martedì 10 marzo 2015

Affidare il patrimonio culturale del Paese ai privati significa privatizzarlo, svilirlo ma soprattutto significa demolire la democrazia. Per un nuovo ruolo dello Stato

Tomaso Montanari: Privati del patrimonio, Einaudi, pagg. 172, euro 12

Risvolto
La religione del mercato sta imponendo al patrimonio culturale il dogma della privatizzazione. Ma se l'arte e il paesaggio italiani perderanno la loro funzione pubblica, tutti avremo meno libertà, uguaglianza, democrazia. L'alternativa è rendere lo Stato efficiente. Ma non basta: dobbiamo costruire uno Stato giusto.
Sono vent'anni che, in Italia, la politica del patrimonio culturale si avvita sulla diatriba pubblico-privato: brillantemente risolta socializzando le perdite (rappresentate da un patrimonio in rovina materiale e morale) e privatizzando gli utili, in un contesto in cui le fondazioni e i concessionari hanno finito per sostituire gli amministratori eletti, drenando denaro pubblico per costruire clientele e consenso privati. Ma cosa ha significato, in concreto, la «valorizzazione» (o meglio la privatizzazione) del patrimonio? Quali sono la storia e i numeri di questa economia parassitaria, che non crea lavoro dignitoso e cresce intrecciata ai poteri locali e all'accademia piú disponibile? Ed è vero che questa è la strada seguita nei grandi paesi occidentali? Tomaso Montanari risponde a queste e altre domande spiegando perché non ci conviene distruggere il governo pubblico dei beni culturali basato sul sistema delle soprintendenze: un modello che va invece rafforzato e messo in condizione di funzionare, perché è l'unico che consente al patrimonio di svolgere la sua funzione costituzionale. Che è quella di renderci piú umani, piú liberi, piú uguali.                           


Il romanzo criminale del patrimonio artistico
Il saggio di Tomaso Montanari sull’ingerenza e le storture dei privati nei beni culturalidi Adriano Prosperi Repubblica 9.3.15
PRIVATI del patrimonio siamo stati e continuiamo a essere tutti noi, cittadini italiani, vittime per lo più distratte ma spesso cieche e consenzienti di quello che Tomaso Montanari definisce il “romanzo criminale” dei depositi pubblici della cultura e dell’arte. Che però non è un romanzo: è la storia dell’Italia nell’epoca della Grande Trasformazione. Nell’Italia povera e devastata del dopoguerra si entrava gratis agli Uffizi e negli altri grandi luoghi d’arte. E il restauro era un’attività di alta qualificazione soggetta a rigorose norme pubbliche. Quando Totò voleva far ridere inventava lo sketch della vendita della fontana di Trevi. Oggi non c’è più niente da ridere: l’idea di vendere il patrimonio pubblico per ripianare i debiti del paese è l’opinione “mainstream”. Intanto le opere d’arte viaggiano freneticamente, qualche volta periscono in viaggio (vedi gesso del Canova): fanno lo spogliarello in sfilate di moda. Si è costituito un jet set dell’arte che vede in prima classe i Bronzi di Riace, Leonardo, Michelangelo, Caravaggio