mercoledì 1 ottobre 2014

Verso l'Ottocento: l'imbroglione giovane, il mercato del lavoro, la dignità umana

"... Fatte ovviamente le debite differenze, gran parte dei fenomeni di cui oggi ci meravigliamo, considerandoli come il frutto ipermoderno dell’ondata neoliberista iniziata negli anni di Reagan e Thatcher, o dei quali ci consoliamo immaginando oscuri ma inutili complotti, non sono affatto nuovi nella loro sostanza. Essi replicano in condizioni aggiornate le classiche posizioni e i classici istituti del liberalismo del periodo che precedeva l’avanzata del movimento operaio: de-emancipazione delle masse popolari attraverso forme istituzionali ed elettorali bonapartistiche; nessun intervento redistributivo dello Stato nella società e nell’economia ma massiccia ingerenza come guardiano notturno, sia verso le sacche di sovversione o marginalità indigena che verso i migranti (securitarismo); scientifico abbassamento del costo del lavoro attraverso la precarizzazione di massa o la manipolazione dell’esercito industriale di riserva; attacco al contratto nazionale di lavoro e restaurazione del rapporto diretto tra singolo lavoratore e impresa; proletarizzazione dei ceti medi e del lavoro intellettuale e chi più ne ha più ne metta… (da: Democrazia Cercasi, Imprimatur, pp. 65-66).


