sabato 21 novembre 2015

105 anni di Gillo Dorfles

bookGillo Dorfles: Gli artisti che ho incontrato, Skira

Risvolto
L’arte del XX secolo vissuta e raccontata in prima persona dal grande critico.
 L’idea di raccogliere in un unico volume tutta la sapienza critica di Gillo Dorfles in campo artistico offre l’occasione per indagare pittura e scultura contemporanee con la chiarezza e la partecipazione con le quali l’autore ha saputo penetrare nella personalità di ogni singolo artista. 
Una vasta raccolta di scritti, dal 1930 (quando il giovane Dorfles inizia un’assidua collaborazione con “L’Italia Letteraria” e “Le Arti Plastiche” recensendo mostre milanesi e romane) agli anni Cinquanta e Sessanta – ricchi di fermenti artistici che vedono Dorfles acuto osservatore sulle prestigiose pagine di “Domus” e “Metro” – che arriva fino ai giorni nostri. Questo volume offre al lettore l’opportunità di scegliere con facilità un approfondimento sui lavori dell’artista di affezione nell’ottica competente di un grande critico.
Gillo Dorfles, critico d’arte, pittore e filosofo. Docente di estetica, si è impegnato in un’appassionata difesa dell’arte d’avanguardia, imponendosi come una delle personalità più attente agli sviluppi artistici ed estetici contemporanei. Tra le opere più note, tradotte in molte lingue, ricordiamo Nuovi riti, nuovi miti (1965), Artificio e natura (1968), Le oscillazioni del gusto (1970), Elogio della disarmonia (1986), L’intervallo perduto (1988), Preferenze critiche (1993).
“Il privilegio d’aver 105 anni? Ho conosciuto Svevo”
“Per capire l’arte bisogna innanzitutto esercitare lo sguardo e girare i musei. E poi aiuta leggere i miei libri, tutti”Francesco Rigatelli  Tuttolibri 21 11 2015
Ha compiuto 105 anni. Gillo Dorfles mi riceve per cortesia fuori dalla porta di casa, al piano alto di uno scuro palazzo novecentesco milanese ai margini del centro. La casa del principe dei critici d’arte è a metà tra un archivio di carte e un deposito di quadri. Le lampadine sono quelle fioche di una volta. Sorvegliati da un Fontana rosa alla parete, ci sediamo a un tavolo di noce con Luigi Sansone, che la casa editrice Skira descrive come l’angelo custode del grande esteta e il curatore dell’opera monumentale Gli artisti che ho incontrato. Ultima zampata di Dorfles con la mostra su di lui a cura di Achille Bonito Oliva, che inaugura venerdì al Macro di Roma. Nell’intervista sui suoi gusti lo scopritore della modernità nell’arte non fa nomi per discrezione, per non ingelosire nessuno e per rimandare ai suoi scritti, esibisce il tratto mitteleuropeo da triestino elegante e a volte nichilista, vanta il risultato «di essere sempre riuscito a fare quello che mi piaceva» e se ne esce ogni tanto così: «Se vuole un superalcolico me lo dica: ne ho parecchi!».
Dorfles, cos’è per lei l’arte contemporanea?
«Se uno potesse rispondere a questa domanda non ci sarebbe più arte».
Lei come la riconosce? In base a cosa capisce se è arte o no?
«Per la sensibilità estetica che viene dimostrata dall’artista. Chi più, chi meno. Se uno per professione si occupa dell’argomento si spera abbia una capacità maggiore degli altri. E che si noti».
Cosa la colpisce di un artista nuovo?
«Questa è una domanda di psicologia a cui io, psichiatra di formazione, non posso rispondere. Certo per me viene prima la persona che l’artista».
Così veniamo ai suoi inizi. Qual è la sua formazione?
«Sono laureato in Medicina e specializzato in psichiatria».
E com’è avvenuto il trasferimento nel mondo dell’arte?
