martedì 6 ottobre 2015

Il romanzo di Claudio Magris

Claudio Magris: Non luogo a procedere, Garzanti

Risvolto
In questo romanzo violento, tenero e appassionato, Claudio Magris si confronta con l'ossessione della guerra di ogni tempo e paese, quasi indistinguibile dalla vita stessa: una guerra universale, rossa di sangue, nera come le stive delle navi negriere, cupa come il mare che inghiotte tesori e destini, grigia come il fumo dei corpi bruciati nel forno crematorio della Risiera di San Sabba, bianca come la calce che copre il sepolcro. Non luogo a procedere è la storia di un grottesco Museo della Guerra per l'avvento della pace, delle sue sale e delle sue armi, ognuna delle quali racconta vicende di passione e delirio; è la storia dell'uomo che sacrifica la vita alla sua maniacale costruzione, per riscattarsi alla fine nell'accanita ricerca di un'orribile verità soppressa; è la storia di una donna, Luisa, erede dell'esilio ebraico e della schiavitù dei neri. Con una narrazione totale e frantumata, precisa e insieme visionaria, Magris scava con ferocia nell'inferno spietato delle nostre colpe, e racconta l'epos travolgente di tragedie e silenzi dell'amore e dell'orrore. 

Guerre e pace 
Memoria dell’orrore e delitti senza giustizia Due anime inquiete scavano nei segreti di Trieste sotto il Reich 
6 ott 2015  Corriere della Sera di Corrado Stajano 
Un gran libro. L’ha scritto Claudio Magris, si intitola Non luogo a procedere. Racconta l’ossessione di un uomo che per decenni colleziona armi, fucili, mitraglie, cannoni, aerei e divise militari. Non è mai sazio, possiede un U-Boot della Marina imperialregia, vorrebbe l’elmetto tedesco che aveva in testa Mussolini quando fu catturato dai partigiani a Dongo, desidererebbe un T-34, il carro armato che con il suo cannone da 76,2 millimetri salvò la Grande Madre Russia quando Hitler l’attaccò a sorpresa nel 1941. È un archivista della guerra, non perché ami i suoi orrori, ma, al contrario, perché ritiene la pace il bene sommo dell’umanità, convinto che il sogno del suo Museo, da costruire a Trieste, sia un potente modo per ricordarlo. 

L’uomo, un professore, è veramente esistito, viveva in un capannone gremito dei suoi ordigni, dormiva in una lunga bara, morì nel 1974 in un rogo misterioso che distrusse buona parte dei suoi cimeli. Nonostante i processi, non si seppe mai la verità. Sparirono anche i suoi preziosi taccuini su cui aveva annotato fatti e misfatti, tra l’altro le scritte che i morituri avevano lasciato sui muri della Risiera di San Sabba, l’unico lager nazista in Italia dove, in una vecchia fabbrica rossastra e nerastra alla periferia di Trieste, funzionò, tra il 1943 e il 1945, un forno crematorio, dove furono gasati con il Zyklon B migliaia di partigiani italiani e jugoslavi, ebrei, antifascisti e molti altri furono torturati, sgozzati, uccisi a colpi di mazza sulla nuca. 

