martedì 27 gennaio 2015
Pittella, Piketty e Vendola cugini di Tachipirinas
Se i greci non allontanano al più presto con una bella fattura queste influenze malefiche - specie quelle italiane - faranno senza meno la fine di Zapatero tempo un anno [SGA].
Ora tutti uniti contro l’austerità la sinistra europea riparta da Syriza
THOMAS PIKETTY Repubblica 27 1 2015
IL TRIONFO elettorale di Syriza in Grecia potrebbe capovolgere la situazione dell’Europa e farla finita con l’austerità che mette a rischio la sopravvivenza del nostro continente e dei suoi giovani. Tanto più che le elezioni previste per la fine del 2015 in Spagna potrebbero produrre un risultato simile, con l’ascesa di Podemos. Ma perché questa rivoluzione democratica venuta dal Sud possa riuscire a modificare davvero il corso delle cose, bisognerebbe che i partiti di centrosinistra attualmente al potere in Francia e in Italia adottino un atteggiamento costruttivo e riconoscano la loro parte di responsabilità nella situazione attuale.
Concretamente, queste forze politiche dovrebbero approfittare dell’occasione per dire con voce alta e forte che il trattato sui bilanci adottato nel 2012 è stato un fallimento, e per mettere sul tavolo nuove proposte, tali da consentire una vera rifondazione democratica della zona euro. Nel quadro delle istituzioni europee esistenti, ingabbiate da criteri rigidi sul deficit e dalla regola dell’unanimità sulla fiscalità, è semplicemente impossibile portare avanti politiche di progresso sociale. Non basta lamentarsi di Berlino o di Bruxelles: bisogna proporre regole nuove.
Per essere chiari: a partire dal momento in cui si condivide una stessa moneta, è più che giustificato che la scelta del livello di deficit, così come gli orientamenti generali della politica economica e sociale, siano coordinati. Semplicemente, queste scelte comuni devono essere fatte in modo democratico, alla luce del sole, al termine di un dibattito pubblico e con contraddittorio. E non applicando regole meccaniche e sanzioni automatiche, che dal 2011-2012 hanno prodotto una riduzione eccessivamente rapida dei deficit e una recessione generalizzata della zona euro. Risultato: la disoccupazione è esplosa mentre altrove scendeva (sia negli Stati Uniti che nei Paesi esterni all’area dell’euro), e i debiti pubblici sono aumentati, in contraddizione con l’obbiettivo proclamato. La scelta del livello di deficit e del livello di investimenti pubblici è una decisione politica, che deve potersi adattare rapidamente alla situazione economica. Dovrebbe essere fatto democraticamente, nel quadro di un Parlamento dell’Eurozona in cui ogni Parlamento nazionale sarebbe rappresentato in proporzione alla popolazione del rispettivo Paese, né più né meno. Con un sistema del genere, avremmo avuto meno austerità, più crescita e meno disoccupazione. Questa nuova governance democratica consentirebbe anche di riprendere in mano la proposta di mettere in comune i debiti pubblici superiori al 60 per cento del Pil (per condividere lo stesso tasso di interesse e per prevenire le crisi future) e istituire un’imposta sulle società unica per tutta la zona euro (il solo modo per mettere fine al dumping fiscale).
Purtroppo, oggi il rischio è che i governi di Francia e Italia si accontentino di trattare il caso greco come un caso specifico, accettando una leggera ristrutturazione del debito del Paese ellenico senza rimettere in discussione alla radice l’organizzazione della zona euro. Perché? Perché hanno passato un mucchio di tempo a spiegare ai loro cittadini che il trattato di bilancio del 2012 funzionava, e oggi sono reticenti a ritrattare quanto detto. E quindi vi spiegheranno che è complicato cambiare i trattati, anche se nel 2012 gli bastarono sei mesi per riscriverli, e anche se è evidente che nulla impedisce di prendere misure di emergenza in attesa che entrino in vigore nuove regole. Ma farebbero meglio a riconoscere gli errori finché sono in tempo, piuttosto che aspettare nuovi scossoni politici, stavolta dall’estrema destra. Se la Francia e l’Italia oggi tendessero la mano alla Grecia e alla Spagna per proporre un’autentica rifondazione democratica della zona euro, la Germania non potrebbe fare a meno di accettare un compromesso.
