Pivato è stato Rettore a Urbino per molti anni. Nel mio minuscolo ho contribuito a eleggerlo, investendo in lui grandi speranze di rinnovamento (ero rappresentante dei ricercatori nel Cda dell'Università) e una buona dose di amicizia.
Ho imparato presto però, sulla mia pelle, che la differenza tra un Barone conservatore e un Barone Rosso è sostanzialmente questa: quando ti incula, il Barone Rosso vuole anche sentirsi dire grazie, perché lui è convinto di essere sinceramente democratico e ti sta beneficando.
Molto interno al sistema di potere PD (è stato assessore a Rimini), Pivato ha esordito con grandi proclami di trasparenza e partecipazione ma poi si è circondato di yesmen e chi osava criticare era fuori. Nel concreto, ha boicottato la protesta dei ricercatori contro la Legge Gelmini sostituendo tutti coloro che avevano rinunciato agli incarichi di insegnamento, ha applicato la controriforma con zelo impareggiabile prorogando se stesso e blindando un Cda onnipotente, ha trasformato l'Università di Urbino nel dormitorio della Celere di Senigallia con l'obiettivo di stroncare con la repressione il movimento studentesco.
Il fatto che per soddisfare l'aspirazione legittima a veder promosso il proprio libro si presti adesso a lasciarsi coinvolgere nel giochino di Gian Antonio Stella, uno dei principali promotori della campagna contro l'Università e la scuola pubblica, ne fa il Perotti del 2015.
Certamente io provo delusione nei suoi confronti e qualche scienziato benriuscito direbbe che sono "rancoroso". Tuttavia, quando Pivato ha scritto libri interessanti li ho segnalati in questo blog come tali. In questo caso, invece, davvero bisognerebbe imparare la decenza - appunto - di tacere.
Tutte queste cose lui le sa e sono pronto a ripetergliele [SGA].

Stefano Pivato:
Al limite della docenza. Piccola antropologia del professore universitario, Donzelli
Risvolto
«Coinvolta in scandali di vario genere,
l’università è, da tempo, sotto scacco. C’è però da chiedersi fino a che
punto sia utile e produttivo reagire scompostamente e non piuttosto
avviare una profonda autocritica che coinvolga prima di tutto una serie
di attitudini e comportamenti che potremmo definire “ai limiti della
decenza”».
Il quaranta per cento di quanti si iscrivono all’università italiana
non arriva a concludere il corso di laurea. Si tratta di una mortalità
che non ha riscontri in altri paesi. Le cause invocate per spiegare
questa anomalia sono molteplici: ci sono quanti chiamano in causa la
mancanza di orientamento fornito dalle scuole superiori, e quanti
invocano invece le scelte sbagliate degli studenti. Nessuno ha mai
indagato, neppure in forma interrogativa, le eventuali responsabilità
dei docenti universitari e la loro scarsa inclinazione alla «missione»
didattica. La lezione di don Lorenzo Milani non sembra aver fatto
breccia nelle aule universitarie. Ad accrescere la distanza nel rapporto
fra docenti e studenti è anche la particolare mentalità del professore
universitario. Se Claude Lévi-Strauss resuscitasse, avrebbe non poca
materia per aggiornare il suo Pensiero selvaggio senza bisogno di
inseguire i miti di terre lontane ma concentrando la sua attenzione
sulla composita umanità del mondo accademico. Il volume di Stefano
Pivato ne analizza nevrosi, tic e comportamenti nel tentativo di
delineare una vera e propria antropologia del docente universitario
italiano. Ne emerge il ritratto di una tribù alla quale è demandato il
compito di preparare la classe dirigente del futuro. Un pamphlet
dettato, dunque, dalla consapevolezza che un diverso atteggiamento dei
docenti è preliminare al varo di una qualunque riforma. Pagine militanti
che intendono salvaguardare quella parte di università che riesce, in
maniera spesso miracolistica, a produrre eccellenti prodotti di ricerca e
a preparare in maniera adeguata gli studenti. Un atto di denuncia e, al
tempo stesso, un gesto d’amore nei confronti dell’istituzione
universitaria e di uno dei mestieri più belli del mondo.
Narcisismo e cecità dei baroni uccidono l’università italiana
Autoreferenzialità, fobia digitale, concorsi «adattati»: è l’Italia che non vuole cambiare
di Gian Antonio Stella Corriere 28.1.15
«Mio
padre era un professore universitario, ragion per cui aveva le
abitudini tipiche dei professori universitari. Guardava tutti dall’alto
in basso, non scendeva mai dalla cattedra, neanche in famiglia. Era una
cosa che non sopportavo fin da quando ero bambino».
Tranquilli:
l’ingombrante genitore del nostro scrittore non era senese, non era
barese, non era bresciano e neppure foggiano o trentino. La
testimonianza, infatti, è di Haruki Murakami, uno dei più celebri
romanzieri giapponesi. Tutto il mondo è paese? Ma certo. Esiste tuttavia
un Homo academicus specificatamente italiano. Al punto che Stefano
Pivato, docente di Storia contemporanea a Urbino dove è stato anche
rettore, autore di libri deliziosi a cavallo fra storia e costume come
Vuoti di memoria , Il secolo del rumore , Il nome e la storia , ha
deciso di dedicare a questa specie umana un feroce e divertito pamphlet.