Le scritte dei deportati sulle pareti degli stanzoni della Risiera e sui muri delle 17 celle furono poi cancellate, calcificate, ma il professore (Diego de Henriquez) le aveva ricopiate — sui taccuini scomparsi — in dialetto, in italiano, in sloveno, testimonianze delle ultime ore dei prigionieri. Tra quei graffiti potevano esserci anche i nomi delle spie, dei traditori, dei doppiogiochisti, dei profittatori che li avevano denunciati e fatti condannare a morte. Il mistero non ha mai avuto risposta. 
A Claudio Magris quella storia dev’essere rimasta da sempre negli occhi e nel cuore. Il suo romanzo prova nel profondo come la realtà sia creatrice: è un poema epico, politico, religioso, poetico, nutrito di tormento, di dolore, di spirito d’avventura, di morte. Una sorta di giudizio universale. Non è un libro verità, ma un romanzo, segno di alta letteratura che fa sembrare ancora più mediocri gli autoreferenziali romanzetti da pianerottolo di moda oggi. 
Il libro di Magris, unico nella sua struttura, senza modelli, si legge con la voglia di sapere alla fine di ogni pagina quel che accade nella pagina che viene dopo. È anche un alberone con tanti rami, una matrioska delle meraviglie e delle nequizie. Nella sua pancia, infatti, si incrostano un’infinità di romanzi, racconti, storie che poi si ricompongono in unità di stile. Come ogni romanzo storico è popolato da personaggi d’invenzione, la bella color ebano, «la più rara e preziosa delle perle», e uomini in carne e ossa: il vescovo Santin, fatto rivivere in un mirabile ritratto, le SS delle polizie naziste — Sicherheitsdienst, Sonderkommando —, il soldato Otto Schimek e la difficile ricerca della verità e don Edoardo Marzani, torturato a San Sabba, scampato alla ciminiera, che, libero, diede il segnale dell’insurrezione facendo suonare tutte le campane della città. 
Il romanzo — costato al suo autore la fatica di anni — ha per protagonista, anzitutto, il lui senza nome, «un imbarazzante maniaco o un arcangelo della giustizia e anche della vendetta», e poi Luisa, il controcanto di grande fascino. È la giovane donna che riceve l’incarico di elaborare il progetto del Museo, il grande Museo del mondo offeso, si potrebbe dire. Con lei sua madre Sara, l’ebrea triestina che non riesce a cancellare il rimorso di essere sopravvissuta alla Shoah, e il padre, il sergente afroamericano Brooks, arrivato a Trieste con la 92ª Divisione di fanteria di soldati neri che, salvatosi dalla ferocia della guerra, morirà in un banale incidente sulla pista dell’aeroporto di Aviano. «Il volto del padre poteva rivelare una tristezza ancora più profonda, più antica: una storia anch’essa di schiavitù in Egitto e di cattività babilonese, di Galuth, di esilio, che risaliva ai tempi remoti e si dilatava in spazi non meno vasti di quelli in cui i figli di Israele si erano sparsi per tutta la terra. Come apparivano sfuocate, banali, rispetto alla faccia nera di suo padre e a quella di sua madre dai grandi occhi obliqui come lune (...) le facce degli altri, dei conoscenti che si incontravano in ufficio o a cena». 

Luisa ha il compito di dare un ordine ai materiali informi, alla babele di oggetti ammucchiati, dai carri armati alle sciabole alle giberne ai libri degli scienziati della guerra, Sun Tzu, Raimondo Montecuccoli, Carl von Clausewitz, Mao Zedong, Giap. Non è un’impresa facile. 

Nella sala n. 8 pensa di collocare un cassone che contiene le marmitte per le cucine da campo: «Mangiare carne, palpare carne, macellare carne. Non si fa economia di carne ai festini della morte». 
Nella sala n. 11 pensa di collocare la mitraglietta Saint-Étienne, mod. 1907, cartucce da otto millimetri: «Gli ufficiali che ordinano di puntare la mitragliatrice non hanno occhi per i soldati che se la caricano in spalla, la sistemano, puzzano e crepano in trincea». 
Nella sala n. 22, la più grande, pensa di collocare un obice da 305/17, 33,8 tonnellate, usato a Caporetto, poi dal generale Franco in Spagna e, di nuovo, nella Seconda guerra mondiale: «Mostra una specie di enorme sella, sella gigante di un cavaliere dell’Apocalisse, colossale ma goffo bersaglio di morte più che sterminatore». 
Il museo immaginario diventa un libro stampato, le sale sono i capitoli della vita e della morte. Magris parte sempre da un punto, poi cala negli inferi della memoria e racconta brandelli di storia patria e universale. Dall’attentato a Reinhard Heydrich, uno dei pianificatori della soluzione finale, giustiziato dai paracadutisti cechi nel 1942 a Praga, alla strage di Lidice ordinata da Hitler per rappresaglia; dalla mazza di legno degli Zapote (III secolo d.C.), la Macuahuitl, in uso presso gli Aztechi, a San Juan de Puerto Rico ai Conquistadores, agli arrembaggi, ai naufragi, ai tesori, alle canzoni creole; dalle scarpe del partigiano titino abbandonate su un marciapiedi — «una bandiera, la bandiera del vincitore, assai più di quel pomposo vessillo che poco più tardi, mitra alla mano, i titini imporranno sulle finestre del municipio» — al berretto con la stella rossa di un partigiano del IX Corpus raccolto in via Rossetti, agli spari di tutti contro tutti nell’aprile 1945. I titini disarmano i partigiani italiani, i comunisti sparano sugli antifascisti del Cln, i nazisti non se ne sono ancora andati e fucilano 11 italiani per rappresaglia. Un inferno di morte, altro che la libertà sognata.

Trieste, cerimonia militare nazista davanti al Palazzo di giustizia, 1944 (foto dall’archivio dell’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia)
La Storia, nel romanzo, è protagonista. Per Claudio Magris, che ha ricreato e scritto i famosi taccuini andati perduti, non è di certo maestra di vita: «La Storia è una crosta di sangue»; «Il treno della Storia ha un alito cattivo»; «La Storia è un libro tavolare, come vengono chiamati a Trieste i registri immobiliari col vecchio termine in vigore nell’Austria Absburgica»; «La Storia è una discarica di rifiuti»; «La Storia è un elettroshock»; «Quanti miliardi di miliardi di cellule e di connessioni ha la Storia? “Per la sua estensione”, dice il referto della risonanza, “il tumore è giudicato inoperabile”»; «Tutta la Storia umana è un raschiamento della coscienza e soprattutto della coscienza di ciò che sparisce».
Ma è la Risiera di San Sabba, «prova generale dell’inferno», a pesare nel cuore più segreto di questo libro, ombra cupa, cappa di piombo, di fuoco e di morte. Quel fumo del camino non ha smesso di intossicare il mondo. Claudio Magris ha scritto grottesche pagine su una festa al Castello di Miramare dalle bianche torri il 20 aprile 1945, alla vigilia della fine di quel che allora inquinò il mondo. Sta per sfaldarsi tutto, ma il supremo commissario del Litorale Adriatico, il gauleiter Friedrich Rainer, apre il suo ricevimento urlando contro la Slavia rossa, e levando il bicchiere alla salute del Führer che ha pochi giorni di vita. Plaudono generali cosacchi, cetnico-serbi, transfughi in nome della lotta contro il bolscevismo. E con loro alzano gli ultimi calici tedeschi, croati, sloveni. Una tragedia mascherata. Gli italiani, poi, il prefetto Coceani, il federale Sambo che parla servilmente in tedesco, gli armatori, i costruttori, gli assicuratori, il vicepresidente degli industriali che legge un caloroso messaggio alla grande Germania del presidente. I vantaggi non sono mancati neppure in quegli anni foschi. Sieg Heil.
Dopo il pranzo, nella sala delle udienze, gli ospiti lasciano le tavole imbandite, gli ufficiali con le giubbe sbottonate, i borghesi con la faccia resa lucida dai brindisi. Vanno su e giù per il Castello, la Sala della rosa dei venti, la Sala dei gabbiani, la Sala del trono dove l’arciduca Massimiliano non fece in tempo a sedere. E poi nel parco, a passeggiare tra le araucarie, le azalee e i ginko biloba, canticchiando in tedesco «La Paloma», strofinandosi a vezzose signore accanto alla copia della Venere di Milo. Il fumo intanto seguitava a uscire dal camino della Risiera, vicino allo stadio.
«Avvoltoi e iene di tutto il mondo unitevi, ignari di essere invece carogne e carcasse il cui fetore sta già richiamando i necrofori», scrive Magris.
A Trieste dopo la guerra non si parlò di quel che era accaduto nella Risiera di San Sabba. Anni di silenzio, di rimozione. Anche i poeti senza colpe tacquero. I nazisti se ne andarono e si rifecero la vita con pochi danni, i repubblichini ancor meno, qualcuno prese persino la medaglia al valore. I collaborazionisti, i doppiogiochisti, i responsabili delle spiate, i signori della città, anche non collusi con i nazifascisti, stettero zitti come i loro colleghi che avevano tratto sinistri guadagni nei traffici di quegli anni.
I processi furono insufficienti, mancò la pressione e la forza di un’opinione pubblica consapevole. Non luogo a procedere sembra davvero la voce della giustizia mancata, il debito che una comunità paga dopo più di settant’anni, il grido del bambino innocente di allora, diventato un grande scrittore, che invita a non dimenticare quel mondo corrotto e inconciliabile.      

COME POTREMMO CANTARE NOI ESULI LE CANZONI DI SION IN TERRA STRANIERA?
6 ott 2015 Corriere della Sera Di Claudio Magris
Che cosa potevano essersi detti, il sergente americano sopravvissuto illeso alle granate tedesche che sembravano piovere lungo la linea gotica sulla Buffalo Division, 92 Infantry Division, il primo reparto formato interamente da soldati afroamericani, e arrivato poi con l’88a divisione nella città adriatica sospesa in un vuoto storico — Tlt, Territorio libero di Trieste, Terra di nessuno, caricatura della storia — e l’ebrea triestina che talora sembrava vergognarsi di essere scampata alle mazze ferrate e alla ciminiera di San Sabba, vergognarsi soprattutto di quella sua adolescenza felice a Salvore, di quel mare e di quel vento e di quel profumo di mare e di pini in cui lei sfrecciava come un gabbiano, mentre dall’altra parte del golfo si levava — chissà, si chiedeva talvolta Luisa, se, aguzzando lo sguardo, lo si sarebbe potuto vedere, probabilmente no, ma... — quel fumo che era anche sua nonna e pure chi era diventato fumo per colpa di sua nonna. Dalle piccole finestre di via Tigor, rivolte verso la collina di San Vito, dove anni dopo il rogo avrebbe scagliato il Museo e il suo demiurgo nell’invertitore, non si vedeva il mare. Sua madre l’aveva scelto — diomio, non è che avesse grandi possibilità di scegliere — perché non si vedeva il mare che da quella sera sulla terrazza con Ester le faceva male guardare. Già, anche lei aveva finito per detestare il mare — per detestarlo ancora più di quanto lo detestasse quell’altro capace di amare solo il ferro e il fuoco, perché lei lo aveva amato più di ogni altra cosa, e si odia più di ogni altra cosa ciò che si è amato e che non si può più amare.
Quella sera sono entrata dal niente nella storia del mondo, pensava Luisa mettendo a posto le carte. Non immaginava, non voleva immaginarsi quella sera, per il pudore dei figli cui disturba pensare ai genitori come amanti e che passano oltre a questo irritante e in fondo poco credibile pensiero; la storia della cicogna, in certi casi, non è poi così stupida. La disturbava pure chiedersi se si erano amati; se si amavano, anche se certi sguardi che aveva colto per caso, come un gabbiano coglie un pesce che guizza sull’acqua, le facevano pensare di sì; tenero sguardo, quasi teneramente canzonatorio quello di lui, un sorriso appena abbozzato, neanche un sorriso, l’attimo prima di un sorriso, una leggerezza per eludere la passione, mentre lei ritraeva lo sguardo dai suoi occhi e fissava un punto lontano, dura, ma una durezza che cedeva, che a poco a poco si abbandonava, le labbra lievemente dischiuse, un bacio a fior di bocca, una dolcezza — severa, sì, ma dolcezza — altrimenti ignota a quel viso.