Tutto dipenderà anche dall’atteggiamento dei socialisti spagnoli, attualmente all’opposizione. Meno falcidiati e screditati dei loro omologhi greci, devono tuttavia accettare il fatto che faranno molta fatica a vincere le prossime elezioni senza allearsi con Podemos, che stando agli ultimi sondaggi potrebbe perfino arrivare al primo posto.
E non dobbiamo pensare, soprattutto, che il nuovo piano annunciato dalla Bce basterà a risolvere i problemi. Un sistema di moneta unica con 18 debiti pubblici e 18 tassi di interesse diversi è fondamentalmente instabile. La Bce cerca di giocare il suo ruolo, ma per rilanciare l’inflazione e la crescita in Europa c’è bisogno di un rilancio della spesa pubblica. Senza di esso, il pericolo è che i nuovi miliardi di euro stampati dalla Bce finiscano per creare bolle speculative su certe attività, invece di far ripartire l’inflazione dei prezzi al consumo. Oggi la priorità dell’Europa dovrebbe essere investire su innovazione e formazione. Per fare questo c’è bisogno di un’unione politica e di bilancio della zona euro più stringente, con decisioni prese a maggioranza all’interno di un Parlamento autenticamente democratico. Non si può chiedere tutto a una Banca centrale. (Traduzione Fabio Galimberti)
Pasok chi? Nel Pd è Tsiprasmania
Il caso. I socialisti greci sono asfaltati. Ma i dem fanno finta di nulla: «Renzi? Un antesignano di Alexis»
Daniela Preziosi, il Manifesto 26.1.2015
Renzi come Tsipras? Macché, meglio: più anti-rigore, più anti-debito, persino più anti-Troika. Da domenica sera va in onda, su tv e social network, la passione greca che ha colpito i dem italiani mentre lo scrutinio certificava la vittoria a valanga della Coalizione della sinistra radicale (questo, per la cronaca, significa l’acronimo Syriza).
E il Pd si scopre grande amico della sinistra greca, pur restando acerrimo nemico di quella italiana, il cui programma è fotocopia di quella. Sforzandosi di riscrivere a ritroso una corrispondenza di amorosi sensi fra il leader delle larghe intese italiane e l’inflessibile rottamatore di quelle greche. Molti dem non hanno dubbi sulle affinità: il blairiano sarebbe un precursore del comunista.
«Tsipras saprà sfruttare al meglio il risultato elettorale per consolidare in Europa il percorso per la crescita cui ha lavorato Renzi in questi mesi», esulta Debora Serracchiani. «Renzi è l’antesignano della battaglia per cambiare le politiche economiche europee, con tutti noi socialisti», giura Gianni Pittella. Peccato che, a proposito di socialisti, in Grecia Tsipras ha spazzato via il Pasok, partito fratello del Pd. Quello che nel dicembre 2012 Bersani invitò a Roma affidando al leader Venizelos una relazione su come la Grecia può uscire dalla crisi grazie al Memorandum, le dure condizioni accettate dal governo Pasok-Nuova Democrazia ora stracciate da Tsipras.
Pittella si augura che «Renzi e Tsipras si parlino». Ormai è inevitabile. Eppure Renzi ha inviato al vincitore greco un telegramma di «sentiti auguri» degno di un consumato equilibrista: «La sfida che ti attende è sicuramente molto impegnativa: un intero continente segue le vicende politiche greche con grande partecipazione».
Finora Renzi si era tenuto alla larga dal candidatissimo, che veniva in Italia solo su invito della sinistra radicale. Non l’ha voluto incontrare quando, nel luglio 2014, Tsipras venne a Roma e mandò avanti le diplomazie per organizzare un incontro. Che non ci fu. «Mancato per un soffio», si giustificarono da Palazzo Chigi quando il greco era già sull’aereo. Qualche mese dopo il premier greco in pectore fa inoltrare una nuova richiesta di incontro. Ma di nuovo non se ne fa nulla.
