lunedì 18 maggio 2015
Fenomenologia e critica dell'ateismo contemporaneo
Roberto Giovanni Timossi: Nel segno del nulla. Critica dell’ateismo moderno, Lindau, Torino, pagg. 428, € 29,00
Risvolto
Nel mondo contemporaneo l'area della non
credenza si allarga ogni giorno di più e, anche nell'ambito di coloro
che si dicono credenti, si stanno diffondendo i comportamenti tipici
dell'ateo pratico. L'ateismo si presenta come l'elemento unificante di
culture e concezioni filosofiche spesso profondamente diverse tra loro
ed è riuscito a insinuarsi in alcune teologie, come quelle della morte
di Dio. In una rivisitazione complessiva dell'ateismo nella sua
evoluzione storica, Roberto Timossi analizza il pensiero dei principali
negatori dell'esistenza di Dio e della religione (da D'Holbach a
Feuerbach, da Nietzsche a Heidegger, da Sartre a Foucault, da Meslier a
Proudhon, da Stirner a Marx, da Bloch ad Adorno, da Sade a Freud, da
Schopenhauer a Leopardi e Camus, da Russell a Carnap e Ayer), dedicando
un'attenzione particolare agli atei "scientifici" e ai cosiddetti atei
moderni, perché negli ultimi decenni si è diffusa una forma di ateismo
che vede come protagonisti molti celebri uomini di scienza, quali Steven
Weinberg, Richard Dawkins e Stephen Hawking. "Nel segno del nulla"
offre dunque una visione completa dell'orizzonte ateo e
un'interpretazione delle direttrici principali dell'ateismo alla luce
dell'attuale condizione umana, perché di fronte a ogni singolo uomo si
pone sempre la questione del senso dell'esistenza, del confronto con il
rischio dell'assurdo e del nulla.
La carica dei non indifferenti 60 sfumature di ateismo
Quattro tinte forti, tutt’altro che grigie, criticate dal credente Timossi, che si misura con serietà col mondo dei non credenti
di Gianfranco Ravasi s. j. Il Sole Domenica 17.5.15
«È molto importante non prendere la cicuta per il prezzemolo. Ma non lo è
affatto credere in Dio o non crederci». Così scriveva Diderot all’amico
deista Voltaire nella sua Lettera sui ciechi per quelli che ci vedono,
un testo tradotto in italiano nel 1999 dalla Nuova Italia. Con questa
battuta folgorante si definiva quel fenomeno sociale che viene oggi
denominato come “apateismo”, curiosa miscela tra “apatia” e “ateismo”, e
che in forma più tradizionale viene rubricato come “indifferentismo”.
Si tratta di una morfologia – per alcuni è una sorta di infezione – che
aggredisce sia l’ateismo classico sia la fede autentica: non contesta
frontalmente né tantomeno combatte la tesi opposta ma la ritiene
irrilevante, a differenza di quanto accade per altre realtà nocive o
benefiche ben più concrete, come appunto la cicuta e il prezzemolo,
apparentemente simili.
Questa sindrome, sostenuta dall’ottimismo tecnologico, condanna sia la
scelta religiosa sia quella atea all’insignificanza o per lo meno
all’inutilità, e intacca anche i credenti che non sanno più né vivere né
testimoniare la loro “differenza”, cadendo appunto nell’indifferenza. E
lo stesso vale per l’ateismo che non riscuote più le accese e profonde
rivendicazioni nietzscheane né, tantomeno, i proclami enfatici del Sade
della Nouvelle Justine: «Quando l’ateismo vorrà dei martiri, lo dica e
il mio sangue è pronto!». Non per nulla quell’ateismo, in una sorta di
contaminazione osmotica, non esitava talvolta a rivestire i paramenti di
una ritualità alternativa a quella religiosa, come farà ad esempio
Comte col suo calendario di santi “laici” o come faranno certi apologeti
atei, dotati – come scriveva Pierre Reverdy nel suo En vrac – di
«un’asprezza feroce, pronti a interessarsi di Dio molto più di certi
credenti frivoli e leggeri».
All’ateismo militante e non “indifferente” e alla sua elaborazione
teorica – che già s’affacciava nella classicità greco-romana però solo
come negazione di un crasso politeismo mitologico, e che ebbe il suo
avvio genuino solo col Rinascimento e col materialismo scettico
successivo – un filosofo genovese, Roberto Giovanni Timossi, si sta da
tempo dedicando. Il volume che ha ora approntato è una sorta di mappa
dell’ateologia nelle sue varie manifestazioni fondamentali: la
contrapposizione al teismo, la metafisica dell’immanenza contro ogni
sussulto di trascendenza, la riduzione della fede in un Dio a pura e
semplice proiezione soggettiva e così via. In queste concezioni si
lascia sempre in campo l’uomo con la sua libertà nella sua splendida
solitudine, così che unici attori sulla scena siano soltanto l’umanità e
la sua storia, ossia – tanto per citare gli esempi più noti e popolari –
la “specie umana infinita” di Feuerbach, oppure il “superuomo” di
Nietzsche, o la “classe universale” proletaria di Engels e Marx, o
ancora il “Grande Essere” umano di Comte, o “l’uomo che si fa” ed evolve
di Sartre.