Il volto del padre poteva talora rivelare una tristezza ancora più profonda, più antica; una storia anch’essa di schiavitù in Egitto e di cattività babilonese, di Galuth, di esilio, che risaliva a tempi remoti e si dilatava in spazi non meno vasti di quelli in cui i figli di Israele si erano sparsi per tutta la terra. Come apparivano sfuocate, banali, rispetto alla faccia nera di suo padre e a quella di sua madre dai grandi occhi obliqui come lune — o anche rispetto allo sguardo affettuoso ma insondabile di zio (prozio, per l’esattezza) Giorgio sotto le folte sopracciglia bianche — le facce degli altri, dei conoscenti che si incontravano in ufficio o a cena, facce di attori ignari che esistano altre parti, nel destino, oltre quelle che stanno recitando, caratteristi ora slavati ora un po’ gigioni, maschere di quel teatro del mondo cui si erano abbonati sperando in un posto in palco.
Ecco, sarebbe stata curiosa di sapere che cosa avevano potuto dirsi all’inizio, prima di rendersi conto, o senza ancora volere rendersene conto, di ciò che sarebbe successo, che stava già succedendo. Per fortuna esistono le frasi di circostanza, i convenevoli, le regole della buona educazione, quella lingua asettica e innocua in cui si traducono gli opachi imbarazzi del cuore, anche quando non si è traduttori di professione. Ma parlare, dire la parola che salva... Come potremmo cantare le canzoni di Sion in terra straniera? Lingue tagliate di esuli che hanno in comune solo ciò che loro manca, un proprio posto nel mondo, e che si riconoscono toccandosi nel silenzio e nel buio, come prigionieri in una cella, o nel respiro affannoso per il lungo errare. Dere’s no hidin’ place down dere, I’m burnim too. Come potremmo cantare le canzoni di Sion in terra straniera? Non c’è posto dove nascondersi, anch’io brucio. Eppure hanno, abbiamo saputo cantarle, pensava Luisa, go down Moses tell old Pharao to let my people go e il popolo se ne è andato per il mondo, spesso inospitale quanto la prigione.
Deep river, il fiume Giordano è largo e profondo, ancora un fiume da attraversare, sempre ancora un fiume da attraversare, la Terra promessa sempre dall’altra parte. Le stesse canzoni, canzoni di tribù perdute, dieci di Israele, innumerevoli d’Africa; non c’è posto dove nascondersi aldiqua o aldilà del fiume e del mare, sotto il sole feroce che espone la preda al cacciatore. Corri negro corri, anch’io brucio, traversata del deserto, il treno blindato corre a Treblinka, il fetore dei corpi ammucchiati e della stagnante nuvola dei loro respiri è già quell’odore acido che avvertiranno fra poco smettendo per sempre di sentirlo un attimo dopo. Il treno della Storia ha un alito cattivo, pure le SS ne sono nauseate, non è piacevole per nessuno, anche se dà soddisfazione vedere come gli ebrei puzzano. Dunque è vero quello che si è sempre detto, adesso che non possono più spandersi unguenti e altre porcherie d’Oriente si vede come sono sporchi, anche quando vengono spinti sotto quelle docce restano sporchi. L’alito non è più cattivo, è vero, perché non c’è più alito che esca dalla bocca ma l’odore di tutta quella massa ammucchiata è disgustoso, per fortuna le squadre sono all’opera e il forno, il fuoco che purifica ogni sudiciume, è subito in azione.      