Non era andata così quando a Palazzo c’era Enrico Letta. Ex dc, certo non contrario alle politiche di rigore, l’8 febbraio 2014 Letta si precipitò dall’aeroporto a Roma — era di ritorno da Sochi — per spalancare le porte del suo ufficio a quello che già il settimanale tedesco filo-merkel Der Spiegel aveva definito «il nemico numero uno dell’Europa».
Renzi invece francamente se n’è infischiato. Fino a domenica. Anzi fino al 16 gennaio quando — a due settimane dal voto e a risultato già annunciato — alla direzione del Pd non ha potuto non accettare un ordine del giorno di Stefano Fassina (tsipriota della prima ora) che chiedeva «al Pse e a S&D di impegnarsi per far finire le ingerenze internazionali sul voto greco e a «avviare un percorso di dialogo con le principali forze progressiste elleniche». Nei giorni scorsi Tsipras ha chiesto pubblicamente la collaborazione di Renzi sul piano europeo. Ovvio: il leader greco non vuole farsi isolare nella trattativa per rinegoziare il debito e i trattati. Ma tanto basta ai renziani per vantarsi della sintonia fra i due presidenti.
Ma la verità è un’altra e sono in pochi nel Pd ad ammetterla. Lo fa la giovane e seria deputata Anna Ascani che domenica sera, di fronte al profluvio dei nuovi amici di Tsipras nel suo partito, ha twittato: «Segnalo agli entusiasti che il Pse, i l nostro partito insomma, ha perso. Di brutto». E Francesco Boccia: «Renzi, il Pd e il Pse hanno fatto degli errori, che alcuni di noi hanno rilevato nei mesi scorsi quando Schulz e Juncker hanno restaurato l’architettura istituzionale comunitaria. Le ricette non funzionano più».
E naturalmente Stefano Fassina, il dissenziente Pd che nei giorni scorsi era stato ad Atene, come Pippo Civati, a incontrare gli economisti di Syriza. «Il nostro jobs act è l’esatto opposto del programma di Syriza», spiega, «Renzi dovrebbe imparare il discorso di verità fa Tsipras: l’Europa della svalutazione del lavoro e della Troika non funziona e porterà a sbattere. Noi ci siamo concentrati sui decimali di flessibilità mentre occorre dire che servono investimenti pubblici e un allentamento delle politiche di austerità». Quello che Tsipras, e non Renzi, ha messo come condizione della trattativa sul tavolo europeo.
«Mi fido di lui, è realista Negoziamo ma senza ricatti»
Martedì 27 Gennaio, 2015 CORRIERE DELLA SERA © RIPRODUZIONE RISERVATA
Bruxelles Presidente Martin Schulz, il giornale tedesco «Bild» avverte: in Grecia, «ha vinto lo spauracchio dell’euro». Lei giuda il Parlamento europeo, condivide?
«Così come non dobbiamo avere paura delle espressioni colorite della Bild , non dovremmo avere paura di Alexis Tsipras e della sua Syriza. Conosco Tsipras ormai da tempo. Abbiamo una relazione franca, diretta. Le nostre posizioni sono diverse, ma non è un anti-europeo: con lui si può discutere. È in primo luogo un politico pragmatico, e carismatico».
Dunque questa vittoria è una buona notizia per la Grecia e l’eurozona, per tutta l’Unione Europea?
«Questo potremmo dirlo solo alla fine del mandato. La risposta dipenderà soprattutto da Tsipras, se saprà dimostrare leadership, visione, strategia e spirito di compromesso, nel Paese e fuori».
Come valuta il rischio di instabilità dentro e fuori la Grecia, se questa lascerà l’euro?
«La Grecia non abbandonerà l’euro. Non sarebbe nel suo interesse, né in quello della zona euro. Tsipras è ben consapevole della necessità di arrivare a compromessi con altre forze politiche in Grecia, e con i partner internazionali nell’eurozona e nell’Ue. Quanto ai rischi di instabilità, sono molto più contenuti oggi che alla fine del 2009».
Perché?