«In realtà ho scritto i miei primi articoli a 18 anni sull’argomento. Il che non toglie il mio interesse per la neurologia, pur mai esercitato».
Perché non ha fatto il medico e ha scelto la critica d’arte?
«Per generosità verso i possibili pazienti. Mi sono reso conto che sarei stato un pessimo dottore».
La Trieste della sua gioventù?
«Vi sono nato e vi sono rimasto fino a quando mi sono trasferito a Roma per l’università. Poverina, Trieste era una città più speranzosa di oggi, che si aspettava dall’Italia molto più di quanto ha avuto. Da parecchi anni casa mia è Milano, dove vivo in questo archivio di quadri regalatimi dagli artisti che ho scoperto».
Lei stesso è un artista.
«Ho dipinto fino agli Anni 60 poi mi sono distratto insegnando Estetica a Milano e a Cagliari, ma in realtà non ho mai smesso e ho fatto diverse mostre. E’ la mia professione, l’ho svolta più o meno bene ma continuamente. L’ultimo quadro è di quest’estate».
Di cosa narra?
«Non racconta niente, perché non faccio quadri narrativi ma pittorici. Certe volte astratti, altre no».
A cosa si ispira quando dipinge?
«A me stesso ovviamente. Senza alcuna definizione. Dipingo quello che ho dentro e le stagioni non mi influenzano».
Con Gianni Monnet, Bruno Munari e Atanasio Soldati ha fondato il Movimento per l’arte concreta.
«Volevamo un astrattismo depurato e razionalizzato contro l’arte figurativa. Durò cinque o sei anni poi negli Anni 50 finì: il destino di tutte le cose».
Questo suo spirito le viene dal clima triestino d’inizio secolo?
«A Trieste ho conosciuto Italo Svevo, Umberto Saba e Bobi Bazlen. A Milano e a Roma nessuno sapeva ancora chi fosse Freud».
Poi il Novecento si è chiuso, che ne pensa?
«Che non si può dire questo, è ancora in atto e la pittura di oggi è la continuazione di quella novecentesca».
Gli artisti contemporanei sono più o meno interessanti di quelli di allora?
«Ogni secolo ha i suoi artisti e ogni pittore è interessante se è riuscito. Se è fallito non è da ammirare in qualsiasi secolo. Gli artisti del Novecento sono stati maggiori di quelli dell’Ottocento. Ora è un momento difficile, ma ci sono delle individualità».
Lei non ama i nomi, ma può fare un’eccezione per uno dei suoi preferiti: Lucio Fontana?
«Non faccio mai i nomi e non so raccontare favole. Gli artisti si vedono, non si raccontano. Fontana è stato un mio amico come Agostino Bonalumi, Giuseppe Capogrossi e Enrico Castellani».
Ha raggiunto delle quotazioni incredibili.
«Finalmente viene riconosciuto il suo valore».
Cosa c’è dietro un taglio di Fontana?
«La sua personalità».
E il Fontana di oggi chi è?
«Non c’è per fortuna. Un grande artista non ha ripetitori».
Il critico d’arte ha ancora una funzione?
«Notevole, perché le persone non si avvicinano da sole all’arte contemporanea. Il critico dovrebbe servire a illuminare il pubblico».
Perché ha scelto Estetica come materia?
«È la branca filosofica più vicina all’arte. Creazione, fruizione, storia vi sono compresi. Ho vinto la cattedra e ho insegnato fino alla pensione».
Ci può essere un’estetica senza etica?
«Sono due cose diverse. Uno può essere un artista e al contempo un delinquente. Ci sono molti casi del genere».
Cosa suggerisce a chi vuole capire l’arte contemporanea?
«Di girare i musei più importanti per farsi una preparazione. Per capire d’arte bisogna prima di tutto esercitare lo sguardo. Poi leggere tutti i miei libri aiuta».
E lei chi ritiene fondamentale per la sua formazione?
«Nessun altro che me stesso».
Lei come si definisce politicamente?