e pochi altri. L’ignoranza trionfa. Montanari racconta di mandrie di visitatori migranti verso la mostra strombazzata ignorando il grande capolavoro nella vicina chiesa. E chi fa ballare i burattini sono enti privati, fondazioni sedicenti “no profit” a cui gli enti pubblici — regioni, comuni, ministeri — pagano rimborsi a piè di lista o affittano la riscossione dei biglietti. Si fanno mostre assurde, culturalmente ignobili. Si fanno cose chiamate “eventi”: e si pronunzia con unzione devota la detestabile parola. Gli studi e il restauro non esistono quasi più. Perché accade questo? Ce lo spiega molto bene Tomaso Montanari in Privati del patrimonio , che meriterebbe di essere letto come un manuale di storia contemporanea nelle scuole italiane.
Chi ha giurato fedeltà alla Costituzione ne ha tradito e deformato il linguaggio. Alla “tutela” ha sostituito la “valorizzazione”. Nel contesto del liberismo selvaggio trionfante senza resistenze nel paese del più grande partito comunista d’Occidente , valorizzare ha significato privatizzare. L’arte e il paesaggio sono stati abbandonati ai privati. Un tradimento della Costituzione. Chi è stato? Il suo nome è legione. Basta vedere nell’elenco di Montanari quanti hanno rivenduto la micidiale metafora inventata da un mediocrissimo ministro piduista della cultura, quella del patrimonio artistico come “petrolio italiano”. Si fa prima a dire chi non lo ha fatto, per esempio il presidente Ciampi. Sul lato opposto è d’obbligo la presenza dei ministri della cultura (tutti quelli succeduti a Pedini, fino a oggi). Qualcuno ha ricamato intorno all’immagine: così ad esempio tale Giovanna Melandri passata direttamente dalla politica al governo del Maxxi, che immaginò l’Italia come una bella signora femminilmente seduta sul suo tesoro. Più efficace e diretta nella sua rozzezza la definizione che il grande comunicatore Matteo Renzi ebbe a dare degli Uffizi: una macchina da soldi. Ma, come dimostra in maniera inappuntabile Montanari, quella macchina funziona a rovescio: prende soldi pubblici e li trasferisce a privati. Se al Colosseo ancora non si fanno le battaglie di gladiatori auspicate dal giornale della Confindustria, basterà la gestione ordinaria a garantire al privato capitalista che se n’è assunto il restauro di lucrare per anni in pubblicità e soldi. E intanto la Società Autostrade ha messo le mani sull’Appia Antica. Roma e Firenze unite nel disastro: a Firenze, capitale del Rinascimento antico e della nuova controriforma, tutto si merca: ponti storici, sale di musei, Cappellone degli Spagnoli, saloni di Palazzo Vecchio. Il “bel San Giovanni” di Dante forse non arriverà al centenario della morte di Dante in mano pubblica. Intanto si è visto impennacchiare da una ditta di moda come il cavallo di una scuderia privata. E da Firenze la rete dell’associazione “no profit” Civita, presieduta da Gianni Letta, con la sua “Civita cultura”, dove spicca il nome di Paolucci, si allunga come una piovra.

La verità è amara, la libertà d’opinione è a mal partito. Montanari si prepari a pagare per le sue campagne. Come quella che in questi giorni lo oppone a un Pd toscano che sta preparandosi a espellere dal governo della Regione l’assessore Anna Marson, colpevole di aver tentato di difendere le Apuane dallo sfruttamento selvaggio favorito dal partito del mattone e delle pietre. E delle privatizzazioni. Nello Stato privatizzato e servile del “jobs act”, tutti coloro che vivono di lavoro, intellettuale o manuale, stanno imparando sulla loro pelle che non è dello Stato che debbono avere paura: del resto, lo scriveva profeticamente Giuseppe Dossetti, un padre della Costituzione nel cui nome Montanari chiude il suo libro.


Il pamphlet di Tomaso Montanari (Einaudi)Giù le mani private dai Beni culturali Ma l’alternativa è una fragile utopiadi Pierluigi Panza Corriere 26.3.15
L’ impegno che caratterizza lo storico d’arte e critico militante Tomaso Montanari lo porta nel suo ultimo j’accuse ( Privati del patrimonio , Einaudi, pp. 166, e 12) a fissare in un episodio del ‘600 il mito fondativo del rapporto che dovremmo stringere con i Beni culturali. È l’episodio dei contadini della Val Brembana che rifiutarono di cedere quadri in cambio di fieno durante una carestia. È un archetipo condivisibile, come lo è l’idea che sia il «patrimonio a farci nazione non per via di sangue, ma per via di cultura» (dal che deriva che intendiamo restare una nazione, senza cedere quote di sovranità). Condivisibili sono molte altre affermazioni del pamphlet-j’accuse di Montanari: «Non è accettabile la mercificazione ad ogni costo», «c’è da chiedersi se sia giusto andare verso un continuo aumento della dimensione commerciale dei musei» così come, aggiungiamo, verso una dimensione virtuale delle mostre. Inoltre, se il fine della trasmissione del patrimonio è la conoscenza, «lo Stato non deve prestare qualsiasi opera pubblica a qualunque mostra», «non deve riconoscere abnormi contropartite in cambio di sponsorizzazioni» o «adattarsi a fare il maggiordomo in fondazioni di cui è il massimo contribuente» o «consentire a uno stilista di disporre di un ponte di Firenze come sala da pranzo».
Tutte queste considerazioni definiscono il perimetro di un alto ideale che trova casa nel «migliore dei mondi possibili». Ma un ministro dei Beni culturali e gli operatori di settore di un Paese che sta svendendo aziende, lavoro... possono davvero operare tenendo conto di tutte queste indicazioni? È difficile; inoltre credo che nel settore della tutela dei Beni non sia più tempo per pensare teorie o sovrapporre ideologie, perché l’unica via è quella del pragmatismo nelle regole (da cambiare), è il primum vivere per salvare i moribondi mutilati di un teatro di guerra. Anche se tagliassimo una parte di spese militari davvero pensiamo che in un Paese con duemila miliardi di debito il ricavato andrebbe interamente ai Beni culturali? E gli anziani? Gli ospedali? Le politiche d’integrazione? Le energie alternative? Il dissesto idrogeologico?
In queste condizioni continuare a declinare che sia tutela che gestione debbano essere esercitate esclusivamente dallo Stato, e tutto il resto sia un atto di Submission alla odiosa finanza globale, diventa una predicazione sotto le bombe. Accompagnata dalla stesura di una lista di proscrizione verso coloro che hanno parlato, almeno una volta nella vita, di Beni culturali come «petrolio nazionale». L’elenco inizia con Craxi e Berlusconi, passa da Veltroni per arrivare a Renzi, transitando per giornalisti o studiosi diventati, per Montanari, «accoliti del culto privatistico», ovvero adepti di una religione del male contro la quale combattono gli illuminati del bene.
Certo, se la premessa è che il capitalismo sia male e ogni gesto privato nasconda un bieco interesse, ogni proposta è sospetta. Forse, filosoficamente è vero che ogni umano gesto attenda una ricompensa, ma allora che facciamo delle fondazioni private che funzionano? E del non profit? Dei donatori? Del crowdfunding?
È tempo di agire in un sistema di rinnovate regole: i beni non si sfruttano, con i beni non si mangia, ma si mantengono. Caro privato, non ti do un ricco museo lasciando a me onerosi siti archeologici! Se vuoi il primo devi farti carico dei secondi. E se vuoi usare fuori orario un bene per uso privato e consono, ti chiedo molti soldi in favore della conservazione degli altri beni.
Certo, se poeticamente abitasse l’uomo sulla terra (Heidegger) uno Stato efficiente e giusto si curerebbe di ogni bene. Ma non è stagione per il dottor Pangloss: in un secolo il mondo è passato da uno a sette miliardi di abitanti, l’Europa ha perso il dominio economico e dilaga una religione del mercato che non può essere abbattuta partendo dalle nostre venerabili ruine.

Cinquanta ettari di cemento al giorno così il Belpaese asfalta il suo futuro
Allarme dell’Ispra: basta costruire o sarà troppo tardi “Nel solo 2014 coperti 200 chilometri quadrati di suolo”di Tomaso Montanari Repubblica 4.5.15
NEMMENO la grande crisi ha fermato l’unica impresa comune nella quale gli italiani delle ultime generazioni sembrano essersi coalizzati: il consumo irreversibile del sacro suolo della patria. Cioè il più evidente dei nostri vari suicidi collettivi.
È questa la più impressionante tra le moltissime notizie contenute dal rapporto 2015 sul consumo di suolo che dopodomani sarà reso pubblico dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, l’Ispra. Nel 2014 abbiamo “tombato” col cemento altri duecento chilometri quadrati di suolo: ogni giorno perdiamo 55 ettari, ogni secondo ci giochiamo tra i 6 e i 7 metri quadrati di futuro. In totale il suolo consumato in Italia è arrivato a quota 21mila chilometri quadrati, cioè il 7 per cento del territorio.
Dai numeri dell’Ispra appare consolidata la tendenza per cui, dal 2008, il Nord Ovest guadagna (cioè perde...) terreno rispetto al Nord Est. In altre parole, si costruisce di più proprio nelle regioni che negli ultimi anni hanno pagato, per il cemento, il prezzo più alto in termini di vite umane e di danni materiali: la Liguria, per esempio. I numeri del cemento vanno, infatti, incrociati con quelli del brusco cambiamento climatico e del conseguente aumento del rischio idraulico e geologico. In un convegno sul Cambiamento climatico, rischio idrogeologico e pianificazione urbanistica tenutosi recentemente all’Università di Firenze, il meteorologo Andrea Corigliano ha notato che «dei 74 eventi alluvionali totali italiani che si sono verificati dal 1951, 55 si sono manifestati dopo il 1990 e ben 26 solo negli ultimi quattro anni». In altre parole, gli effetti dell’immissione di anidride carbonica nell’atmosfera (nel 2014 la più elevata degli ultimi 800 mila anni) si stanno sommando a quelli del sigillamento del terreno: e la conseguenza sono le devastanti alluvioni urbane, che tutto sono tranne che una catastrofe naturale .
Di naturale c’è davvero poco, in questa nostra folle corsa al cemento. I dati dell’Ispra smentiscono, per l’ennesima volta, la presenza di un nesso causale tra edilizia e necessità di abitazioni: in una spirale perversa le città perdono abitanti, ma guadagnano case, vuote e sfitte. E se nel 2014 il suolo consumato per ogni cittadino italiano sembra, per la prima volta, lievemente scendere, non è perché si costruisca di meno, ma è a causa della ripresa demografica, dovuta in grandissima parte all’immigrazione. Come una specie di terribile peccato originale, i “nuovi italiani” si addossano un consumo statistico di suolo davvero impressionante: circa un chilometro quadro a testa!
E non si deve pensare che il Mezzogiorno sia esente dalla peste grigia del cemento. Dopo Lombardia e Veneto si attestano immediatamente la Campania e la Puglia. Ed è impressionante — ma non sorprendente — vedere che la regione del Crescent (il più incredibile scempio edilizio della Penisola, che ha sfregiato la città e il paesaggio di Salerno per volontà del sindaco Vincenzo De Luca, ora candidato alla presidenza della regione) nel 2013 si è cementificata più di Toscana, Emilia Romagna, Lazio: con una percentuale che si attesta tra il 7,8 e un mostruoso 10,2 per cento del territorio.
Di fronte a queste cifre, appaiono un balsamo le parole del nuovo ministro per le Infrastrutture Graziano Delrio, il quale ha subito promesso che si costruiranno solo opere utili (ovvio? No, sarebbe rivoluzionario), e che si romperà con la legislazione d’emergenza pro-cemento made in Maurizio Lupi. Ma c’è da fidarsi?
Il disegno di legge sulla “semplificazione” presentato dal presidente del consiglio Matteo Renzi di concerto con la ministra Marianna Madia promette, al contrario, di aggravare le conseguenze del micidiale Sblocca Italia, voluto da Lupi e fatto approvare da Renzi nello scorso novembre. Si tratta di una legge delega che — se approvata — permetterà, tra l’altro, al governo di estendere il micidiale meccanismo del silenzio-assenso (già sostanzialmente dichiarato anticostituzionale nel 1986) anche «alle amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico- territoriale, dei beni culturali e della salute dei cittadini» (articolo 3). Facile immaginare cosa succederà, in un Paese che ha smantellato e reso inefficienti le sue “magistrature del territorio”: saranno più veloci i permessi alle opere inutili legate ad interessi privati. E che dire dell’articolo 2, che delega il governo a introdurre il principio della decisione a maggioranza nelle conferenze dei servizi? Gli interessi dell’ambiente e della salute dei cittadini saranno in maggioranza o, come sempre, in minoranza?
La battaglia contro il cemento si perde prima nelle leggi corrotte, e poi sul territorio: dipende dall’azione del governo Renzi ciò che leggeremo nel prossimo rapporto Ispra. O il governo invertirà la rotta, o leggeremo che ci siamo suicidati ancora un po’. La scommessa sarebbe facile: ma sul futuro dei nostri figli non si può scommettere. 

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