Ngozi Adichie. Cosa pensa di questi autori?
«Li
ho letti tutti. L’Africa sta vivendo un momento straordinario dal punto
di vista culturale. Finalmente. Questi scrittori, tra cui voglio citare
anche Chris Abani, raccontano l’Africa fuori dall’Africa, restituendole
una nuova complessità. L’emergere di questa nuova generazione mi
entusiasma. È accaduto tutto in un solo decennio. Prima sembrava
impensabile. Internet ha aiutato tanti a rompere gli steccati e a
diffondere cultura. Non dimentichiamo anche i musicisti. Spero proprio
di riuscire a portare a Venezia alcuni di questi nuovi autori. Devono
esserci».
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