venerdì 12 dicembre 2014
Pare che i renzicchi di ogni latitudine studino la politica su questo libro o scemeggiato televisivo
Intervista. Un incontro con Michael Dobbs, in Italia per presentare il secondo volume della trilogia, «House of Cards 2 - Scacco al re», edito da Fazi. «Ho visto Renzi comprare una copia del mio libro. Ne sono stato felice, mi cita spesso, gli ho detto che ho scritto un romanzo, non un manuale di istruzioni per la politica»
Guido Caldiron, il Manifesto 12.12.2014
C’è la strategia degli annunci, «la natura delle promesse
è quella di rimanere immuni al cambiamento delle circostanze». E i
velenosi affondi sui «fannulloni», «nella nostra società c’è una
profonda divisione tra coloro che vogliono lavorare e godere dei
frutti della loro fatica e un crescente numero di coloro che
è diventato di moda chiamare ’i disaffezionati’, ’gli
svantaggiati’, ’i diversamente motivati’, quello che si usava un
tempo chiamare ’gente pigra’, gente disonesta che non vuole
assumersi la responsabilità delle proprie azioni o della
propria vita».
Nell’anno primo dell’«era Renzi» non si possono leggere le parole
di Francis Urquhart, il protagonista della trilogia
letteraria britannica di House of Cards, senza provare un
leggero brivido lungo la schiena. Difficile infatti non cogliervi
una sinistra analogia con la piega assunta dal dibattito politico
del nostro paese e con il tipo di retorica «narrativa» che
contraddistingue proprio il presidente del Consiglio. Se
a questo si aggiunge il fatto che Renzi, non fa mistero della sua
passione per i libri di Michael Dobbs, il creatore della Casa di carte,
e per la serie tv che ne è stata tratta negli Stati Uniti — in Italia
trasmessa da Sky — in cui Urquhart è ribattezzato Underworld
e impersonato da Kevin Spacey -, al punto, si dice, di averne
proposto l’utilizzo nei corsi di formazione dei giovani quadri del
Partito Democratico, l’effetto corto-circuito è completo.
Il problema è, però, che Sir Michael Dobbs, classe 1948, prima di
essere nominato alla Camera dei Lords, è stato un importante
esponente del Partito Conservatore, portavoce parlamentare dei
Tory negli anni Ottanta e soprattutto capo dello staff di Margaret
Thatcher a Downing Street. Certo un brillante politico e un autore
raffinato, la descrizione delle ambizioni personali, del cinismo
e della violenza messe al servizio di un progetto egemonico
descritte in House of Cards hanno suscitato nella critica
anglosassone addirittura paralleli con Il Principe di Machiavelli o il Riccardo III
di Shakespeare, ma pur sempre un uomo di destra, tra gli strateghi
di quella rivoluzione conservatrice inaugurata proprio dalla
Lady di ferro in Europa una trentina di anni fa. Il romanzo e la serie
tv, si dirà, sono popolarissimi in tutto il mondo, al punto da essere
seguiti anche da Obama e da Cameron e, pare, da un gran numero di
dirigenti cinesi, ma l’eco conosciuta dal fenomeno nel nostro paese
resta pur sempre paradossale.
Come conferma indirettamente lo stesso Michael Dobbs, in questi
giorni tra gli ospiti dell’International Communication Summit in
corso a Roma, dove ha presentato il secondo volume della trilogia, House of Cards 2 — Scacco al re, pubblicato come il precedente da Fazi (pp. 382, euro 16,50).
Sir Dobbs, pare che Renzi sia un suo grande ammiratore, cosa ne pensa?
Ho visto una foto del vostro presidente del Consiglio che comprava
una copia del mio libro e ovviamente mi ha fatto piacere. Così gli ho
mandato una copia autografata. Però, dato che aveva citato House of Cards
più volte, gli ho anche scritto di fare attenzione, che si tratta di
un romanzo, di puro intrattenimento, non certo di un testo di
formazione politica o, peggio, di un manuale di istruzioni.
Il protagonista del romanzo, Francis Urquhart, è un
politico conservatore, mentre Franck Underworld, nella serie tv
che lei stesso ha sceneggiato, è un esponente democratico. Come
dire che quella visione cinica della politica non è né di destra né di
sinistra?
Non c’è niente di davvero ideologico nel mio personaggio, lui fa
soltanto quello che le situazioni in cui si trova ad operare
sembrano richiedergli. Comunque, a questo proposito, in questi
giorni mi è stato chiesto che consiglio darei a Renzi. Beh, tutto
quello che so sulla politica l’ho imparato lavorando a stretto
contatto con Margaret Thatcher e lei teneva nel suo armadio un paio
di stivali chiodati, ed è grazie a quelli che ha fatto tanta strada
nella sua lunga carriera politica. E allora il mio consiglio a Renzi
è di tirare fuori dal suo cassetto i suoi stivali, dargli una bella
lucidata e mettersi in marcia.
In «House of Cards» tutto si svolge nei palazzi della politica,
al massimo si dà ascolto ai sondaggi e ai talk-show. Chi guida la
«cosa pubblica» non ha più bisogno di cercare il consenso?
Mi sembra che oggi tutto si svolga in quella specie di «bolla» della
politica che domina sia a Washington che a Westminster, e forse nel
resto d’Europa, magari anche a Roma. Un sistema che sembra bastare a se
stesso, che ha proprie regole e leggi, in cui una volta ottenuto il
mandato non ci fa più troppe domande su cosa vogliano gli elettori.
Il suo personaggio insegue il potere a ogni costo, non
è certo una persona raccomandabile, eppure i politici per primi
sembrano amarlo invece che stigmatizzarne il comportamento. Per
quale motivo, secondo lei?
Perché vedono in lui qualcosa che conoscono bene. Credo che oggi la
cosa più importante per un politico non sia essere amato, ma essere
rispettato, ottenere il rispetto dalla gente. Per essere efficace
devi dimostrare qual è l’orizzonte finale da raggiungere e allora
potrà succedere che si perdano battaglie, ma se è chiara la
tenacia, la spietatezza con cui vuoi perseguire quell’obiettivo, le
persone saranno sempre con te. Come politico passo il 95% del mio
tempo a convincere gli altri che opero per il bene di tutti, ma
è facendo ricorso al restante 5%, quello in cui vado in fondo
all’obbiettivo, quale che sia, che trovo davvero consensi. Basti
pensare che nello scrivere House of Cards ho decisamente annacquato la realtà della politica che ho conosciuto io stesso.
Negli Stati Uniti i repubblicani sembrano aver adottato una
linea del genere, Francis Fukuyama l’ha definita «vetocrazia» per il
modo in cui si sono opposti ad ogni proposta della Casa Bianca.
Obama non è stato altrettanto cinico, per questo ha perso le elezioni
di «midterm»?
L’elezione di Obama era stata identificata con lo slogan «Yes We
Can», con un grande sogno di cambiamento e dopo aver messo
un’asticella così in alto era impossibile non deludere, come in
effetti è accaduto. Perciò lui sarà probabilmente ricordato più
per quello che è stato in grado di evocare, per il simbolo che ha
incarnato che per ciò che è riuscito a realizzare davvero.
Resterà l’uomo, resterà quello che ha rappresentato, resterà il sogno, ma niente di più.
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