martedì 23 giugno 2015

Dalla Guerra civile spagnola

A ferro e fuocoManuel Chaves Nogales: A ferro e fuoco. Eroi, belve e martiri di Spagna, La Nuova Frontiera. 

Risvolto

A ferro e fuoco è il titolo che Manuel Chaves Nogales ha dato a una raccolta di nove racconti sulla Guerra Civile Spagnola. Nelle pagine del libro l'autore ritrae con maestria un Paese che, dopo il crollo della Repubblica, è attraversato da bande di avventurieri che in nome dell'ideologia sono pronte a compiere le più nefande efferatezze. Nelle sue parole però non c'è nessuna traccia di un'ipocrita equidistanza, ma solo la tensione caratteristica del buon giornalismo che si batte per la ricerca della verità.
A ferro e fuoco è un'opera fondamentale, che s'inserisce nella tradizione di Omaggio alla Catalogna di George Orwell, necessaria ora più che mai per rileggere, sotto una nuova luce, la recente storia d'Europa.


Le parole disilluse 
Ritratti. «A ferro e fuoco. Eroi, belve e martiri di Spagna» dello scrittore sivigliano esce in Italia con La Nuova Frontiera. Ormai un classico moderno, il libro è composto da nove racconti sulla Guerra Civile e fa conoscere un autore sorprendente che solo l’uso improprio dei suoi scritti ha ridotto a santino della «terza Spagna» 

Francesca Lazzarato il Manifesto 23.6.2015
In un’Europa senza memo­ria chi si ricorda, oggi, dei campi di con­cen­tra­mento in cui set­tan­ta­sei anni fa la Fran­cia rin­chiuse gli spa­gnoli in fuga, dopo la defi­ni­tiva scon­fitta della Repub­blica?

«Disfatti, mal­ri­dotti, furiosi, schiac­ciati, con la barba lunga, non lavati, spor­chi, sudati, stan­chi» e tut­ta­via «il meglio della Spa­gna» (così li rac­conta Max Aub), nel giro di tre set­ti­mane quasi cin­que­cen­to­mila pro­fu­ghi var­ca­rono la fron­tiera a piedi o con mezzi di for­tuna e ven­nero poi sti­pate nei campi di Argelés-sur-mer, Barm, Gurs, Sain Cyprien e altri ancora, in con­di­zioni defi­nite atroci dallo scrit­tore catalano-messicano Jordi Soler, figlio e nipote di rifu­giati, che ha evo­cato sul quo­ti­diano El País la memo­ria di «una pagina oscura della sto­ria di Fran­cia can­cel­lata dalla sto­ria uffi­ciale», per poi aggiun­gere: «Sem­bra che nel modo di trat­tare i migranti operi una sini­stra sim­me­tria… I cada­veri sospinti dalla onde sulle spiagge di Lam­pe­dusa sono l’eco nefa­sta di quelli che gia­ce­vano, non troppo tempo fa, sulla spiag­gia di Arge­lés –sur-mer». 
Altri rifu­giati spa­gnoli, almeno die­ci­mila, fecero in senso inverso il viag­gio via mare che oggi com­piono i migranti, appro­dando in Nor­da­frica su navi come il mer­can­tile Stan­brook — il suo capi­tano sfidò la volontà degli arma­tori imbar­cando quasi tre­mila «clan­de­stini» per por­tarli da Ali­cante a Orano, verso un destino comun­que incerto — men­tre ven­ti­mila par­ti­rono per il Mes­sico gra­zie al governo di Lazaro Car­re­ter, che pra­ticò una straor­di­na­ria poli­tica di aiuto ed accoglienza. 