«Perché la Grecia ha ora un avanzo primario al netto degli interessi, un debito detenuto all’80% da creditori istituzionali, una prospettiva di crescita del 2,9% nel 2015 e una disoccupazione alta, ma in calo. Insieme, Grecia e Ue devono accelerare queste dinamiche, garantire la sostenibilità del debito greco e far sì che i cittadini vedano migliorare il livello di vita anche attraverso una maggiore equità».
Che cosa potrebbe offrire Tsipras all’Ue, e viceversa?
«Credo che sia prematuro parlare già ora dei prossimi passi, ma l’iniziativa dovrà arrivare dal nuovo governo greco. È chiaro però che il dibattito dev’esserci: e dev’essere una negoziazione fondata su responsabilità e realismo, non ricatti, accuse e ultimatum».
Per esempio?
«Per esempio, ho detto a Tsipras che incentrare il dibattito sul taglio — piuttosto che dilazione — del debito, potrebbe incontrare forti resistenze tra i leader Ue. Molto lavoro dev’essere fatto in Grecia per assicurarsi una maggiore equità negli sforzi richiesti al Paese. E occorre una vera lotta all’evasione, a livello nazionale ed europeo. Ma oggi dovremmo lasciare aperta ogni porta, a un dibattito senza animosità».
La Grecia è la più antica democrazia del mondo, ha avuto il primo Parlamento della storia: come vede il suo ruolo futuro nell’Europarlamento, nei delicati equilibri fra il ricco Nord e il Sud Europa?
«In molti parlano della vittoria di Syriza come di una loro vittoria. Ho letto di commenti giubilanti di Marine Le Pen o Nigel Farage, che non hanno nulla a che fare con la sinistra europea, o con la Grecia. Credo che nell’Ue si stia vivendo una nuova fase, dopo duri anni di sola austerità. Molti ormai capiscono che il rigore, senza investimenti e riforme strutturali, non può portare alla crescita. I piani Juncker e Draghi si inseriscono in un quadro più ampio che pone nuovamente la crescita al centro della governance dell’Unione. A questo tentativo — non facile, ma necessario — di sintesi tra diverse forze politiche e diversi Stati, Atene può dare un contributo. Come ogni altro Paese dell’eurozona e dell’Ue».
E diversamente?
«Se invece — e non ho ragioni per pensare che così sarà — quello di Tsipras sarà un governo del “no”, rischierà di portare la Grecia in un vicolo cieco».
Possiamo dire che, paradossalmente, con le sue richieste di austerità, Angela Merkel ha spinto la Grecia verso la rivolta anti-rigore?
«Ovviamente il voto a favore di Syriza è un voto anti-austerity. Questo è chiaro a tutti. Ma è anche un voto contro la gestione del governo precedente. Se guardiamo all’inizio della crisi, credo che in molti avrebbero cercato di agire diversamente, sia in Grecia, sia nell’Ue. Degli errori sono stati forse commessi. L’Ue ha dovuto costruire le risposte e gli strumenti per contrastare la crisi nel mezzo della tempesta finanziaria ed economica che ha colpito l’eurozona».
E il ruolo del Parlamento europeo?
«Il Parlamento europeo, con varie relazioni, ha criticato e offerto alternative alla struttura e al funzionamento della troika. Juncker stesso si è detto favorevole a una sua riforma. Ma certo, con il senno di poi siamo tutti più saggi. E sappiamo che molti degli strumenti a disposizione oggi non esistevano nel 2010».
Che cosa ha detto ieri a Tsipras, dopo la conferma dell’esito del voto?
«Mi sono complimentato per una vittoria indiscussa. E ho aggiunto che la parte difficile inizia ora: se lui vorrà contribuire al rafforzamento del progetto europeo, troverà in me e nell’Europarlamento un interlocutore sempre disponibile».
La troika è morta (e non lascia eredi)
Martedì 27 Gennaio, 2015 CORRIERE DELLA SERA © RIPRODUZIONE RISERVATA
La troika è morta». Così ha detto Alexis Tsipras, leader di Syriza e nuovo primo ministro della Grecia. Saranno in tanti ad essere d’accordo con lui, anche se, in molti casi, per motivi diversi dai suoi.