Articolo 18, il vestito antico del rottamatore 
Marco Bascetta, 1.10.2014 

La domanda è piut­to­sto sem­plice. Stiamo andando oltre lo Sta­tuto dei lavo­ra­tori sti­lato nei lon­tani anni ‘70 o stiamo tor­nando a prima di quell’impianto nor­ma­tivo? Nei rap­porti di forze tra lavo­ra­tori e datori di lavoro sem­brano sus­si­stere pochi dubbi: ciò a cui stiamo assi­stendo è un ritorno all’antico o, quan­to­meno, alla sua imma­gine ingan­ne­vole e idea­liz­zata: il libero mer­cato, la legge natu­rale della domanda e dell’offerta, la con­cor­renza per­fetta, il suc­cesso del merito. Che nel corso di più di 40 anni l’ombrello dello Sta­tuto si sia ristretto al punto da lasciare sotto le intem­pe­rie una massa sem­pre più impo­nente di sog­getti è un fatto poco discu­ti­bile. Che gli stru­menti per aggi­rarlo e limi­tarne l’applicazione fino all’insignificanza si siano gran­de­mente mol­ti­pli­cati e affi­nati, altret­tanto. Ma una cosa è evi­dente: a imporre le attuali con­di­zioni sul mer­cato del lavoro non è certo la legi­sla­zione che lo riguarda o la poli­tica che pre­tende di rifor­marlo o di con­ser­varne i mec­ca­ni­smi dati. 
Sono la glo­ba­liz­za­zione e le delo­ca­liz­za­zioni, da una parte, e l’automazione, dall’altra, ad avere segnato il destino dei sala­riati, cui si aggiunge, infine, il crollo dei con­sumi di massa ali­men­tato dalla Grande depressione. 
Dire che il destino dei lavo­ra­tori stia nelle mani dei magi­strati è una colos­sale baggianata. 
Di con­se­guenza, l’abolizione dell’articolo 18 dello Sta­tuto nella nostra pro­vin­cia ita­liana non deter­mi­nerà né un aumento né una dimi­nu­zione dell’occupazione. La legge e un sistema fiscale ves­sa­to­rio si sono sem­mai pro­di­gati nel garan­tire la debo­lezza e la ricat­ta­bi­lità delle forme di atti­vità pro­dut­tive escluse dalle clas­si­che garan­zie del lavoro sala­riato evi­tando di ela­bo­rare nuove forme di tutela o di inve­stire risorse col­let­tive a soste­gno del lavoro auto­nomo, inter­mit­tente e pre­ca­rio. Un feno­meno con­na­tu­rato all’attuale strut­tura pro­dut­tiva e non certo con­se­guenza di un mode­sto spau­rac­chio come l’articolo 18. 
Il disin­te­resse per que­sto mondo in costante espan­sione e la deter­mi­na­zione, di per sé ragio­ne­vole, di difen­dere sem­pre e comun­que le garan­zie, sia pure tra­bal­lanti, di chi ancora le pos­se­deva, si accom­pa­gnava alla fede incrol­la­bile nel ritorno della piena occu­pa­zione. Senza com­pren­dere che quest’ultima già si dava nella forma per­versa che abbiamo sotto gli occhi di una gene­rale “dis-retribuzione” social­mente ed eco­no­mi­ca­mente pro­dut­tiva, ma a livelli mise­ra­bili di red­dito e nulli di garanzie. 
Se non si trat­tasse di un “ritorno all’antico” con­ver­rebbe chie­dere ai rifor­ma­tori che cosa di nuovo inten­dano costruire al posto del vec­chio Sta­tuto, ma le rispo­ste si annun­ciano reto­ri­che ed eva­ne­scenti. Del resto la tro­vata degli 80 euro in busta paga (per la limi­tata pla­tea che la pos­siede) indica che il governo si muove entro la logica clas­sica del lavoro sala­riato. Restando nella quale l’abolizione dell’articolo 18 è un obiet­tivo squi­si­ta­mente di destra. Diverso sarebbe il discorso se si volesse affron­tare dav­vero la com­po­si­zione attuale del lavoro vivo (quello che i moderni restau­ra­tori pre­fe­ri­scono chia­mare “capi­tale umano”, tanto per impu­tar­gli la respon­sa­bi­lità esclu­siva della pro­pria ban­ca­rotta), ma così non è, nean­che lon­ta­na­mente. Quanto ai capi­tali (e le capi­tali) euro­pei, che stu­pidi non sono, dif­fi­cil­mente si faranno incan­tare dalla favola degli stra­bi­lianti effetti pro­dotti dall’abolizione dell’articolo 18, in cam­bio della quale con­ce­dere gra­zio­sa­mente più fles­si­bi­lità nella riscos­sione delle pro­prie rendite. 
Per­ché, allora, tanto acca­ni­mento intorno a un for­ti­li­zio piut­to­sto sguar­nito? Può darsi che il nostro pre­mier, che non brilla certo per mode­stia, si sia appas­sio­nato alla stro­ria degli “uomini (e donne) illu­stri”. I con­trol­lori di volo negli Stati uniti e i mina­tori in Gran Bre­ta­gna non erano certo rap­pre­sen­ta­tivi della gene­ra­lità della forza lavoro dell’epoca loro. Eppure Rea­gan basto­nando i primi e That­cher i secondi, hanno effet­ti­va­mente impresso una svolta al rap­porto tra capi­tale e lavoro e ai rap­porti sociali più in generale. 
Quella svolta già c’è stata e con­fi­gura ancora il nostro presente. 
Lo scon­tro ideo­lo­gico si è con­su­mato da un pezzo ed è chiaro a tutti quali sono stati i vin­ci­tori e quali i vinti. Dalla sini­stra si attende ancora invano una rispo­sta a quella con­tro­ri­vo­lu­zione vit­to­riosa. Senza nostal­gia per la cul­tura della miniera, ma nean­che per quella della sua cele­brata car­ne­fice. Assi­stiamo invece alla ripro­po­si­zione far­se­sca e fuori tempo mas­simo di quel memo­ra­bile scon­tro. Come i cul­tori rina­sci­men­tali dell’antico il nostro “inno­va­tore” si sen­tirà come un “nano sulle spalle di giganti”.


Giuseppe Berta, storico dell’industria e docente alla Bocconi di Milano
Da Blair e Schröder in poi “La sinistra? Guarda a destra. Ed è finita”
di Carlo Di Foggia il Fatto 1.10.14

Il cambiamento è epocale. Immaginiamo l’articolo 18 come un perno: “Ci si appoggia per rivoltare la sinistra in qualcosa di diverso, senza una matrice socialista e lungo il solco tracciato da quelle che un tempo furono le sinistre socialdemocratiche europee”. E che oggi, per Giuseppe Berta, storico dell’industria e docente alla Bocconi di Milano, sono agonizzanti: “Se Matteo Renzi vede in Tony Blair il suo mentore, allora è normale che cerchi di spezzare il legame con i sindacati: lo hanno fatto i laburisti inglesi e i socialdemocratici tedeschi. I primi non si sono ancora ripresi e vivono delle disgrazie altrui, i secondi fanno parte di una coalizione su cui non riescono a incidere, a parte il salario minimo, lo strumento che dovrebbe far salire gli stipendi dei mini job creati durante il mandato del socialdemocratico Gerhard Schröder”.
Il premier sull’articolo 18 rischia di spaccare il suo partito.
Nessuno pensa che questo, in una fase recessiva, generi posti di lavoro.
A cosa serve allora?
Ci si rivolge all’Europa, ma soprattutto a un pubblico più ampio: quello che apprezza la politica antisindacale.
L’elettorato di destra?
Il ceto medio, che è poi quello che si deve sobbarcare il peso maggiore delle tutele sociali. Così si aumenta la base elettorale: è la sfida che si è posta di fronte ai partiti socialisti europei dopo la lunga fase degli anni 80 lontani dal governo.
Con quali risultati?
La fine della sinistra come la conoscevamo. E con essa il difensore del welfare state (le tutele dello stato sociale, ndr) e dell’economia mista: la compresenza di due poli - il pubblico e il privato - come motori dell’economia. Un declino iniziato negli anni 80 con le idee di Margareth Thatcher e proseguito con Blair e Schröder.
Tutti contro i sindacati?
Blair non fece nulla per sanare gli squilibri creati dalla Lady di Ferro, Schröder fece di peggio: affidò le riforme del mercato del lavoro a Peter Hartz, capo del personale della Volkswagen, poi condannato per corruzione dei rappresentanti sindacali.
Perché il welfare state è rimesso in discussione?
Perché costa, tanto. Perfino i partiti socialdemocratici scandinavi si sono indeboliti difendendolo. Nel ’76, prima della Thatcher, dopo 40 anni al governo la socialdemocrazia svedese perse le elezioni: era il segno dell’insofferenza verso una forma di tutele che comporta una pressione fiscale elevata, ma è anche l’unica via per ridurre le disuguaglianze.
La sinistra è in disarmo. La svolta a favore della globalizzazione, se all’inizio li ha riportati al governo, li ha poi svuotati della loro stessa natura. Ora ne pagano le conseguenze: i socialisti francesi sono al minimo storico. Zero idee e mancanza di coraggio: hanno perfino accolto l’euro senza porsi il problema delle conseguenze.
Colpa della globalizzazione?
Vi hanno aderito convinti, come se contenesse un moltiplicatore di ricchezza, ma la globalizzazione riduce l’autonomia degli Stati - consentendo alla grande industria di trasferire gli investimenti dove più conviene - e la sinistra ha sempre fatto perno sullo Stato-Nazione.
Renzi ha in mente questo piano?
Segue la stessa logica.
Ma una riforma del lavoro può essere utile.
Certo, ma c’è un paradosso incredibile: si riforma il mercato del lavoro senza sapere qual è il modello economico che vogliamo adottare, e con una gigantesca incertezza sugli ammortizzatori sociali. In Europa si vuole tutelare il lavoratore sul mercato e non all’interno del luogo di lavoro. Lo Statuto dei Lavoratori fa l’esatto opposto, perché è nato in un contesto molto diverso. Nessuno dei due è giusto o sbagliato a prescindere, ma bisogna saper scegliere. Invece si attacca il sindacato.
Che però si è dimenticato di milioni di lavoratori precari.
Ha colpe gigantesche, ma i problemi sono altri: abbiamo perso un quarto dell’apparato produttivo.
Ora si parla di “modello tedesco”.
Lì si è fatto perno sulla potenza di fuoco di alcune grandi imprese, con buoni ammortizzatori sociali. Ma si rischia l’implosione. Se lei fa un giro a Berlino si accorge che i supermercati sono vuoti e la vita costa meno che a Torino: significa che la domanda interna è depressa.


Repubblica 1.10.14
L’articolo 18 che divide la sinistra
di Nadia Urbinati


SE IL Pd é riuscito a trovare una qualche unità sui temi della riforma costituzionale, sembra invece molto più diviso sul tema del lavoro; e la decisione della sua direzione nazionale lo conferma. Non vi é di che stupirsi. La Sinistra é nata in occidente insieme al lavoro salariato, per rappresentarne le esigenze e però anche le potenzialità di trasformazione sociale. Emancipare il lavoro dalla servitù non ha significato soltanto tradurlo in un servizio compensato (più o meno equamente), ma anche assegnarne una funzione sociale, farne un sinolo di altri diritti per coloro (la stragrande maggioranza) che non hanno altro potere se non la loro intraprendenza. Il legame della Sinistra con il lavoro non si é affievolito con la sua trasformazione democratica. Si é anzi perfezionato e arricchito. La legislazione sulla sicurezza del lavoro e la previdenza sociale, sull’eguaglianza di considerazione e di non discriminazione per ragioni di genere, di religione o di ideologia politica: a partire dal Secondo dopoguerra, tutti questi ambiti ruotano intorno al lavoro come rapporto sociale e luogo di diritti. Ora sembra che proprio su questo fronte la Sinistra italiana sia internamente divisa.
La discrepanza tra maggioranza e minoranza nel Pd riguarda il modo di dare valore al lavoro. È una differenza di filosofia, se così si può dire. La maggioranza condivide l’approccio neo-liberale e situa il lavoro in una cornice compiutamente privata: questa è la filosofia che sta dietro la proposta di abolire l’articolo 18. La minoranza non condivide l’approccio neo-liberale e pensa di riformare non abolire quell’articolo. Non é la prima volta che un governo tenta di abolire questo articolo, ma è la prima volta che un governo a leadership di centro-sinistra vuole abolirlo. La lotta tra liberisti e non (tra destra e sinistra) è catapultata dentro il Pd.
Si dirà: nella sfera economica vale la libertà di disporre ciascuno della sua proprietà. Ma è vero anche che la nostra costituzione riconosce il diritto di proprietà non come un fatto esclusivamente privato e anarchico (anche perché nessuna proprietà esisterebbe senza il potere dello Stato). A ben guardare, è l’arbitrio che l’articolo 18 vuole limitare, non la libertà economica. Esso è la conseguenza naturale dell’articolo 41 della Costituzione poiché impone una responsabilità di cittadinanza alla sfera degli interessi economici. Si ripete ormai da anni che l’articolo 18 ha comunque poco impatto, operando su aziende medio-grandi mentre l’Italia ha in maggioranza aziende medio-piccole o familiari. Allora perché insistere tanto? Perché, dice chi è per la sua abolizione, lo vogliono i mercati, gli investitori. È una decisione simbolica, un segnale. Ma perché i mercati hanno bisogno di questo tipo di segnale? Molto probabilmente perché pensano che la democrazia debba avere una nuova regia: non la legge (il legislatore, lo stato), ma il mercato. Per questo, essi pensano che una parte importante della sfera sociale debba tornare a essere privata. Il limite della “giusta causa” che l’articolo 18 impone è il vero ostacolo che si vuole rimuovere dunque, quello che segnala la priorità del pubblico sul privato, della legge sul mercato: che impone al datore di lavoro di rendere conto della ragione della sua decisione di licenziare. L’articolo stabilisce che il rapporto di lavoro non è solo un fatto privato, legittimato dal consenso dei contraenti.
Ovviamente non c’è bisogno di considerare questo articolo come un dogma per comprenderne l’importanza (e la sua riformabilità). Il punto nodale sta invece nel cogliere la filosofia che sta dietro la sua specifica formulazione. Essa invita a non considerare il lavoro come un fatto privato. Pone un limite alla libertà di licenziamento nelle aziende private con più di quindici dipendenti: il limite della “giusta causa”. Non toglie la libertà di licenziare, ma la regola affinché essa non sia puro arbitrio, esito di una decisione discrezionale in forza di un’asimmetria di potere. Questo articolo rispecchia il principio fondamentale della democrazia, che è la libertà dal dominio e dall’arbitrio. E ogni riforma proposta dalla sinistra dovrebbe mirare a confermare questo principio di libertà. La minoranza del Pd ritiene che senza l’intervento della legge questo principio non possa essere difeso e aggiunge che allentare le regole non dà alcuna garanzia che l’occupazione venga stimolata. La maggioranza del Pd pensa l’opposto. Il fatto nuovo al quale assistiamo in questi giorni è che la lotta fra queste due prospettive è interna alla Sinistra, celata dietro la lotta generazionale.

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