«Un bipede implume».
Non ha una posizione politica?
«No, per fortuna il fascismo è finito quindi non ho più neanche bisogno di essere antifascista».
Si sente un liberale?
«E’ una parola che non ha più significato. Beh, mi pare che abbia fatto abbastanza domande: un articoletto riuscirà a scriverlo…».
Posso fargliene una su Milano?
«E perché non su Torino? Io la preferisco, ci ho fatto il servizio militare e ne conservo ottimi ricordi».
La domanda vale per tutte le città: che ne pensa dei nuovi grattacieli?
«Era ora che si muovesse un po’ la situazione. Viva la verticalità, con tutta la pianura che ci circonda».
La fotografia è un’arte?
«Può esserlo. Non ogni dilettante fotografo è un artista».
A lei interessa o la considera un’arte minore?
«Non mi interessa, anche se ho fotografato a volte per divertimento».
E perché le interessa di meno?
«Vuole mettere con la pittura? Non c’è confronto!».

Gillo Dorfles, 105 anni da artista Con un pizzico di incoscienza
Da oggi al Macro di Roma l’antologica dedicata alla passione segreta del grande critico
Percorsi «Sono un autodidatta, non ho seguito scuole, vado avanti in libertà»
27 nov 2015 Corriere della Sera Paolo Conti © RIPRODUZIONE RISERVATA
Chiedono a Gillo Dorfles quale sia la differenza tra il se stesso scrittore- critico e il suo doppio pittore e artista. E lui, un lucidissimo e ironico fulmine di 105 anni: «Quando scrivo sono il reporter del momento, senza alcuna ambizione di sentirmi un autore letterario. Ho invece, purtroppo, ambizioni nel settore dell’arte…».
Roma regala a Dorfles una bella e densa mostra al Macro, il Museo di arte contemporanea di via Nizza creato da Odile Decq, curata da Achille Bonito Oliva e con il coordinamento e l’allestimento di Fulvio Caldarelli e Maurizio Rossi. Cento opere tra dipinti, disegni, opere grafiche, ceramiche, gioielli (anche la nuova Illy Art Collection, sei tazzine da caffè disegnate ultimamente per la famosa industria, triestina come l’artista: Dorfles nacque appunto a Trieste il 12 aprile 1910). E poi carteggi con mezzo mondo, da Henry Kissinger a Italo Calvino, da Lionello Venturi a Giulio Carlo Argan passando per Tomás Maldonado, Bruno Zevi e Lucio Fontana, una trasversalità che pochi intellettuali italiani possono vantare. Originali in bacheca, tante grafie geniali, inchiostri scuri, dattiloscritti a macchina, testimonianze dello spirito di un Novecento che ora appare luminoso e vivo come non mai rispetto all’oggi.
Un percorso volutamente retrogrado: si parte dalle ultimissime opere, con tre inediti dell’estate 2015, e si arriva agli esordi, al Paesaggio iperboreo del 1935, ritrovando alla fine un filo coerente e compatto che tiene insieme tutto, anche la nascita del Movimento per l’arte concreta, fondato a Milano nel 1948 da Dorfles con Bruno Munari e altri. Ancora lui, Dorfles: «È vero, sono un autodidatta, non ho seguito scuole o accademie e tutto questo mi viene rinfacciato ma io vado avanti, forse per libertà o forse per incoscienza».
Sulle pareti del museo, molti video raccolti da Rai Teche riportano interviste e interventi trasmessi sulla tv pubblica in passato che, con gli scritti, ripropongono le mille identità di questo intellettuale multidisciplinare: il critico d’arte, certo, ma anche il semiologo, l’antropologo, il linguista, il teorico dell’estetica, dell’architettura, del design. Difficile sintetizzare la lunga e ricca vita di quest’uomo in una sola riga.
