mercoledì 21 gennaio 2015

Dai sistemi di Welfare all'ipnosi ermeneutica di massa: la "povertà percepita"

Sendhil Mullainathan e Eldar Shafir: Scarcity. Perché avere poco significa tanto, il Saggiatore
 
Risvolto
Perché la povertà è così difficile da sradicare? E perché i piani per contrastarla si rivelano quasi sempre inefficaci? Per combattere la povertà – la scarsità cronica di denaro – occorre cogliere il filo che la lega a tanti altri esempi di scarsità: dalla mancanza di tempo di chi è oberato dagli impegni lavorativi alla solitudine di chi si trasferisce in una nuova città. Sendhil Mullainathan e Eldar Shafir dimostrano che tutte le forme di scarsità creano uno stato mentale simile. La scarsità influenza, a un livello subconscio, incontrollabile, le capacità cognitive e i comportamenti individuali e collettivi. Concentra tutte le energie intellettuali sulle risorse che mancano, migliorando la prontezza e l’efficienza nel rispondere alle esigenze più pressanti. Ma così facendo «cattura» la mente: se siamo preoccupati per la scarsità, abbiamo meno attenzione da dedicare a tutto il resto. Diventiamo meno intuitivi, meno lungimiranti, meno controllati: affrontare ristrettezze economiche riduce le capacità cognitive di una persona più di un’intera notte insonne. In quest’ottica non solo la povertà globale, ma anche i problemi della nostra vita quotidiana acquistano nuova luce. La psicologia della scarsità accomuna i venditori indiani di frutta e verdura caduti nella trappola dell’indebitamento e gli uomini d’affari superoccupati che faticano a prendersi cura dei figli, i coltivatori di canna da zucchero, chi affronta una dieta e chi gestisce ospedali sovraffollati. Se è vero che una scienza della scarsità c’è già, ed è – per definizione – l’economia, gli aneddoti, le ricerche e gli esperimenti sociali di Scarcity sono un invito a ripensare l’economia tenendo conto degli effetti cognitivi, e non solo quantitativi, della scarsità. Una prospettiva che può avere applicazioni innovative per i sistemi di welfare e le politiche di sviluppo globale, oltre che per orientare scelte e comportamenti di tutti i giorni, migliorando la qualità della nostra vita.

Sendhil Mullainathan insegna Economia a Harvard. Nel 2002 è stato premiato con il genius grant della MacAthur Foundation. Si occupa di economia comportamentale e sviluppo economico.
Eldar Shafir insegna Psicologia e affari pubblici a Princeton. Conduce ricerche sulle scienze cognitive, i processi decisionali e l’economia comportamentale.
Mullainathan e Shafir sono cofondatori di ideas42, un’organizzazione non profit che propone soluzioni ai problemi sociali basate sull’economia comportamentale.
 
