lunedì 18 maggio 2015

Le bandiere della Palestina sventolano a San Pietro


In Vaticano le bandiere palestinesi L’ira della comunità ebraica e di Israele
“Abu Mazen angelo della pace? Francesco è ingenuo o non conosce il Medio Oriente”

di Giacomo Galeazzi La Stampa 18.5.15
«Le nuove sante ispirino solidarietà e fraterna convivenza», auspica Francesco indicando come modello di pacificazione per il Medio Oriente le prime due palestinesi canonizzate in epoca moderna, Marie Alphonsine Danil Ghattas e Mariam di Gesù Crocifisso Baouardy. Umili e coraggiose.

La storia soffia in piazza San Pietro. L’evento unisce evangelizzazione e diplomazia nel pontificato che ha riportato la Chiesa al centro dello scacchiere internazionale dopo un decennio di ripiegamento sulle ferite interne (scandali finanziari e sessuali, lotte di potere). Il Papa invita religioni e popoli che si contendono la Terra Santa a guardare al futuro con «speranza», lasciandosi ispirare dalla «carità» e dalla «riconciliazione». Geopolitica e fede in una giornata di festeggiamenti, nuovi scenari e polemiche.
Kefiah e canti
Nella canonizzazione si accende di colori e canti la festa palestinese a San Pietro con bandiere, kefiah e il presidente dell’Anp, Abu Mazen seduto in prima fila. Francesco lo abbraccia con grande cordialità dopo l’udienza di sabato e l’accordo tra Santa Sede e Palestina. «Siamo sorpresi e delusi», dice Riccardo Pacifici, presidente della comunità ebraica di Roma. Guarda le bandiere palestinesi in piazza e sospira: «Di tutto il Medio Oriente e l’Africa, Israele è l’unico Stato in cui i cristiani crescono di numero e hanno libertà religiosa. Da quando nel ’94 Betlemme è finita sotto il controllo dell’Autorità nazionale palestinese la presenza cristiana è scesa dell’80%». La “due giorni” di Abu Mazen in Vaticano lascia di ghiaccio i «fratelli maggiori» che preparano la visita papale alla sinagoga di Roma. «Facciamo appello a Francesco affinché ci renda noti risvolti sconosciuti del riconoscimento unilaterale e senza condizioni accordato ad Abu Mazen, che invece andava sollecitato a negoziare con il governo israeliano appena eletto, in spirito di giustizia e senza finzioni», spiega Pacifici. E aggiunge: «Per rilanciare solidarietà e accoglienza in Europa occorre combattere uniti, ebrei e cristiani, contro il terrorismo e l’odio fondamentalista in Medio Oriente e in Africa». E’ l’unica strada «per arginare le spinte nazionaliste e xenofobe che su questo tema raccolgono consensi».
Intanto da Israele piovono critiche per l’accoglienza del Pontefice e l’esortazione ad Abu Mazen ad essere angelo della pace. «O Sua Santità è persona ingenua o non ha nessuna conoscenza di quanto succede in Medio Oriente», scrive Yediot Ahronot.
Fraintendimenti e accuse
Il tabloid filo-governativo Israel ha-Yom pubblica una «lettera aperta al Papa» in cui si definisce la costituzione di uno Stato palestinese «la prosecuzione dei tentativi di crocifiggere il popolo ebraico». Secondo il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni «abbiamo bisogno tutti di angeli di pace ma devono essere angeli veri e pace vera». Padre Federico Lombardi riconduce però l’episodio all’obiettivo di Francesco, incoraggiare l’impegno per la pace. «Lo stesso dono del simbolo dell’Angelo di Pace viene fatto dal Papa a molti presidenti», chiarisce il portavoce vaticano.
Resta la delusione degli ebrei, soprattutto a Roma. «Abbiamo vissuto tutto questo come una beffarda ironia della sorte: si affida a un angelo della morte la speranza di pace - afferma Pacifici - Lo scorso giugno la preghiera ai Giardini Vaticani sembrava un nuovo corso. Invece, poi, è scoppiato il peggior conflitto degli ultimi vent’anni. Ci aspettavamo che il Papa chiedesse ad Abu Mazen di tagliare ogni legame con Hamas e con i finanziamenti dei Paesi che sostengono il genocidio dei cristiani». Infatti, «per le vittime cristiane abbiamo spento le luci al Colosseo manifestando con la Comunità di Sant’Egidio». Perciò «in queste ore la nostra base vive come un tradimento le immagini che arrivano dal Vaticano. Ma resta la speranza». Polemiche che non scalfiscono la proposta di pace che Francesco lancia attraverso l’esempio delle nuove sante.


Dal Medio Oriente a Cuba così Francesco rivoluziona la diplomazia del VaticanoDue sante palestinesi dopo il riconoscimento dello Stato Restano ancora aperti i dossier asiatici, Cina in testa

di Paolo Rodari Repubblica 18.5.15
CITTÀ DEL VATICANO La mediazione a tutti i costi. A rinverdire i fasti della migliore diplomazia vaticana ci sta pensando papa Francesco che, aiutato dagli esponenti di quella scuola del dialogo di casaroliana memoria, è anzitutto sul medio Oriente che dall’inizio del suo pontificato concentra ogni sforzo. Ieri la canonizzazione di quattro suore vissute tra il 1800 e l’inizio del ‘900, fra cui le prime due palestinesi, e con Abu Mazen seduto in prima, questo dice: l’alternativa alle divisioni è soltanto il negoziato. Certo, da Israele si è levata qualche critica per l’accoglienza al presidente palestinese — «Abbiamo bisogno tutti di angeli di pace, ma devono essere angeli veri e pace vera», ha commentato fra gli altri il rabbino di Roma Riccardo Di Segni — ma, come ha spiegato padre Federico Lombardi, portavoce vaticano, l’obiettivo non è far proprie le ragioni di una parte quanto «incoraggiare l’impegno per la pace». «Guardare con speranza al futuro » è, non a caso, la richiesta fatta dal Papa durante l’Angelus salutando le delegazioni presenti in piazza San Pietro, anche Israele.

«La Chiesa del silenzio non è più tale, parlerà attraverso la mia voce», disse Giovanni Paolo ad Assisi II il 5 novembre 1978, pochi giorni dopo l’elezione al soglio di Pietro. E oggi è Francesco a fare propria, attualizzandola, l’Ost- politik che fu di Wojtyla, intesa non più come dialogo con l’Oriente comunista bensì come dialogo globale, con tutti i protagonisti di quella “terza guerra mondiale” che oggi, come ha detto lo stesso Bergoglio sul volo di ritorno la scorsa estate dalla Corea, «si combatte a pezzi, a capitoli». Fra questi, il dossier più spinoso è il Medio Oriente, per il quale si conferma un attivismo vaticano del tutto simile a quello messo in campo anni fa per la Guerra Fredda. Le notizie parlano di intere popolazioni innocenti, e non soltanto cristiane, costrette alla diaspora. Il dialogo è a tutto campo, ma soprattutto con quelle parti in grado di intraprendere un’azione più incisiva per contribuire al raggiungimento di una pace duratura. La strada l’ha tracciata a Tv2000 il cardinale Parolin, quando ha ricordato che la firma di un accordo con lo stato di Palestina avvenuta due giorni fa «si colloca esattamente nell’ottica di contribuire in maniera concreta alla realizzazione di un disegno che permetterebbe a due popoli di avere un proprio Stato».
Accanto all’azione diplomatica c’è l’urgenza del dialogo interreligioso, «una priorità del ministero di Francesco », ha detto il suo “luogotenente” in terra “infidelium”, il cardinale francese Jean-Louis Tauran. Un dialogo che non cede, tuttavia, di fronte alla necessità di dire la verità. Di qui il coraggio di chiamare «genocidio» la deportazione armena nella Turchia d’inizio Novecento, ed anche il lavoro sfiancante ma efficace svolto a Cuba. Il Papa callejero sorvola sulle critiche che gli provengono dal mondo economico statunitense e media per il disgelo definitivo tra Stati Uniti e Cuba. All’ordine del giorno restano aperti anche i dossier asiatici, Cina in testa. Anche qui Francesco non ha mire di conquista. Soltanto la volontà del dialogo e dell’amicizia con le autorità civili «per trovare — ha detto ancora Parolin — la soluzione ai problemi che limitano il pieno esercizio della fede dei cattolici e per garantire il clima di un’autentica libertà religiosa».

Chiesa e Palestina cosa cambia col riconoscimento
Corriere 19.5.15
Il Vaticano, pochi giorni fa, ha riconosciuto lo Stato di Palestina. Il quotidiano spagnolo El País , diretto da Antonio Caño , sottolinea che il documento approvato da papa Francesco e dal presidente palestinese Mahmoud Abbas perora la soluzione dei due Stati. Ma c’è un altro aspetto da non trascurare: la Chiesa è preoccupata dall’esodo di cristiani dalla Palestina, in particolare da Betlemme. «Abbas — fa notare il giornale spagnolo — ottiene il riconoscimento, ma sa che, da adesso, dovrà dare risposte su vari fronti». 

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