Quando, nell’Europa di oggi, si dice «troika», ci si riferisce ovviamente al Fondo monetario internazionale (Fmi), alla Banca centrale europea (Bce) e alla Commissione europea, le tre istituzioni che, insieme, hanno negli ultimi anni condotto e guidato le operazioni di salvataggio degli Stati europei travolti dalla crisi finanziaria, imponendo ricette di risanamento e austerità.
È contro queste politiche che Alexis Tsipras ha costruito la propria vittoria. Di tutto questo, di ciò che Syriza (e non solo Syriza) respinge e vuole cambiare, la troika è diventata il simbolo. Saranno in pochi a difenderla così com’è.
Giusto una decina di giorni fa, ad esprimersi contro la troika, o, per essere più precisi, contro la sua composizione, è stato l’avvocato generale della Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Pedro Cruz Villalón era chiamato ad esprimersi su un ricorso della Corte costituzionale tedesca che aveva contestato la legittimità di un programma di acquisto di titoli del debito pubblico degli Stati dell’eurozona da parte della Bce sostenendo che, così facendo, la Banca avrebbe invaso il campo riservato ai governi.
Ebbene, l’avvocato generale della Corte aveva sì concluso che il programma era «legittimo e conforme alla politica monetaria», ma, con un significativo «tuttavia», aveva aggiunto che «perché questo mantenga il suo carattere di misura di politica monetaria la Bce dovrà astenersi dal partecipare direttamente al programma di assistenza finanziaria applicato allo Stato interessato».
Se lo giudica indispensabile, la Bce, dunque, compri pure titoli pubblici degli Stati dell’euro, ma ad evitare che la sua azione si traduca in qualcosa di più di un semplice «appoggio» alla politica economica, lasci ad altri il compito di dettare e guidare i programmi di intervento.
Per quanto riguarda la Banca centrale europea, quindi, addio alla troika.
E, sia detto tra parentesi, quasi certamente addio anche a lettere come quella inviata nell’estate del 2011 dall’allora presidente della Banca centrale europea Trichet al presidente del Consiglio Berlusconi e al suo omologo spagnolo Zapatero per dettar loro una precisa linea di politica economica. Un passo giustificato dall’emergenza e dal rischio che in quel momento correva l’intera costruzione dell’euro, ma un atto con il quale la Bce andò assai vicina a superare i limiti del proprio mandato, ristretto alla politica monetaria.
Nessuno pensi che a Francoforte, sede della Banca, si verseranno lacrime alla prospettiva di ritirarsi dalla troika. L’ultimo giorno dell’anno appena trascorso, Peter Praet, autorevole membro del Comitato esecutivo della Bce, in un’intervista al quotidiano tedesco Borsen-Zeitung , interrogato sulla partecipazione della Banca alla troika, aveva risposto così: «Credo che la Banca centrale europea sia stata costretta dalla necessità ad assumere un ruolo che ha portato molta pressione sull’istituzione. L’abbiamo accettato… ma questo non vuol dire che ci piaccia. Direi che è venuto il tempo di una seria riflessione su come noi vediamo nel futuro il nostro ruolo nella troika».
Con la Bce pronta a staccarsi dalla troika, si passerà da un tiro a tre a un tiro a due? Improbabile. Almeno a giudicare da quanto detto da Jean Claude Juncker, il presidente della Commissione europea, lo scorso 22 ottobre, nel suo discorso d’apertura di fronte al Parlamento europeo. «In futuro, dovremmo essere capaci di sostituire la troika con una struttura più democraticamente legittimata, basata sulle istituzioni europee e con un più forte controllo parlamentare a livello tanto europeo quanto nazionale». Detto in parole più chiare, in futuro sarà bene che il Fondo monetario internazionale resti sullo sfondo.
Destinati a sganciarsi tanto la Bce quanto il Fmi, smantellata la troika, chi prenderà il suo posto?
Logica vorrebbe che in avvenire, avvalendosi delle competenze della Bce, del Fmi e della Commissione europea con la stessa Commissione come braccio operativo, fossero il Consiglio europeo, cioè l’insieme dei capi di Stato e di governo dell’Unione Europea, e il Parlamento europeo ad assumersi la responsabilità politica degli interventi.
Questo per il domani. Intanto, però, e da subito, c’è da governare il caso Grecia.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento