mercoledì 29 ottobre 2014

Questa gloria da stronzi 2: l'illusione della distinzione e dell'aristocrazia del sapere al posto del salario. Gli aspiranti ricercatori universitari

Vedasi quanto scritto a proposito di baby sitter e lavoro universitario.
In generale c'è una domanda da porsi: cosa può spingere una persona giovane e capace a subire decenni di sfruttamento per non ottenere nulla se non altro sfruttamento? In passato, il portamento di borsa pagava entro tempi ragionevoli, e poi fanculo: lo posso dire con cognizione di causa perché è andata così anche per me. Ma oggi le chances di farsi imbarcare sono così poche che il gioco non vale la candela e questo accanimento fa disperare delle possibilità di salvezza della specie umana.

Ah, dimenticavo: non c'è nessuna aristocrazia intellettuale: c'è solo un mondo di lupi pronti a sbranarsi per farsi dare un incarico dal direttore di dipartimento, o per dividersi 300 euro di fondi di ricerca. Il tempo delle vacche grasse è finito da un pezzo e anche noi l'abbiamo perso, figuriamoci chi arriva dopo. L'unico vantaggio - non  trascurabile, certo - è che è sempre meglio che lavorare [SGA].

I sommersi dell’accademiaTerre promesse. Nuovo appuntamento con il lavoro gratuito. Questa volta si entra negli atenei dove aspiranti ricercatori e docenti gestiscono esami, laboratori e corsi integrativi, attendendo invano l’apertura delle porte agli «incarichi strutturati»
Peppe Allegri, il Manifesto 29.10.2014 

«Se il lavoro che regalo, lo regalo spon­ta­nea­mente, di mia volontà, per me sì, è, oltre che etico, anche un gesto quasi nobile. Se invece il lavoro “devo” rega­larlo per tutti i motivi del mondo, no, non è etico, è svi­lente e umi­liante. Anche se poi, in defi­ni­tiva, siamo tutti con debo­lezze e dif­fi­coltà più o meno grandi». Que­sta con­fes­sione in forma ano­nima la tro­viamo in aper­tura dell’ultimo fasci­colo, il numero 133, della rivi­sta di Socio­lo­gia del lavoro (1/2014), tito­lato Con­fini e misure del lavoro emer­gente, curato da Emi­liana Armano, Fede­rico Chic­chi, Eran Fischer, Eli­sa­betta Risi nella loro ricerca col­let­tiva su «gra­tuità, pre­ca­rietà e pro­cessi di sog­get­ti­va­zione nell’era della pro­du­zione digi­tale». E sem­bra essere esem­pli­fi­ca­tiva di una con­di­zione dif­fusa nelle attuali forme del lavoro, sospese tra la rara pos­si­bi­lità di un’autonoma scelta di messa in comune del pro­prio (tempo di) lavoro e la più pres­sante obbe­dienza alla gra­tuità della pre­sta­zione lavo­ra­tiva, di fatto impo­sta senza alcuna libera scelta. 


La «gavetta» universitaria

Ma il regno del lavoro gra­tuito, o quasi-gratuito, è, da sem­pre e non da ora, la regola tacita, quanto con­di­visa, per acce­dere al primo girone del cir­cuito uni­ver­si­ta­rio, quello che un tempo avrebbe per­messo di ambire al con­corso per ricer­ca­tore. Un periodo di lavoro gra­tuito – e anche di for­ma­zione vicino al Mae­stro, la tra­di­zio­nale «gavetta» – in cam­bio della pro­messa di essere con­si­de­rato «abile» per entrare nel «sistema acca­de­mico», che da sem­pre pre­vede una prima «valu­ta­zione» tra pari, ante­ce­dente la messa a bando dei posti da ricer­ca­tore e l’eventuale arruo­la­mento. E que­sto periodo tra­di­zio­nal­mente con­fi­nato in un lasso tem­po­rale di pochi anni, nella fase ini­ziale della pro­pria vita acca­de­mica, è sospeso tra l’età ancora scan­zo­nata della gio­vi­nezza, piena di pas­sione nella ricerca e gioia della cono­scenza, e il ripie­ga­mento verso il più com­pleto disin­canto rispetto agli «stili di vita» con­dotti nella cit­ta­della asse­diata dell’accademia uni­ver­si­ta­ria, dove il «quieto vivere» del diven­tare ricer­ca­tori strut­tu­rati è ostag­gio di subor­di­na­zione, silen­zio e omo­lo­ga­zione, pas­sando per le for­che cau­dine di un rap­porto signoria-servitù che spesso incu­pi­sce l’una e l’altra con­di­zione, ma che potrebbe anche aprire le porte di una pos­si­bile insu­bor­di­na­zione. Sarebbe la fase tra l’entusiasmo del dot­to­rato di ricerca e la depres­sione della ricerca di un posto da strut­tu­rato nell’Accademia. 


Destrut­tu­rati senza reddito
Pec­cato che ora­mai nean­che esi­sta più il ruolo di ricer­ca­tore a tempo inde­ter­mi­nato per l’ingresso nella car­riera uni­ver­si­ta­ria, in seguito all’entrata in vigore della fami­ge­rata Legge Moratti (l. 230/2005). Pec­cato anche che da circa un ven­ten­nio l’accesso a que­sta fan­to­ma­tica «car­riera» sia sem­pre più diven­tato un collo di bot­ti­glia dove decine di migliaia di precari-e della ricerca e della docenza hanno peren­ne­mente rega­lato le loro pre­sta­zioni lavo­ra­tive, con inter­mit­tenza solo nella retri­bu­zione. La con­di­zione della ricerca e docenza uni­ver­si­ta­ria nell’epoca della pre­ca­rietà strut­tu­rale: con­ti­nuità di lavoro, nell’aleatorietà della retri­bu­zione. Con sot­tile guerra tra poveri, fatta di accuse nean­che tanto velate nei con­fronti del blocco gene­ra­zio­nale dei ricer­ca­tori anziani, una parte dei quali entrati con le sana­to­rie della Prima Repub­blica e a volte dispersi nei sot­to­scala uni­ver­si­tari, in fuga da un lavoro sem­pre più rou­ti­na­rio e lon­tano dalla loro ori­gi­na­ria pas­sione. E sem­pre di più quel lavoro è diven­tato neces­sa­rio nei quo­ti­diani ingra­naggi della «fab­brica» uni­ver­si­ta­ria: dal fun­zio­na­mento dei labo­ra­tori, all’organizzazione di semi­nari e master; dallo svol­gi­mento degli esami, all’appalto di interi corsi. Fino ad arri­vare al con­ti­nuo lavoro buro­cra­tico delle atti­vità di docenza e ricerca al tempo della reto­rica meri­to­cra­tica isti­tu­zio­na­liz­zata nel riem­pi­mento di infi­nite gri­glie valu­ta­tive, fatte di codici, giu­dizi, abstract, para­me­tri, soglie per­cen­tuali, numeri e sta­ti­sti­che che met­tono a dura prova anche il più razio­nale tra ricer­ca­tori e docenti. Man­te­nendo al con­tempo del tutto inal­te­rati i soliti poten­tati acca­de­mici.
Così quella tran­si­to­ria fase di lavoro pre­ca­ria­mente retri­buito, a volte gra­tui­ta­mente offerto, più spesso obbli­ga­to­ria­mente ero­gato, è diven­tata la norma per un’intera gene­ra­zione di «precari-e della ricerca e docenza» che nel corso dell’ultimo quin­di­cen­nio così si erano auto­pro­cla­mati, riven­di­cando un ina­spet­tato pro­ta­go­ni­smo poli­tico con­tro i Mini­stri di allora (nell’ordine: Moratti-Mussi-Gelmini) e pro­vando a for­zare i rap­porti di forza con­so­li­dati nell’Accademia. Per alcuni è stata l’occasione di espli­ci­tare legit­time riven­di­ca­zioni cor­po­ra­tive e sin­da­cali che hanno lasciato il tempo che tro­va­vano. Per pochi è stata la pale­stra di pro­mo­zione per­so­nale di se stessi. Per la gran parte di quei con­trat­ti­sti di ogni tipo, asse­gni­sti di tutte le risme, bor­si­sti dai mille bandi è stato invece il pren­dere con­sa­pe­vo­lezza di un lento pro­cesso di esclu­sione di una gene­ra­zione di forza lavoro pre­ca­ria dal sistema della ricerca e docenza uni­ver­si­ta­ria. Per­ché i pochi che hanno con­ti­nuato a cre­dere al motto di «resi­stere un minuto in più degli altri», non pos­sono più spe­rare nean­che in un con­tratto. Oltre­tutto, dinanzi all’immodificabile sistema di gestione uni­ver­si­ta­ria, il con­ti­nuo defi­nan­zia­mento pub­blico (che quello pri­vato è sem­pre stato al lumi­cino) è diven­tato il gri­mal­dello per irri­gi­dire l’arbitrio dei sog­getti che deci­dono l’accesso.
«C’è il taglio lineare dei finan­zia­menti, la crisi eco­no­mica, la spen­ding review, i posti pra­ti­ca­mente non ci sono, quindi dovete dimo­strare di essere ancora più bravi, dispo­ni­bili e votati al sacri­fi­cio, per­ché la con­cor­renza è spie­tata». Man­cano solo le caval­lette del cele­bre mono­logo di John Belu­shi in fuga dalla splen­dida donna miste­riosa, Car­rie Fisher, in Blues Bro­thers. Ecco ser­vita la meri­to­cra­zia al tempo dell’università strac­ciona. Salvo poi sco­prire inchie­ste per i soliti appalti milio­nari di infi­niti lavori nelle strut­ture uni­ver­si­ta­rie: ma que­sta è un’altra storia.

Soli­tu­dine e comunanza
Chi ha capito molto bene lo stato d’animo esi­sten­ziale dei non più gio­vani ricer­ca­tori pre­cari, ora­mai tran­si­tati nella totale assenza di retri­bu­zione, è stato il «gio­vane» cinema ita­liano, con uno dei mag­giori suc­cessi di que­sta sta­gione: Smetto quando voglio, del tren­tenne Syd­ney Sibi­lia. Lì si narra la sto­ria di un quasi qua­ran­tenne, asse­gni­sta di ricerca senza rin­novo dell’assegno, e dei suoi amici, ora­mai ex-precari della ricerca, già espulsi da labo­ra­tori ed aule uni­ver­si­ta­rie. Deci­dono di met­tere in comune la loro cono­scenza chi­mica e com­mer­ciale per sin­te­tiz­zare e spac­ciare smart drugs tra­mite le quali otte­nere quel red­dito che altri­menti non avreb­bero più dal loro, qua­li­fi­cato, lavoro uni­ver­si­ta­rio. E que­sta sarebbe la vera alter­na­tiva in campo: met­tersi insieme, non neces­sa­ria­mente per pro­durre dro­ghe sin­te­ti­che, ma certo per ripren­dersi quella ric­chezza pro­dotta e della quale si è sem­pre più pri­vati. Per il resto il film dise­gna un qua­dro deso­lante e deso­lato del pano­rama uni­ver­si­ta­rio, dove un eccel­lente Ser­gio Solli, attore di for­ma­zione tea­trale a fianco di Eduardo De Filippo, inter­preta il ruolo del peg­giore barone uni­ver­si­ta­rio: arraf­fone, impre­pa­rato, appros­si­ma­tivo, del tutto auto­cen­trato sul pro­prio, mise­ra­bile, ego.
Ma, al di là di quella che potrebbe essere una carat­te­riz­za­zione da mac­chietta, il film resti­tui­sce alla per­fe­zione il clima di scon­for­tante delu­sione che aleg­gia tra le ultime gene­ra­zioni di studiose/i, docenti, ricer­ca­trici e ricer­ca­tori che hanno let­te­ral­mente man­dato avanti la mac­china uni­ver­si­ta­ria spesso in cam­bio solo della pro­messa irrea­liz­za­bile di acce­dere alla car­riera uni­ver­si­ta­ria. Farsi un buon cur­ri­cu­lum in attesa dei fan­to­ma­tici con­corsi. E per avere que­sto cur­ri­cu­lum biso­gna scal­pi­tare per otte­nere inse­gna­menti pra­ti­ca­mente gra­tuiti, que­stuare per essere incluso in qual­che ricerca, pub­bli­care con fre­ne­sia arti­coli, libri, studi, per­ché ora il motto è Publish or Perish: se non pub­bli­chi, non esisti.