Un rifu­giato d’eccezione
Prima di quell’enorme esodo col­let­tivo, però, nei tre anni di un con­flitto duris­simo e com­bat­tuto ad armi impari c’era stato un lungo stil­li­ci­dio di par­tenze e addii. Tra gli altri, quello di uno dei migliori gior­na­li­sti spa­gnoli, Manuel Cha­ves Noga­les, nato a Sivi­glia nel 1897 e firma illu­stre di quo­ti­diani e rivi­ste come El Heraldo de Madrid, Estampa e Ahora, non­ché con­vinto soste­ni­tore della Repub­blica e del suo ultimo pre­si­dente, Manuel Azaña: non appena il governo repub­bli­cano tra­sferì la sua sede da Madrid a Valen­cia, nel novem­bre del 1936, Cha­ves decise infatti di rifu­giarsi a Parigi con la fami­glia e là rimase fino al 1940, quando, ricer­cato dalla Gestapo, partì for­tu­no­sa­mente per Lon­dra, dove sarebbe morto nel 1944 per una ful­mi­nea peri­to­nite. Non era, ovvia­mente, un rifu­giato «di lusso», ma d’eccezione sì: da inviato spe­ciale aveva rac­con­tato l’evolversi del regime sovie­tico come la nascita del nazi­smo e del fasci­smo, in seguito aveva diretto uno dei prin­ci­pali quo­ti­diani spa­gnoli ed era abba­stanza impor­tante e cono­sciuto per­ché, al suo arrivo, il governo fran­cese gli asse­gnasse un mode­sto appar­ta­mento e diversi gior­nali lati­noa­me­ri­cani e fran­cesi gli offris­sero di col­la­bo­rare (più tardi, in Inghil­terra, farà parte dell’agenzia di stampa Atlantic-Pacific Press). 
Cha­ves ebbe dun­que la for­tuna, pur tra le mille dif­fi­coltà dell’esilio, di potersi gua­da­gnare da vivere con il suo mestiere (e la sua pas­sione) di sem­pre, scri­vendo inces­san­te­mente non solo arti­coli, ma saggi assai acuti — per esem­pio «Ago­nia della Fran­cia», del 1941, dura testi­mo­nianza sul governo di Vichy, tra­dotto l’anno scorso in ita­liano da Hado Lyria per Neri Pozza – che anda­vano ad aggiun­gersi ad altre sue opere di suc­cesso, come La vuelta a Europa en avión. Un pequeño bur­gués en la Rusia roja, del 1929, e ancora El mae­stro Juan Mar­tí­nez que estaba allí, del ’34, o Juan Bel­monte mata­dor de toros (Neri Pozza 2014), splen­dida bio­gra­fia di un famo­sis­simo torero. 
Appena arri­vato a Parigi, inol­tre, scrisse «a caldo» nove rac­conti sulla guerra civile desti­nati al quo­ti­diano argen­tino La Nación , che nel ’37, col titolo di A san­gre y fuego. Héroes, Bestias y már­ti­res de España, furono rac­colti in volume da un edi­tore cileno per essere subito tra­dotti negli Stati Uniti e in Canada: un testo ormai giu­di­cato fon­da­men­tale in seno alla pur vastis­sima let­te­ra­tura su un tema ine­lu­di­bile, e che tut­ta­via in Spa­gna rimase pra­ti­ca­mente ignoto fino al 1993, quando le opere com­plete di Cha­ves ven­nero pub­bli­cate a cura di María Isa­bel Cin­tas Guil­lén, stu­diosa sivi­gliana che si è dedi­cata alla risco­perta dell’autore, ormai del tutto dimen­ti­cato.
Toc­cherà poi ad Andrés Tra­piello inclu­dere il pro­logo di A san­gre y fuego nel suo discusso sag­gio Las armas y las letras. Lite­ra­tura y guerra civil, con­tri­buendo così all’attuale for­tuna edi­to­riale degli scritti di Cha­ves Noga­les, ripro­po­sti in que­sti anni: un suc­cesso con­sa­crato sia dalla cri­tica che dall’attenzione di scrit­tori auto­re­voli come Anto­nio Muñoz Molina, grande esti­ma­tore del gior­na­li­sta sivi­gliano.
Dive­nuto rapi­da­mente un «clas­sico moderno» di cui ven­gono rico­no­sciute la qua­lità este­tica e il forte impatto emo­tivo, A san­gre y fuego esce oggi in ita­liano gra­zie all’editore La Nuova Fron­tiera, nell’accurata tra­du­zione di Elisa Tra­mon­tin (A ferro e fuoco. Eroi, belve e mar­tiri di Spa­gna, pp. 327, euro 16): un libro sor­pren­dente, uscito giu­sto in tempo per rin­fre­scare la memo­ria col­let­tiva in vista dell’ottantesimo anni­ver­sa­rio della Guerra Civile, che cade l’anno prossimo. 