Vite all’insegna della scarsità
Saggi. «Scarcity» di Sendhil Mullainathan e Eldar Shafir per il SaggiatoreMattia Cinquegrani, il Manifesto 21.1.2015
Nel corso della Seconda Guerra Mon­diale venne regi­strato, dall’aviazione sta­tu­ni­tense, un numero ele­vato di inci­denti aerei in nes­sun modo ricol­le­ga­bili alla pre­senza di pro­blemi tec­nici. Era durante le ope­ra­zioni con­clu­sive del volo che nume­rosi bom­bar­dieri si schian­ta­vano al suolo, per una comune pro­pen­sione dei piloti a ritrarre il car­rello del veli­volo pro­prio nel corso della fase di atter­rag­gio. Fu per tro­vare un rime­dio a que­sto inso­lito pro­blema che venne con­vo­cato lo psi­co­logo Alphonse Cha­pa­nis, nella spe­ranza di riu­scire a com­pren­dere il pro­cesso psi­chico che indu­ceva in errore un numero così ele­vato di aviatori.
Incu­rio­sito dal fatto che que­sto tipo di inci­denti si veri­fi­casse con un pre­ciso modello di bom­bar­dieri (i B-17), Cha­pa­nis decise di affran­carsi dai suoi stessi schemi men­tali e di rivol­gere la pro­pria atten­zione alle cabine di pilo­tag­gio, più che alle menti di coloro che dove­vano pren­dervi posto. Ben pre­sto, lo psi­co­logo sta­tu­ni­tense si rese conto che la leva ado­pe­rata per met­tere in fun­zione il car­rello e quella uti­liz­zata per azio­nare gli iper­so­sten­ta­tori del veli­volo si tro­va­vano l’una di fianco all’altra e che i due comandi appa­ri­vano iden­tici. L’analisi di Cha­pa­nis era riu­scita e dimo­strare che se a cau­sare gli inci­denti era la disat­ten­zione dei piloti, a faci­li­tare con­si­de­re­vol­mente la pos­si­bi­lità di com­met­tere errori era la strut­tu­ra­zione della cabina di pilotaggio.
Quando ci si con­fronta con l’inefficacia di alcune stra­te­gie atte a con­tra­stare la povertà si tende a con­cen­trare tutta l’attenzione sull’atteggiamento assunto da quanti dovreb­bero usu­fruirne, più che sulla natura degli stru­menti ideati. Se una age­vo­la­zione finan­zia­ria non viene sfrut­tata da chi ne ha biso­gno, deve essere per­ché quell’individuo è troppo pigro per svol­gere le pra­ti­che neces­sa­rie o, diver­sa­mente, per­ché non è in grado di com­pren­derne il poten­ziale e di vederne il bene­fi­cio. Seguire l’esempio di Cha­pa­nis, cam­biando radi­cal­mente la pro­spet­tiva su que­sto argo­mento, è quello che deci­dono di fare Sen­d­hil Mul­lai­na­than ed Eldar Sha­fir con Scar­city. Per­ché avere poco signi­fica tanto (il Sag­gia­tore, pp. 292, euro 22). Inda­gando i fat­tori che deter­mi­nano le inef­fi­cienze strut­tu­rali dei pro­grammi anti­po­vertà, i due stu­diosi (docenti di eco­no­mia ad Har­vard, il primo, e di psi­co­lo­gia e affari pub­blici a Prin­ce­ton, il secondo) sono riu­sciti a sco­prire un uni­verso, fino a oggi, inimmaginato.
La teo­ria che viene ela­bo­rata nel libro rivo­lu­ziona gli studi sul set­tore, espan­dendo i con­fini della pro­pria ana­lisi ben al di là del pro­blema spe­ci­fico. Secondo Mul­lai­na­than e Sha­fir la povertà, pur non risol­ven­dosi in essa, può essere ricon­dotta all’esperienza della scar­sità, ovvero alla con­di­zione di disporre di un deter­mi­nato bene in una quan­tità minore di quella che si ritiene neces­sa­ria. In una pro­spet­tiva di que­sto genere a quelle con­di­zioni che deter­mi­nano la povertà, devono essere aggiunte tutte le con­si­de­ra­zioni ela­bo­rate dal sin­golo indi­vi­duo, riguardo a quanto è neces­sa­rio pos­se­dere e a quel che dav­vero conta. È que­sta com­po­nente sog­get­tiva, spe­cial­mente nei mec­ca­ni­smi psi­co­lo­gici che a essa sono cor­re­lati, a inte­res­sare i due stu­diosi. Così, l’analisi che si svi­luppa alla luce della teo­ria sulla scar­sità dimo­stra una sostan­ziale somi­glianza com­por­ta­men­tale tra chi non pos­siede denaro a suf­fi­cienza, chi lotta con­tro la man­canza di tempo, chi vive nella soli­tu­dine e chi decide di intra­pren­dere una dieta dima­grante. In tutti que­sti casi (e in molti altri ancora), la pre­oc­cu­pa­zione per la con­di­zione di scar­sità impri­giona la mente dell’individuo, che si trova per­tanto a ope­rare avendo a dispo­si­zione meno intel­li­genza fluida e un minore con­trollo ese­cu­tivo. «Quando spe­ri­men­tiamo qual­siasi forma di scar­sità, ne veniamo assor­biti. La mente si orienta auto­ma­ti­ca­mente, con forza, verso i biso­gni insod­di­sfatti. (…). La scar­sità è qual­cosa in più dell’insoddisfazione di avere pochis­simo. Modi­fica il nostro modo di pen­sare. Si impone nelle nostre menti», infi­ciando la nostra vita nella sua totalità.
Certo viene da doman­darsi se sia real­mente lecito para­go­nare con­di­zioni esi­sten­ziali così dif­fe­renti e così diver­sa­mente inva­sive nelle esi­stenze della per­sone. Ancora, biso­gne­rebbe com­pren­dere se i poveri dell’India rurale siano effet­ti­va­mente com­pa­ra­bili ai clienti a basso red­dito di un cen­tro com­mer­ciale del New Jer­sey. La rispo­sta è senza dub­bio nega­tiva e i due autori del volume ne sono con­sa­pe­voli. Tut­ta­via, pur senza voler esclu­dere le cir­co­stanze spe­ci­fi­che e la loro indub­bia rile­vanza, il punto di forza di que­sta teo­ria risiede pro­prio nella sua capa­cità di riu­scire a tro­vare una chiave di let­tura uni­ta­ria, adatta a deci­frare le con­di­zioni nelle quali si trova a ope­rare qual­siasi per­sona viva la scar­sità. Una nuova chiave di let­tura, in grado di dimo­strare che i pro­grammi di wel­fare e le poli­ti­che di svi­luppo glo­bale potreb­bero diven­tare più effi­caci, se si fosse dispo­sti a seguire, ancora una volta, l’esempio di Alphonse Chapanis.

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