La mostra infatti si intitola Gillo Dorfles / Essere nel tempo ed è un dichiarato omaggio della Capitale, con il suo Museo di arte contemporanea di via Nizza, a un intellettuale e artista che proprio a Roma studiò medicina specializzandosi poi in psichiatria. Un inizio di vita adulta distante dall’arte ma che poi si ritrova, a ben guardare, in tutta la sua produzione artistica e teorica. Ed è lui stesso, dopo l’affettuoso saluto della direttrice Federica Pirani («La mostra ha due itinerari, uno interiore frutto della creazione e l’altro legato al suo essere testimone del tempo») che ammette con candore: «Questa mostra mi rallegra moltissimo, quando venni a Roma a frequentare i corsi dell’università non avrei mai sperato di vedere i miei lavori in un museo. Feci una piccola esposizione in una galleria tra il Babuino e Trinità dei Monti, erano esordi timidi, ora mi ritrovo nell’ambiente di questo museo, circondato dall’ufficialità e dall’amorevolezza».
Accanto a lui c’è Achille Bonito Oliva, e anche qui Dorfles fa scorrere la macchina del tempo: «L’ho conosciuto diciottenne, forse sedicenne, in un convegno ad Amalfi e mi colpì questo giovanotto intraprendente e non timido, pur così giovane ma già con idee molto mature».
Quell’ex giovanotto oggi ha 76 anni e una nota abilità nel sintetizzare in slogan il suo lavoro di critico e operatore culturale: «Dorfles vive un felice strabismo, l’essere insieme artista e critico. In quanto al critidi
co, nella sua parabola c’è un aspetto decongestionante, intendo l’assenza di ideologia, cosa rara in un mondo che ha marginalizzato il futurismo proprio nel nome dell’ideologia. In quanto invece all’artista, è un dongiovanni degli stili e nelle sue ultime opere, rispetto alle sue prime, non c’è segnale di ammodernamento, resta sempre in equilibrio tra astrazione e figurazione». E ancora, sempre giocando con le parole: «Voi vedete qui quest’uomo così elegante. Eppure io sintetizzerei la sua opera con tre aggettivi: erotico, erratico, eretico, la prova della mobilità delle arti contemporanee». E alla fine Bonito Oliva, per chiudere il rito dell’inaugurazione, grida: «Lunga vita a Dorfles!» dando il via a una piccola ovazione generale.
Durante il periodo della mostra si svolgeranno due cicli di incontri a ingresso libero, sono previsti gli interventi di Mario Botta, Ugo Volli, Giovanni Anceschi, Giorgio Battistelli e altri.    

Gillo Dorfles  Il critico pittore che ha vinto la partita con il tempo
DARIO PAPPALARDO Repubblica 17 1 2016
Dice Gillo Dorfles: «L’atto di disegnare e dipingere è stato per me – sin dall’infanzia – qualcosa di quasi coercitivo e mi ha obbligato a riempire di sgorbi le pagine dei miei libri scolastici, il legno dei duri banchi delle medie, la sabbia delle spiagge estive». Cento anni dopo, i “ghirigori” di quel bambino nato a Trieste nel 1910 riaffiorano nei colori di Circonvoluzione e Protezione, opere del 2015 realizzate appena l’estate scorsa dal critico e artista, ora in mostra al Macro di Roma. Essere nel tempo, a cura di Achille Bonito Oliva (coordinamento scientifico e progetto di allestimento di Fulvio Cardarelli e Maurizio Rossi, fino al 30 marzo; catalogo Skira, che ha pubblicato anche il libro Gli artisti che ho incontrato) è la prima retrospettiva “totale” dedicata a Gillo Dorfles. Un percorso in oltre cento opere – dipinti, disegni, ceramiche, gioielli – che integrano l’attività di critico qui documentata da manoscritti, lettere, fotografie, video, edizioni dei saggi. È un viaggio dentro il mondo dell’uomo che con i suoi quasi 106 anni ha raccontato e superato il Novecento. Ha rivoluzionato l’estetica e dato il nome al kitsch, provocando una crepa nell’Italia ancora permeata dall’idealismo crociano con quel Discorso tecnico delle arti (1952) che metteva finalmente in evidenza il valore della “materia” e del “mezzo espressivo” rispetto al “fantasma interiore”, fondamento dell’arte secondo Croce.
«Quando studiavo medicina a Roma, negli anni Trenta, non avrei mai immaginato di tornare come protagonista di una mostra del genere», ha confessato Dorfles all’inaugurazione, dove è arrivato – cappotto, cappello e completo marrone – fermando tutti all’ingresso del Macro per venti minuti. Come se fosse lui la vera opera d’arte perché, da ultracentenario lucidissimo, ha sconfitto il tempo. Quel giovane aspirante medico, ottant’anni fa, era già un pittore: «Ho dipinto da sempre». Un pittore costretto poi, consapevolmente, a essere schiacciato dal critico. Ma l’allestimento romano dimostra che la prima occupazione ha nutrito costantemente la seconda. La riflessione di Dorfles, lo sguardo sul mondo dell’arte e sul costume che cambia e tutto consuma, muove da una pratica quotidiana. La prima china su carta esposta è del 1930: Senza titolo raffigura mostruosi ghirigori che hanno occhi e inquietudini del tempo in cui sono stati disegnati. Il ventenne mitteleuropeo Dorfles guarda verso nord: l’espressionismo tedesco, ma anche le sollecitazioni antroposofiche di Rudolf Steiner. Dopo la visita al Goetheanum, il centro studi steineriani di Dornach (Basilea), l’artista dipinge paesaggi nordici ( Paesaggio con volto umano, 1934; Paesaggio iperboreo, 1935) o composizioni con croci, larve, misteriose entità, che nei colori e nelle tensioni oscillano tra Munch e William Blake. È un simbolismo che accantonerà presto. Nella seconda metà degli an- ni Trenta, la specializzazione in psichiatria a Pavia si riflette nella coloratissima serie dei Ritratti dei matti: corpi distorti in uniforme o vestiti da sacerdote, protagonisti e vittime di un’ossessione ritratta negli occhi strabici.
Ma il vero preludio ai testi critici degli anni Cinquanta è la partecipazione alla fondazione del Movimento Arte Concreta. Il Mac nasce a Milano nel 1948: con Dorfles ci sono Bruno Munari, Atanasio Soldati e Gianni Monnet. Insieme guardano agli svizzeri della Konkrete Kunst di Zurigo a Max Bill, e ovviamente al Bauhaus, Mondrian, Kandinskij e V-an Doesburg. Promuovono l’interazione tra le arti, un dialogo attivo tra pittura, scultura, architettura, design e industria che in quell’Italia del dopoguerra è ancora da scoprire. Nelle parole di Dorfles la poetica del movimento, che si scioglierà dopo un decennio, appare chiara: lo scopo è incoraggiare un’arte svincolata «da ogni contenutismo aneddotico e da ogni “ritorno” stilistico verso un passato ormai accademico; che, d’altronde, curi soprattutto i rapporti e le interazioni tra architettura, plastica e pittura, così da promuovere un rinnovamento effettivo del gusto in tutti i settori della vita moderna». Per l’Italia di allora è una rivoluzione “multidisciplinare” destinata a segnare un punto di non ritorno. Nell’arte di Dorfles significa una totale libertà espressiva, una pittura quasi “automatica”, guidata solo dalla forza generatrice del colore. L’asimmetria e le esplosioni cromatiche delle opere di quegli anni sembrano guardare a Paul Klee o a Miró. Con la fine della stagione del Mac, il Dorfles pittore cede il passo al critico, al recensore delle Biennali di Venezia e allo studioso di estetica. Lui che avrebbe teorizzato la necessità di riscoprire L’intervallo perduto in mezzo all’eccesso di stimolazioni e all’horror pleni si prende una pausa dalla pittura “ufficiale”. Fuori, intanto, dilaga la Pop Art.
Quando torna allo scoperto con le sue tele, dagli anni Ottanta in poi, lo fa con nuovi colori, tra robot, uomini luna, cybernauti. In alcune opere riaffiorano i temi della produzione saggistica: Custodire l’intervallo, Rispettare il vuoto! sono estensioni visive della sua riflessione critica. L’Autoritratto su ceramica è un gioco autoironico di linee che restituiscono l’immagine di un volto che ha saputo guardare negli occhi tutto il Novecento e ancora più in là.

Gillo Dorfles, quel gusto smaliziato di attraversare il tempo 
Mostra. "Essere nel tempo" al Macro di Roma fino al 30 marzo Fabio Francione Alias Manifesto 30.1.2016, 1:55
Per Gillo Dorfles non sembra valere il tragico e mendace adagio di Ceronetti sulla vecchiaia come il peggiore dei mali che possa capitare all’uomo. E, infatti, a dispetto dei suoi 105 anni, fresco di nomina a «Cavaliere di Gran Croce» al merito della Repubblica Italiana e con ancora una grande retrospettiva, Essere nel tempo, aperta al Macro di Roma fino al 30 marzo prossimo, Dorfles sembra non perdere né la curiosità che da sempre l’ha contraddistinto nei suoi studi, né la verve ironica e sottilmente polemica: entrambe sostenute per costruire e non distruggere questioni filosofiche ed estetiche che non a caso, nel corso dei decenni, sono passate da una modernità, spesso in anticipo sui tempi, a una contemporaneità – nostra — ormai cruciale nel voler assolutamente avere non più interrogativi, ma risposte. Dunque, la carriera intellettuale di Gillo Dorfles si snoda nell’apparente contraddizione dei ruoli assunti nel corso della sua esistenza centenaria, essendo nato a Trieste nel 1910 da padre d’origine goriziana e madre genovese. Quando, al contrario, l’essere a più riprese e in tempi diversi, artista critico filosofo e studioso del gusto, gli hanno fatto comprendere più di altri le difformità estetiche e culturali che hanno reso il ’900 e oltre, un secolo unico. In questa unicità risiede, in modo quasi circolare, l’originalità e l’eclettismo di Dorfles che si riverbera in una scrittura critica che tiene conto di come ci si pone «di fronte all’opera d’arte e non solo di fronte alla stessa, ma anche di fronte a tutto quello che fa parte della nostra vita». Infatti, aggiunge il critico-artista: «Soltanto partendo dal piccolo possiamo arrivare ad attuare delle trasformazioni fisiche». Da questi assunti sono nati libri di riferimento per generazioni di studiosi come Discorso tecnico delle arti del 1952, qualche anno fa riapparso per i tipi della Marinotti e importante per la messa in discussione del metodo estetico crociano o Il Kitsch del 1968 (data discrimine per azzerare l’alto dal basso e tutti i valori ad essi collegati), o ancora a fare il paio con la propria duplicità intellettuale Il divenire delle arti del 1959 e Il divenire della critica del 1976. Mentre l’attività pittorica (e di incisore e ceramista) che ha subito per lungo tempo quella che con divertimento e a suo onor reale condizione, è definita di clandestinità, lo consacra come uno degli artisti più avanzati del ’900 per capacità di sintonizzare il proprio credo artistico sui movimenti d’avanguardia internazionali e nazionali della seconda parte del secolo. Peraltro partecipati da Dorfles, anche da protagonista come quando fondò nel lontano 1948 – altra data fondamentale della storia italiana – il Mac (Movimento Arte Concreta) con artisti del calibro di Bruno Munari, Atanasio Soldati e Gianni Monnet. Ma, anche registrata sull’onda lunga picassiana e letteraria dei grandi scrittori del primo novecento (in particolare Kafka, subendo il fascino per Joyce e solidarizzando con Svevo, incontrato giovinetto a Trieste, e Montale. Qui basterebbe andarsi a rileggere la sua rapida prefazione alla doppia ristampa del 2012 di Ossi di seppia / Le occasioni) e non mancano nelle macchie, nei grovigli, nelle campiture colorate della sua idea di astrazione riferimenti alla scienza e alla psichiatria, suoi primi e mai dimenticati amori. Come suoi «amori» e non manca di riaffermarlo, sono e sono stati tutti «gli artisti che ho incontrato», diventato il titolo di un amplissimo volume antologico, più di 850 pagine, curato dal fido Luigi Sansone per i tipi della Skira sul finire dello scorso anno. Ottantacinque esatti separano il primo scritto antologizzato da Sansone, dedicato all’aeropittura tardo-futurista dall’ultimo, uno dei tanti estremi cadeau occasionati dal desiderio di scoprire nuovi artisti. Ma è interessante, più della disparità d’importanza dei pezzi inseriti, delle sedi di pubblicazione, della loro non sistematicità – durante la presentazione a Book City, Dorfles che ebbe l’onore di aprire la kermesse libraria milanese lo scorso autunno ci tenne a ribadire che «gli artisti che ho incontrato» non era un suo libro — Il discorso tecnico, che così inquadrato, viene a collocarsi in uno spazio teorico che è andato sviluppandosi nel tempo, sottoponendo in tal modo la stessa concezione estetica di Dorfles in un’ininterrotta aura d’originalità: e di pensiero. L’importanza del libro, infine, tende a risiedere nella capacità e consapevolezza dello studioso triestino di affrontare tutte le arti. Dunque, un motivo, come detto, d’interesse in più per sfrondare la critica d’arte, presa in toto, da inutili settarismi e vicissitudini storiche.

I 106 anni (normali) di Dorfles «Mi sveglio, lavoro. Amo il vino»
di Marisa Fumagalli Corriere 13.4.16
In auto da Milano a Trieste, poi sul palco per la presentazione del suo libro
TRIESTE «C’è troppa luce, per favore abbassatela». E due faretti si spengono. Insiste: «Spegnete tutto». Accontentato. Sul palco dell’Auditorium del Museo Revoltella, seduto sulla poltroncina, c’è un signore di 106 anni, impeccabilmente vestito con un completo marrone («ama i colori, detesta soltanto il blu», ci dirà la governante Dina), pullover nocciola, camicia, cravatta che si aggiusta con gesto rapido. Magro, mediamente curvo considerando l’età. È il giorno del suo compleanno.
Gillo Dorfles, artista e critico d’arte triestino ma milanese di adozione, ritorna nella sua città di origine che lo festeggia organizzando la presentazione di un volume ponderoso (850 pagine) dalla copertina rossa: Gli artisti che ho incontrato. Un’antologia completa dei suoi scritti (mancano soltanto gli articoli sulla Biennale di Venezia e quelli del Corriere della Sera, già ripubblicati), dal 1930 al 2015. Accanto a lui, il fondatore della Transavanguardia Achille Bonito Oliva e l’amico Luigi Sansone, curatore dell’opera. La sala è strapiena, sedie aggiunte in prima fila. E l’applauso, affettuoso, scatta frequentemente durante l’ora di conversazione.
La sera prima dell’evento, Dorfles è arrivato a Trieste in auto con la governante, anche autista all’occorrenza, e ha preso alloggio ai «Duchi», l’hotel che si affaccia su piazza Unità. («Abbiamo cenato in un vicino ristorante; ha gustato verdure in padella e tagliolini», racconta Dina). La mattina è trascorsa fra interviste e saluti. Pranzo, riposino, e via di seguito fino all’appuntamento del Revoltella.
«Ma le pare che le mie giornate siano diverse da quelle degli altri?», risponde, tagliente, a una delle domande del pubblico. È ovvio che la banalità del quesito alludeva all’età eccezionale. Subito stoppata: «Mi sveglio, lavoro, vado a dormire...».