L’elettroshock della Storia
Una Mitteleuropa come «non luogo» dell’unico campo di sterminio italiano. Un romanzo verità pieno di speranza

Cesare De Michelis Domenicale 18 10 2015
A Trieste, negli interminabili decenni di un dopoguerra che non voleva finire e che è durato oltre ogni ragionevolezza, «un geniale e irriducibile» personaggio di vasta cultura è accanita passione, il professor Diego de Henriquez, raccoglieva strumenti di guerra di ogni genere -dai sommergibili alle baionette- con l’obiettivo di costruire una sorta di museo dell’orrore che tenesse ben vivo il desiderio di pace: è da qui che è partito Claudio Magris per esplorare la memoria rimossa della sua città, centro esemplare di un inestricabile incrocio di culture e civiltà, di popoli e lingue, nello scenario mitteleuropeo, ma anche gorgo terribile di odi e violenze durante il secolo scorso, cosicché, ogni volta si scavi un po’ a fondo, si rischia di perdersi in un groviglio di colpe e vergogne senza verità.

Simbolo di ogni ignominiosa smemoratezza è la Risiera di San Sabba, lo stabilimento per la pilatura del riso trasformato nel 1944 nell’unico campo di sterminio attivo in Italia, dove morirono nel forno crematorio migliaia di deportati, la cui storia, nonostante qualche significativa ricerca di anni recenti, resta avvolta nelle nebbie della dimenticanza e i cui responsabili sono rimasti per sempre impuniti: Henriquez aveva anche trascritto gli estremi messaggi delle vittime incisi sulle pareti delle celle ma poi cancellati da una provvidenziale e riparatoria ridipintura, trascrizioni peraltro scomparse in un misterioso incendio dell’archivio del professore.
Sin dal titolo - Non luogo a procedere - Magris annuncia la sconfitta cui è destinato ogni viaggio nella coscienza inseguendo verità e giustizia, perché la storia, quella grande e incombente come le mille altre minime che sembrano a portata di mano ma poi sfuggono altrettanto impenetrabili, si rivela tutt’altro che una rassicurante magistra vitae, anzi, «una discarica di rifiuti», «un elettroshock», «una crosta di sangue», «un raschiamento della coscienza», che confonde idee e sentimenti, straniante al punto di lasciarci senza parole di fronte a un orrore senza consolazione.
Eppur, in questa anabasi fino alla sorgente di ogni male, Magris, anche rispetto agli umori dionisiaci e notturni dei suoi testi più recenti, niente concede al pessimismo o alla disperanza, anzi abbandona gli accenti lirici e abbacinanti di ogni poesia del dolore per ritrovare il respiro generoso e rassicurante, ampio e suasivo, del racconto epico, che, come un fiume che attraversa un continente, raccoglie lungo il percorso la storia e la politica, gli uomini e le cose, la poesia e la religione, trascinandoli a valle in una corsa composta e prudente che sa bene in che mar grando deve andare a finire: insomma, se ognuno di noi può smarrirsi nel cammino solitario, tutti insieme - non folla, né massa, ma più nobilmente umanità - possiamo attraversare la notte e l’inferno conservando fiducia e speranza.
Magris mescola spregiudicatamente le imprese reali del professore con la presenza di personaggi sapientemente inventati, ritrovati in una propria memoria, personale e segreta, soprattutto femminili, come Luisa, cui è affidato l’ordinamento del Museo, che mescola competenza e passione, prudenza e costanza, e persino il colore della pelle della madre triestina e del padre nero americano, frenando le ansie che pur la tormentano senza vincerla: in questa figura davvero luminosa, che mai si perde d’animo, in questa Beatrice che ci accompagna nel viaggio tra i mostruosi reperti di una storia terribile e imperdonabile, si riassume non l’ebete innocenza dell’ignoranza, ma la cosciente determinazione ad andare oltre ogni male, assecondando il respiro della vita, il suo perenne rinnovarsi anche nella sofferenza delle metastasi che ti devastano, tanto «vivere vuol dire sopravvivere».
L’amore nella storia di Luisa è all’origine di ogni cosa, della stessa vita, della sfida di ognuno al destino, d’una «sufficiente» felicità, dell’aprirsi coraggioso «su tutto ciò che manca»; è quella forza che cresce persino allontanandosi, quando diventa consapevole dei suoi limiti, della propria impotenza a confondere i destini dell’uno e dell’altra: le pagine che Magris dedica all’amore che dura oltre se stesso sono tra le più alte e commosse che ha scritto e basterebbero da sole a rendere questo romanzo indimenticabile.



Nessun commento: