In generale c'è una domanda da porsi: cosa può spingere una persona giovane e capace a subire decenni di sfruttamento per non ottenere nulla se non altro sfruttamento? In passato, il portamento di borsa pagava entro tempi ragionevoli, e poi fanculo: lo posso dire con cognizione di causa perché è andata così anche per me. Ma oggi le chances di farsi imbarcare sono così poche che il gioco non vale la candela e questo accanimento fa disperare delle possibilità di salvezza della specie umana.
Ah, dimenticavo: non c'è nessuna aristocrazia intellettuale: c'è solo un mondo di lupi pronti a sbranarsi per farsi dare un incarico dal direttore di dipartimento, o per dividersi 300 euro di fondi di ricerca. Il tempo delle vacche grasse è finito da un pezzo e anche noi l'abbiamo perso, figuriamoci chi arriva dopo. L'unico vantaggio - non trascurabile, certo - è che è sempre meglio che lavorare [SGA].
I sommersi dell’accademiaTerre promesse. Nuovo appuntamento con il lavoro gratuito. Questa volta si entra negli atenei dove aspiranti ricercatori e docenti gestiscono esami, laboratori e corsi integrativi, attendendo invano l’apertura delle porte agli «incarichi strutturati»
Peppe Allegri, il Manifesto 29.10.2014
«Se il lavoro che regalo, lo regalo spontaneamente, di mia volontà, per me sì, è, oltre che etico, anche un gesto quasi nobile. Se invece il lavoro “devo” regalarlo per tutti i motivi del mondo, no, non è etico, è svilente e umiliante. Anche se poi, in definitiva, siamo tutti con debolezze e difficoltà più o meno grandi». Questa confessione in forma anonima la troviamo in apertura dell’ultimo fascicolo, il numero 133, della rivista di Sociologia del lavoro (1/2014), titolato Confini e misure del lavoro emergente, curato da Emiliana Armano, Federico Chicchi, Eran Fischer, Elisabetta Risi nella loro ricerca collettiva su «gratuità, precarietà e processi di soggettivazione nell’era della produzione digitale». E sembra essere esemplificativa di una condizione diffusa nelle attuali forme del lavoro, sospese tra la rara possibilità di un’autonoma scelta di messa in comune del proprio (tempo di) lavoro e la più pressante obbedienza alla gratuità della prestazione lavorativa, di fatto imposta senza alcuna libera scelta.
La «gavetta» universitaria
Ma il regno del lavoro gratuito, o quasi-gratuito, è, da sempre e non da ora, la regola tacita, quanto condivisa, per accedere al primo girone del circuito universitario, quello che un tempo avrebbe permesso di ambire al concorso per ricercatore. Un periodo di lavoro gratuito – e anche di formazione vicino al Maestro, la tradizionale «gavetta» – in cambio della promessa di essere considerato «abile» per entrare nel «sistema accademico», che da sempre prevede una prima «valutazione» tra pari, antecedente la messa a bando dei posti da ricercatore e l’eventuale arruolamento. E questo periodo tradizionalmente confinato in un lasso temporale di pochi anni, nella fase iniziale della propria vita accademica, è sospeso tra l’età ancora scanzonata della giovinezza, piena di passione nella ricerca e gioia della conoscenza, e il ripiegamento verso il più completo disincanto rispetto agli «stili di vita» condotti nella cittadella assediata dell’accademia universitaria, dove il «quieto vivere» del diventare ricercatori strutturati è ostaggio di subordinazione, silenzio e omologazione, passando per le forche caudine di un rapporto signoria-servitù che spesso incupisce l’una e l’altra condizione, ma che potrebbe anche aprire le porte di una possibile insubordinazione. Sarebbe la fase tra l’entusiasmo del dottorato di ricerca e la depressione della ricerca di un posto da strutturato nell’Accademia.
Destrutturati senza reddito
Peccato che oramai neanche esista più il ruolo di ricercatore a tempo indeterminato per l’ingresso nella carriera universitaria, in seguito all’entrata in vigore della famigerata Legge Moratti (l. 230/2005). Peccato anche che da circa un ventennio l’accesso a questa fantomatica «carriera» sia sempre più diventato un collo di bottiglia dove decine di migliaia di precari-e della ricerca e della docenza hanno perennemente regalato le loro prestazioni lavorative, con intermittenza solo nella retribuzione. La condizione della ricerca e docenza universitaria nell’epoca della precarietà strutturale: continuità di lavoro, nell’aleatorietà della retribuzione. Con sottile guerra tra poveri, fatta di accuse neanche tanto velate nei confronti del blocco generazionale dei ricercatori anziani, una parte dei quali entrati con le sanatorie della Prima Repubblica e a volte dispersi nei sottoscala universitari, in fuga da un lavoro sempre più routinario e lontano dalla loro originaria passione. E sempre di più quel lavoro è diventato necessario nei quotidiani ingranaggi della «fabbrica» universitaria: dal funzionamento dei laboratori, all’organizzazione di seminari e master; dallo svolgimento degli esami, all’appalto di interi corsi. Fino ad arrivare al continuo lavoro burocratico delle attività di docenza e ricerca al tempo della retorica meritocratica istituzionalizzata nel riempimento di infinite griglie valutative, fatte di codici, giudizi, abstract, parametri, soglie percentuali, numeri e statistiche che mettono a dura prova anche il più razionale tra ricercatori e docenti. Mantenendo al contempo del tutto inalterati i soliti potentati accademici.
Ma, al di là di quella che potrebbe essere una caratterizzazione da macchietta, il film restituisce alla perfezione il clima di sconfortante delusione che aleggia tra le ultime generazioni di studiose/i, docenti, ricercatrici e ricercatori che hanno letteralmente mandato avanti la macchina universitaria spesso in cambio solo della promessa irrealizzabile di accedere alla carriera universitaria. Farsi un buon curriculum in attesa dei fantomatici concorsi. E per avere questo curriculum bisogna scalpitare per ottenere insegnamenti praticamente gratuiti, questuare per essere incluso in qualche ricerca, pubblicare con frenesia articoli, libri, studi, perché ora il motto è Publish or Perish: se non pubblichi, non esisti.
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