Si
intitola Al limite della docenza. Piccola antropologia del professore
universitario , è edito da Donzelli, e dimostra che non sempre, come
dice il vecchio adagio, cane non morde cane. In questo caso prof. morde
prof. e rettore morde rettore. Come quello che, «magnifico di
un’università del Nord in carica da ventotto anni» si levò furente
all’assemblea della Crui dell’ottobre 2010 scuotendo i colleghi con
parole di fuoco contro il limite di sei anni ai rettorati eterni voluto
da Mariastella Gelmini e contro l’introduzione del codice etico.
«L’etica si pratica, non si legifera!» Boooom!
C’era il pienone quel
giorno, alla conferenza dei rettori. Troppo spesso però, secondo Pivato,
l’ Homo academicus italicus somiglia a quel Bernardino Lamis
protagonista d’una novella di Pirandello «descritto mentre tiene la sua
“formidabile” lezione. Il docente è “infervorato” a tal punto che solo
alla fine si accorge di aver parlato a un’aula priva di studenti».
L’ex
rettore ne è certo: «Coinvolta in scandali di vario genere,
l’università è, da tempo, sotto scacco. C’è però da chiedersi fino a che
punto sia utile e produttivo reagire scompostamente e non piuttosto
avviare una profonda autocritica che coinvolga prima di tutto una serie
di attitudini». Come l’autoreferenzialità. Due che s’incrociano dicono:
«Come stai?». Al contrario, «una certa tipologia di docente ha
l’abitudine di salutarti con una formula piuttosto diffusa nell’ambiente
universitario e, stringendoti la mano, senza chiederti nulla, ti dice
“come sto io”. Insomma parla unicamente di se stesso».
E tutto va di
conseguenza: «Il professore “come sto io?” se riceve da un amico o un
collega un libro, calibra il suo entusiasmo dal numero delle citazioni
che ha ottenuto nell’indice dei nomi». E «non parte mai dai problemi
universitari, che riguardano in particolare gli studenti e attengono
alla diffusione del sapere. Ma dai “suoi” problemi. Che sono al centro
del mondo». E mosso da «uno smisurato ego», pubblica libri che non vende
a nessuno, ma se lo incrociate «vi dice subito che il libro è giunto
già alla terza o quarta edizione, e magari che sta entrando in
classifica, pronto a scalzare i best sellers di Camilleri…».
Di più:
«Spesso l’importanza del volume è sottolineata dal numero delle pagine
che il docente “come sto io” mima allargando a dismisura le mani per
darti l’idea del “tomone” che ha pubblicato. Come se l’importanza di un
libro si misurasse a chili». E naturalmente il libro «fa giustizia di
tutte le teorie e le ipotesi precedenti».
E se la grafomania fosse
sfogata negli ebook? Ma per carità! «Un buon numero d’insegnanti,
soprattutto quelli delle discipline umanistiche, non ha ancora
dimestichezza con gli strumenti digitali. Anzi, oppone loro un vero e
proprio rifiuto. La motivazione più ricorrente è quella che la scrittura
con carta e penna riveste un fascino d’ antan che non può contaminarsi
con la modernità». E per di più non sarebbero più possibili certi
trucchetti per imporre l’adozione del proprio tomo agli studenti. Come
quello di un docente che, per evitare che gli allievi si passassero i
libri usati, ha fatto stampare il suo con un’accortezza: «L’ultima parte
era costituita da una serie di pagine con domande ed esercizi che lo
studente doveva compilare a penna e quindi staccare e consegnare al
professore per la verifica. In questo modo, terminato l’esame, il testo,
mancante della parte finale, non era più utilizzabile».
C’è chi
dirà: «Uffa! Veleni». No: come giustamente recita la fascetta, quello di
Pivato è un pamphlet malizioso, irridente ma tremendamente serio. Che
getta sale sulle piaghe di un sistema universitario troppo spesso ostile
a ogni riforma. Legato a riti e reverenze ampollose verso il
Chiarissimo, l’Amplissimo, il Magnifico… Dove il rettore d’un ateneo
privato al Nord può essere contemporaneamente il «magnifico» in
«un’altra università del Sud a circa millecinquecento chilometri di
distanza». Dove «il camaleontismo del professore mostra incredibili doti
di adattamento ai meccanismi concorsuali» e l’imperativo è taroccare de
Coubertin: «L’importante è partecipare ma soprattutto vincere».
Insomma,
un luogo chiuso dove «i codici etici concretamente adottati dalle
università affrontano tendenzialmente tutti i temi, ma per lo più in
modo astratto». Dove esattamente al contrario che nei grandi atenei
internazionali che sono un viavai di eccellenze, lo jus loci , il
radicamento vita natural durante nel cantuccio della propria facoltà,
«costituisce una delle regole più ferree». Dove le ore obbligatorie di
lezione sono al massimo 120 l’anno contro le 192 in Francia, le 279 in
Baviera, le 252 (ma fino a 360) in Spagna, le 240 in Gran Bretagna…
Abbiamo
scommesso: c’è chi liquiderà il pamphlet, frutto di un grande amore
ammaccato per l’università, come uno sfogo brillante ma fatto di mezze
verità. E sbufferà: ma come, uno dei nostri che offre munizioni ai
nostri nemici! Vadano a rileggersi Curzio Malaparte e la sua idea del
patriottismo: «Un popolo sano e libero, se ama la pulizia, i panni
sporchi se li lava in piazza».