Ora, Timossi, che è un credente, si è idealmente rinchiuso per mesi e
forse anche per anni in una biblioteca di ateologia sui cui palchetti
sono infilati i principali testi “empi” nel senso tradizionale del
termine, impietosi e spietati contro la fede in un qualsiasi Dio. Gli
autori presi in esame sono almeno una sessantina, così da avere quasi
sessanta “sfumature” di ateismo che, però, sono articolate su uno
spettro cromatico tutt’altro che grigio. Quattro sono le tonalità
dominanti. La prima è quella dell’ateismo antropologico, ove l’uomo –
come si diceva – si pone come unico protagonista sulla terra sotto un
cielo vuoto di presenze trascendenti, arbitro dell’etica e della storia,
pronto a seppellire per sempre una divinità spettrale, ritrovandosi
così come un nuovo dio umano, non certo alla maniera cristologica.
C’è, poi, l’ateismo socio-politico sullo stile del Marx allergico
all’“oppio dei popoli” e alle sovrastrutture religiose, simili a una
cappa di piombo imposta all’umanità schiava. Subentra in terzo luogo la
concezione illusoria di una divinità che è proiezione dell’inconscio
umano secondo Freud o che è la denominazione di un imponderabile
non-senso o caso che ci comprime, dal quale ci liberano le braccia ben
più solide della scienza. Infine, ecco il terreno pieno di crepe, di
abissi, di sabbie mobili, vanamente pianificato e puntellato dalla
teodicea, ossia dal tentativo teologico di difendere Dio coinvolto nello
scandalo del male, “la rocca dell’ateismo”, come la chiamava il Büchner
della Morte di Danton.
Lo studioso genovese cerca di catalogare ma anche di vagliare
criticamente tutte le “sfumature” che avvolgono questi punti cardinali
dell’orizzonte dei senza Dio. È interessante notare che già alcuni di
questi capisaldi teoretici affiorano nei testi sacri per eccellenza
dell’Occidente, cioè nella Bibbia. In quelle pagine, ad esempio, ci si
imbatte nella negazione esistenziale (più che metafisica) del nabal,
l’“empio”, il cui manifesto è un lapidario ’en ’elohîm, “no Dio!”,
considerato come un fantasma assente dalla scena della storia ove impera
e imperversa solo l’uomo. Ma si ha anche la sfilata degli idoli, “opera
delle mani dell’uomo”, proiezione della loro hybris o delle loro
aspirazioni e impotenze, sui quali cade l’epigrafe dei profeti: «Essi
non sono Dio!».
Non manca nelle S. Scritture anche una paradossale negazione credente
che si consuma proprio su quel terreno ove di solito si celebrano le
apostasie, la regione del male, del dolore e del silenzio di Dio: basti
solo pensare a quel capolavoro tematico e poetico che è il libro di
Giobbe. Qui il fedele si trova sfidato non solo dalla sua stessa fede ma
anche dalla provocazione sarcastica dell’incredulo: «Dov’è il tuo Dio?»
(si leggano, ad esempio, i Salmi 42 e 43). Il credente, proprio perché è
definito con un participio presente, non vive di un’asettica
acquisizione simile a un’evidenza geometrica o matematica, ma deve
ininterrottamente costruire la sua opzione nella mente e nel cuore,
rispondendo a queste e altre obiezioni e attestando la sua capacità di
«rispondere a chiunque domandi della speranza che è in lui» (1Pietro
3,15).
Naturalmente quella di Timossi è una lettura critica e quindi negativa
perché non è suo compito elaborare i canoni di una teologia fondamentale
o di un’apologetica, anche se non mancano spunti rilevanti nelle sue
pagine. Si potranno, certo, avanzare riserve sui suoi giudizi, così come
potrà sembrare troppo tranchant la sua sentenza sull’«esito finale
della parabola dell’ateismo contemporaneo... come approdo al nichilismo
dissolutorio, ... allo sprofondare la causa umana nel vuoto
esistenziale». La sua è, comunque, una mappa preziosa per districarsi
nella selva oscura della negazione di ogni luce di trascendenza, fitta
però di una vegetazione ideale lussureggiante. In finale, però, egli
lascia sospesa sul lettore un’enigmatica e sorprendente asserzione di
Dostoevskij: «Il perfetto ateo sta sul penultimo gradino prima della
fede più perfetta».
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