Il com­mer­cio delle promesse
Così quella che dovrebbe essere una breve fase di for­ma­zione acca­de­mica che da sem­pre pre­vede anche la dispo­ni­bi­lità a lavo­rare gra­tui­ta­mente in cam­bio dello svol­gere con pas­sione atti­vità di for­ma­zione, stu­dio, ricerca, e suc­ces­si­va­mente inse­gna­mento, per le quali si sente di avere la «voca­zione», diventa la con­di­zione strut­tu­rale per resi­stere den­tro l’università, a costo di sot­to­stare a infi­niti, pic­coli e grandi, ricatti. Del resto, ancor più nella reto­rica dell’economia della cono­scenza, la mitica car­riera uni­ver­si­ta­ria è la pic­cola patria dell’economia delle pro­messe, dove un vero e pro­prio «com­mer­cio delle pro­messe» viene eser­ci­tato a tutti i livelli della scala gerar­chica. E se pen­siamo che alcuni stu­diosi, tra i quali Pierre-Noël Giraud, sosten­gono da tempo che il fon­da­mento dell’attuale capi­ta­li­smo finan­zia­rio stia in que­sto Com­merce des pro­mes­ses (éd. Le Seuil, già nel 2001) il cor­to­cir­cuito cul­tu­rale, antro­po­lo­gico, esi­sten­ziale tra il lavoro intel­let­tuale e la finan­zia­riz­za­zione dell’economia capi­ta­li­stica diviene espli­cito e senza appello, facen­dosi beffe di qual­siasi esal­ta­zione dell’attuale società della conoscenza. 

Per un red­dito di base 

C’è solo lo sporco lavoro gra­tuito per rima­nere a galla nell’epoca in cui interi milioni di per­sone sono messe nelle con­di­zioni di dover rim­pian­gere le peg­giori forme del lavoro, mate­riale o intel­let­tuale che sia: quelle in cam­bio del quale nean­che per­ce­pi­sci più un sala­rio, ma ti si asse­gna un posto nel mondo. Per­ché in que­sta società «liquida» se non hai un lavoro non hai cit­ta­di­nanza. Anche per que­sto si dovrà insi­stere, rischiando di fare la fine di un disco incan­tato che nes­suno vuole più ascol­tare, sull’urgenza di un red­dito di base con­tro l’aleatorietà della retri­bu­zione, altri­menti riman­gono solo le laco­ni­che parole che Jona­than Lethem fa pro­nun­ciare al gio­vane, appas­sio­nato ricer­ca­tore e scrit­tore auto­di­datta del libro In difesa di Sen­tieri sel­vaggi: «ora­mai ero abi­tuato a sen­tir par­lare tanti dot­to­randi, rag­go­mi­to­lati den­tro le loro ter­ri­fi­canti car­riere, di monte ore, di bandi di con­corso, di tutto fuor­ché della pas­sione ori­gi­na­ria e ora­mai rat­trap­pita che stava segre­ta­mente al cen­tro del loro lavoro».


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