martedì 3 marzo 2015

Frontiere ieri e oggi

L'invenzione della Frontiera
Fede­rico Simonti: L’invenzione della fron­tiera. Sto­ria dei con­fini mate­riali, poli­tici, sim­bo­lici, Odoya, pp. 350, euro 22

Risvolto

Viaggio e frontiera si toccano, si sovrappongono, divengono parte l’uno dell’altra. Quale immagine potrebbe descrivere meglio l’assemblaggio dello sconfinato materiale relativo alla frontiera che viene proposto in questo libro? L’ambizione è quella di dar vita a una grande cornice, metafora di una delimitazione, capace di conferire una qualche unità narrativa a storie eterogenee. 
Interno ed esterno, vita e sogno, opera d’arte e muro bianco, conosciuto e sconosciuto: è sempre il momento della soglia a rappresentare l’unione dell’opposto. Così come la frontiera rappresenta la figura dell’equilibrio, un contorno sfuggente e mobile, ma pur sempre in grado di bilanciare spinte di separazione ed energie di legame. 
Federico Simonti indaga temi distanti legati da un filo conduttore comune: il tema della frontiera affrontato in modo interdisciplinare e globale. Si alternano quindi racconti immaginifici: gli artisti e la frontiera (Bruce Chatwin, Nicolas Bouvier, Walter Benjamin...); la frontiera del Far West, la Patagonia, i gauchos; ebrei e muri; l’impero ottomano e i suoi confini; le terre di mezzo: Mosca e La Mecca... e molto altro. Vicende di confine in cui si incontrano storia, letteratura, architettura, filosofia e antropologia. 
Le terre di confine raccontano la loro storia e il nostro presente. Scopriamo così, insieme a Zygmunt Bauman, che “Le frontiere, materiali o mentali, di calce e mattoni o simboliche, sono a volte dei campi di battaglia, ma sono anche dei workshop creativi dell’arte di vivere insieme, dei terreni in cui vengono gettati e germogliano (consapevolmente o meno) i semi di forme future di umanità”. 


Geografie invisibili 
Mappature. Un percorso di letture sugli atlanti immaginari e l'invenzione di frontiere, non solo sui planisferi ma anche nella scrittura, nell'arte e nel cinema. Dal libro di Giuseppe Lupo a quello di Federico Simonti

Fabrizio Scrivano, il Manifesto 3.3.2015 

Ormai tutti sanno che il Mondo non esi­ste. Ne esi­stono tanti e tutti insieme, tutti com­pre­senti e tutti sovrap­po­sti. Una cata­sta di mondi che si schiac­ciano, che si ade­guano, che si incro­ciano, che si amano e odiano, che si cer­cano e negano. Forse è un altro modo di rac­con­tare la glo­ba­liz­za­zione e ren­dere più plau­si­bile il fatto che ci si possa tro­vare in un altro mondo senza essersi accorti di aver var­cato il con­fine. Ma que­sto timido e gene­roso rela­ti­vi­smo non impe­di­sce che, poi, uno al pro­prio mondo, o a quel che crede che sia, ci rimanga attac­cato e se lo porti die­tro, come fa la lumaca. Magari come una ruota di scorta. 
Inven­tar­sene uno e ten­tarne la car­to­gra­fia, allora, non è certo un’azione di distacco dal mondo né di rifiuto della realtà. Così andrebbe letto un recente album di imma­gini geo­gra­fi­che scritte (leggi car­to­line) messo insieme da Giu­seppe Lupo, Atlante imma­gi­na­rio. Nomi e luo­ghi di una geo­gra­fia fan­ta­sma (Mar­si­lio, pp.157, euro 15). Che seb­bene nel titoli e nel sot­to­ti­tolo cal­chi un po’ la mano sulla natura fan­ta­siosa, ideale e men­tale di que­sto viag­gio, comu­nica invece uno stare al mondo molto con­creto, non rea­li­stico né tanto meno gior­na­li­stico, bensì radi­cato in una geo­gra­fia di cose più o meno dispo­ni­bili. E infatti del suo guar­dare e memo­riz­zare i luo­ghi, col­pi­sce di più l’attenzione che non l’esotismo. 