Armi affi­late della let­te­ra­tura
Da «Mas­sa­cro, mas­sa­cro!», sui bom­bar­da­menti di Madrid, a «E in lon­ta­nanza, una lucina», con la sua cac­cia a una rete di spia falan­gi­ste che comu­ni­cano tra loro gra­zie a segnali lumi­nosi, fino a «I guer­rieri maroc­chini» e «Le gesta dei cava­lieri», dove la stu­pi­dità e la vio­lenza senza scampo della guerra, di qual­siasi guerra, sem­brano riscat­tate dal fugace incon­tro tra nemici che non rie­scono a rin­ne­gare la pro­pria uma­nità, le sto­rie di Cha­ves Noga­les testi­mo­niano del talento di un gior­na­li­sta fedele al motto di Robert Capa («Se la foto rie­sce male, vuol dire che non eri abba­stanza vicino»), che osserva e descrive quanto lo cir­conda con un lin­guag­gio pulito e inci­sivo, ma che allo stesso tempo fre­quenta, soste­nuto da una indi­scu­ti­bile ambi­zione let­te­ra­ria, altri ter­ri­tori del narrare. 
In A ferro e fuoco Cha­ves è senz’altro più scrit­tore che gior­na­li­sta e, pur soste­nendo che ogni sto­ria si ispira a un fatto vero, per rac­con­tarla ricorre a tutte le armi della let­te­ra­tura, avvince il let­tore con una prosa asciutta, quasi alla Heming­way, esi­bi­sce una note­vole cura per il lin­guag­gio, ricorre a dia­lo­ghi che ripro­du­cono fedel­mente la par­lata popo­lare, semina imma­gini fol­go­ranti, dise­gna pae­saggi con pochi ed effi­ca­cis­simi toc­chi e non scorda di aver pro­dotto a suo tempo anche una sorta di romanzo popo­lare e sen­ti­men­tale, La bol­che­vi­que ena­mo­rada (El amor en la Rusia roja), pub­bli­cato a pun­tate sulla rivi­sta Estampa. E, soprat­tutto, ci stu­pi­sce per la sua moder­nità, gra­zie a quell’abile intrec­cio tra fic­tion e non fic­tion che sem­bra una carat­te­ri­stica fon­da­men­tale della nar­ra­tiva con­tem­po­ra­nea e che fa di lui un espo­nente ante lit­te­ram della cró­nica, genere tra­sver­sale oggi inten­sa­mente pra­ti­cato e di ori­gini più remote di quanto si tenda ad ammettere. 
Quello che i suoi ese­geti non man­cano in risalto è il punto di vista rela­ti­va­mente inso­lito, in seno alla grande nar­ra­zione della guerra civile, di qual­cuno che si dichiara estra­neo a entrambe le parti, per lui acco­mu­nate da una mede­sima bar­ba­rie, e che nel pro­logo dà conto dei motivi di quella che potrebbe sem­brare una fuga: «Anti­fa­sci­sta e anti­ri­vo­lu­zio­na­rio per tem­pe­ra­mento, mi rifiu­tavo siste­ma­ti­ca­mente di cre­dere nelle virtù sal­vi­fi­che della grandi sol­le­va­zioni e aspet­tavo lavo­rando, fidu­cioso nel corso fatale delle leggi dell’evoluzione. Ogni rivo­lu­zio­na­rio, con il dovuto rispetto, mi è sem­pre sem­brato dele­te­rio come qual­siasi rea­zio­na­rio (…). Nella mia diser­zione pesava tanto il san­gue sparso dagli squa­droni di assas­sini che semi­na­vano il ter­rore rosso a Madrid quanto quello ver­sato dagli aerei di Franco, che hanno ammaz­zato donne e bam­bini innocenti». 

Le pole­mi­che mai sopite
Que­sta dichia­ra­zione non di equi­di­stanza, ma di visione della guerra civile in linea con le con­vin­zioni di un «pic­colo bor­ghese libe­rale, cit­ta­dino di una repub­blica demo­cra­tica e par­la­men­tare» (così si auto­de­fi­ni­sce Cha­ves nel pro­logo) e con quelle della mino­ranza libe­rale che comun­que aveva cre­duto nella Repub­blica e le era rima­sta fedele, è stata però usata da alcuni (e in par­ti­co­lare da Tra­piello) per for­nire soste­gno alle tesi che pro­pu­gnano l’esistenza di una «terza Spa­gna», cioè di una mag­gio­ranza silen­ziosa e impo­tente tra­sci­nata, lo volesse o no, in un cruento scon­tro fra­tri­cida da due mino­ranze fana­ti­che, due «oppo­sti estre­mi­smi» votati a ideo­lo­gie diverse ma spe­cu­lari e iden­ti­ca­mente tota­li­ta­rie. Di que­sta terza Spa­gna (della quale, non dimen­ti­chia­molo, tentò di accre­di­tarsi come rap­pre­sen­tante e inter­prete il primo Aznar, quello degli anni ’90), Cha­ves Noga­les rischia oggi di tra­sfor­marsi in una sorta di san­tino, ben al di là delle sue inten­zioni, del suo disa­gio di fronte agli eccessi di entrambe le parti, e della sua spe­ranza delusa in «…uno Stato in cui sia pos­si­bile la con­vi­venza umana tra cit­ta­dini di idee diverse e la nor­male rela­zione con gli altri stati». Attorno ai rac­conti di A ferro e fuoco, e soprat­tutto al cita­tis­simo pro­logo, si è così svi­lup­pata una pole­mica che, pur rico­no­scendo l’interesse ogget­tivo e il valore dell’opera, ha cri­ti­cato viva­ce­mente la let­tura in chiave più o meno revi­sio­ni­sta di Tra­piello e altri, e che tra­spare anche nel ’corto’ El hom­bre que estaba allí rea­liz­zato nel 2013 da Daniel Suber­viola e Luis Felipe Tor­rente e dedi­cato alla vita e all’opera del giornalista. 
Tra i tanti che hanno pole­miz­zato con quello che Anto­nio Muñoz Molina ha defi­nito cha­ve­sno­ga­li­smo, ci sono anche il cri­tico José Luis Gar­cía Mar­tín, che non ha man­cato di sot­to­li­neare le ine­sat­tezze e le con­trad­di­zioni del famoso pro­logo, e lo sto­rico Fran­ci­sco Espi­nosa Mae­stre, che ha dedi­cato una lunga e pun­tuale ana­lisi a Cha­ves Noga­les e all’uso che si è fatto di alcuni dei suoi scritti, per «offrire una visione nega­tiva e cao­tica della Repub­blica e farci cre­dere che la guerra, in cui tutti furono uguali, fu ine­vi­ta­bile». E, nell’accingersi a leg­gere A ferro e fuoco, que­ste parole non vanno dimenticate.

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