Car­to­line in movi­mento
Vi si alter­nano spazi pri­vati, memo­rie let­te­ra­rie, pae­saggi vari, imma­gini con potere di rie­vo­ca­zione, addi­rit­tura voci che ripor­tano a luo­ghi e idee astratte che, in qual­che modo, hanno a che fare con lo spa­zio. Una vasta gamma di oggetti molto diversi tra loro, rac­colti e scan­sio­nati con una duplice volontà di cata­logo e di regi­stra­zione delle occa­sioni, che appa­ren­te­mente sfrut­tano il foglio come se fosse un piano su cui appog­giare qual­che cime­lio e met­tere in mostra qual­che souvenir. 
In realtà sono car­to­line in movi­mento, per qual­che verso non dis­si­mili da quelle di alcune Car­tes posta­les vidéo pro­dotte da Robert Cahen negli anni ’80, dove un movi­mento rapido veniva a tur­bare la logica dell’immagine ferma. Si prenda la numero 37, dedi­cata a Leo­nardo da Vinci: si rac­conta che, pas­sando per via Magenta a Milano, spesso si veri­fica la magia di vedere lo scienziato-artista alle prese con le sue inven­zioni, mera­vi­gliose ma insieme inu­sa­bili, pre­veg­genti e uto­pi­che.
A una più rav­vi­ci­nata occhiata, Lupo si accorge che Leo­nardo sta usando appunti scritti in carat­teri miste­riosi, che inter­preta come lin­gua segreta, una spe­cie di dia­letto nelle cui pie­ghe sol­tanto è pos­si­bile dire certe cose. Una lin­gua per la tec­nica ormai estinta, del tutto sosti­tuita dalla lin­gua effi­ciente e pro­dut­tiva della tec­no­lo­gia con­tem­po­ra­nea, cre­sciuta in un altro con­ti­nente. Come si vede, la pel­li­cola opaca del pre­sente, rimossa, mostra un altro momento della geo­gra­fia di quel luogo, men­tre la dif­fe­renza tem­po­rale lascia libera un’implicita rifles­sione sulla geo­po­li­tica del potere culturale. 
Spesso la dina­mica geo­gra­fica, nelle 50 cartoline-pizzino di cui è fatto il libro, crea un valore oppo­si­tivo tra locale e glo­bale, dando testi­mo­nianza dell’inevitabile espe­rienza glo­cale, e per que­sto non scissa né con­trad­dit­to­ria, alla quale siamo già abi­tuati senza saperlo. Inol­tre, la con­ti­nuità, magari sto­rica, e la con­ti­guità, non solo spa­ziale, di que­sti oggetti, non sono più in una logica di neces­sa­ria alter­na­tiva: i luo­ghi della sto­ria, veri e pre­sunti veri, emer­gano come memo­ria o come rac­conto, stanno a fianco dei luo­ghi del pre­sente, con­creti quanto gli altri. Insomma, distanze spa­ziali e distanze tem­po­rali con­vi­vono come se una delle mis­sioni di que­sto atlante fosse quella di non cer­care di spia­nare la dimen­sione labi­rin­tica del mondo ma nep­pure di esal­tare le pareti che ne sepa­rano i cor­ri­doi e le stanze. 
La voca­zione più genuina dell’insieme dei brevi rac­conti, per­ché infine tali sono, fuor di meta­fora, le car­to­line di Lupo, è tut­ta­via una rifles­sione sul mondo nar­ra­bile e sulle moda­lità di nar­ra­zione. Anzi, più pre­ci­sa­mente, l’immaginario in que­stione sem­bra per lo più una geo­gra­fia del mondo scritto e del mondo non scritto (per ripren­dere il titolo attri­buito a una rac­colta apo­crifa di saggi di Italo Cal­vino, con cui si voleva sot­to­li­neare in lui un inte­resse cosmografico-antropologico per l’universo della scrit­tura).
Esi­ste una dimen­sione geo­gra­fica della scrit­tura e più gene­ral­mente del rap­pre­sen­tare, nel senso che gli stru­menti della cul­tura e della comu­ni­ca­zione pro­du­cono o pos­sono pro­durre luo­ghi, anche piut­to­sto con­creti per quanto fatti solo di segni, che si con­fon­dono con gli spazi che rap­pre­sen­tano e che influi­scono sulla model­la­zione di que­gli spazi. 
Anche Lupo sem­bra sedotto da que­sta pos­si­bi­lità, e non è il solo. Per esem­pio, un libro di Fede­rico Simonti, L’invenzione della fron­tiera. Sto­ria dei con­fini mate­riali, poli­tici, sim­bo­lici (Odoya, pp. 350, euro 22), porta nel titolo que­sta sug­ge­stione. Giu­sti­fi­cata dalla diver­sità del mate­riale con il quale trac­cia alcune della forme con­tem­po­ra­nee, ma non solo, di quel con­fine aperto e inde­fi­nito che è la fron­tiera, entro il quale ci si avanza così come si arre­tra, a seconda che domini la curio­sità o la paura. Arte, cinema, let­te­ra­tura, foto­gra­fia, docu­men­ta­zione sto­rica, filo­so­fia, let­te­ra­tura poli­tica, con­cor­rono in que­sto libro a dise­gnare una riu­scita imma­gine delle spe­ci­fi­cità delle diverse fron­tiere costruite nella sto­ria e per­du­ranti nel pre­sente, ora più legate al con­cetto di linea (con­fine, bor­der), ora a quello di dif­fe­renza e distanza tra due spazi con­ti­gui, infine a quello di luo­ghi che sem­brano desti­nati ad essere solo attraversati. 
Lo stesso sguardo dell’autore, che spesso è anche per­so­nal­mente pas­sato per que­sti luo­ghi di fron­tiera, viag­giando e leg­gendo, diventa uno stru­mento di assem­blag­gio, un’invenzione, tanto plau­si­bile quanto più la si senta legata al rac­conto di un’esperienza invece che a una meto­do­lo­gia di inda­gine. Come se l’immaginazione geo­gra­fica potesse anche diven­tare uno stru­mento auto­bio­gra­fico.
Del resto, in que­sto libro di Simonti, il legame tra rac­conto di sé e rap­pre­sen­ta­zione dello spa­zio vis­suto si sente in maniera tanto più netta quanto più è noto che il con­fine e la fron­tiera sono mezzi con i quali i popoli e le nazioni si sono dise­gnati (e hanno rac­con­tato) i limiti della pro­pria iden­tità; e allo stesso tempo hanno allon­ta­nato e insieme rav­vi­ci­nato l’immagine dell’altro (il bar­baro, l’invasore, il diverso, l’alleato, il nemico, il fra­tello, il paese den­tro o fuori lo spa­zio comu­ni­ta­rio, quello ade­rente allo Spa­zio Schen­gen, etc.), come una cer­niera, da aprire e chiu­dere a seconda dei casi. 

Lo spa­zio della nar­ra­zione
Ma non è il caso di inol­trarsi in que­sta inquie­tante ana­lo­gia tra imma­gi­na­rio pub­blico e pri­vato, se non per sot­to­li­neare il fatto che una forza un po’ oscura tra­scina lo spa­zio geo­gra­fico ad essere ricom­po­sto con le cose della vita. E vice­versa, s’intende. Seb­bene sia più facile pen­sare che l’operazione di ren­dere leg­gi­bile lo spa­zio geo­gra­fico, cioè il car­to­gra­fare, sia piut­to­sto un’astrazione e una sem­pli­fi­ca­zione, una ridu­zione a segni certi e misu­rati la varietà ana­lo­gica con cui le cose appa­iono, in realtà que­sta astra­zione avviene anche fuori da una logica di ogget­ti­vità scien­ti­fica. Il rac­con­tare sarà anche ade­rente a una cau­sa­lità vis­suta e ciò non di meno è una ridu­zione a con­ven­zioni note, che neces­si­tano di essere comu­ni­cate entro un certo mar­gine di con­di­vi­sione e sicurezza. 
Ne potrebbe essere un esem­pio il fatto che spesso la let­te­ra­tura ha pro­dotto, anche non inten­zio­nal­mente, una geo­gra­fia dei luo­ghi pro­pri non immune da una più gene­rale gram­ma­tica che li rende com­pa­ra­bili. Uno stu­dio di qual­che anno fa di Carla Ale­xia Dodi (Ville invi­si­ble de la Médi­ter­ra­née, Paris, L’Harmattan, 2010) aveva addi­rit­tura pro­vato a ricom­porre la nar­ra­zione di tre città diverse e distanti, ma ricu­cite dal mare mediano, come Napoli, Tan­geri e Ales­san­dria d’Egitto, attra­verso i romanzi dei loro nar­ra­tori. E aveva sot­to­li­neato come le imma­gini di cia­scuna di esse, per quanto sfug­genti al limite dell’invisibilità, erano state il pro­dotto di un’estensione delle ana­lo­gie rispet­tive e reci­pro­che. Dove anche chi osserva aveva dovuto met­terci la sua parte di immaginazione. 
Alla fine torna que­sto dato dell’intersecazione e della sovrap­po­ni­bi­lità, che sarà forse un sem­plice pro­dotto dell’immaginazione nar­ra­tiva ma che ha almeno un effetto abba­stanza con­creto (come effetto let­te­ra­rio non è per niente disprez­za­bile): quello di togliere e far tacere la paura.

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