Prende la parola Sansone: «In verità, le sue giornate sono molto più intense. La casa di Milano è aperta. Via vai di artisti, designer, scrittori». Quindi, illustra il contenuto dell’Antologia, tratteggiando la figura di Dorfles. E annuncia la lettura di un breve brano dell’introduzione. Ma il festeggiato lo interrompe: «Vorrei dire due paroline anch’io...».
Si tenta di posticipare, non c’è verso. Applausi. Il microfono è suo: «Il merito di questo libro va tutto a Sansone. Se non si fosse impegnato nella ricerca minuziosa dei miei scritti, molti pubblicati in riviste minori, non sarebbe uscito». Amen. Sansone ha facoltà di leggere il brano.
Tocca ad Achille Bonito Oliva. «Lo stile è l’uomo», attacca pescando la celebre frase di Buffon, naturalista e scrittore francese. Addita l’abbigliamento di Dorfles, e dice: «È un libertino. Laico, senza pregiudizi, senza retorica. Artista dell’eterno presente...». Bonito Oliva tiene la scena, è dirompente, anticonformista come il protagonista della sua ode. Dorfles ascolta, tormentandosi gli occhi. Due fessure.
In sala c’è Dina. La incontriamo alla fine. Uno spicchio di quotidianità: «Dorfles è goloso di dolci e ha due rossi prediletti, il Nero d’Avola e il Cannonau». Lui conferma: «Amo il vino».

L’ultracentenario Gillo Dorfles in lotta contro gli intellettuali inutiliLibero 12 giu 2016 TOMMASO LABRANCA RIPRODUZIONE RISERVATA
Se Gillo Dorfles fosse vissuto nel XIX secolo, il possente tomo Gli artisti che ho incontrato (Skira, pp 864, 42,00 euro) avrebbe offerto una lettura oltre modo noiosa. L'Ottocento inizia con un branco di viziati figli di quei borghesi che, grazie alle rivoluzioni industriali, stavano prendendo in mano il mondo. Ragazzi annoiati dall'improvviso benessere che giocavano coi miti di Ossian e Shakespeare e amavano perdersi tra paesaggi cupi e sentimenti ancora più intricati. Si è andati avanti così per tutto il secolo, con qualche risultato di pregio all'inizio e una caterva di emulazioni e di epigoni.
Per fortuna Dorfles ha vissuto il Novecento, un secolo che ne contiene molti altri e in cui è stato impossibile annoiarsi e questo rende appassionante la lettura del volume. Il curatore, Luigi Sansone, ha compiuto un lavoro enorme ricercando e collazionando quasi tutta la produzione critica che Gillo Dorfles ha scritto per riviste e cataloghi. Non è la prima volta che Dorfles rac- coglie i suoi scritti in modo organico. Già nel 1976 aveva pubblicato Divenire della critica e nel 1993, in Preferenze critiche, aveva selezionato quei testi che meglio rappresentavano il suo gusto del tempo. Sansone parte da quei due volumi e vi aggiunge molti altri scritti seguendo però un preciso programma: inserire solo gli interventi di carattere monografico. Molto ancora ha scritto Dorfles nel e sul Novecento, un secolo che ha conosciuto a fondo. Il critico ha compiuto recentemente 106 anni e di questi almeno novanta sono stati vissuti a contatto con l'arte. Sino da quando, nel 1930, iniziò a collaborare con il settimanale L'Italia letteraria per il quale recensiva le mostre allestite nelle gallerie di Milano e Trieste, la città in cui è nato. Sino da allora la posizione di Dorfles è stata chiara: stare a fianco del nuovo, delle avanguardie, contrastare l'accademismo. Nell'articolo che apre la raccolta, apparso il 1 novembre 1931 per L'Italia letteraria, Dorfles racconta una mostra di aeropittura futurista tenuta alla galleria Pesaro (galleria che con il suo proprietario, Lino Pesaro, meriterebbe un racconto a sé). Di fronte a quelle opere innovative il giovane Dorfles non è soddisfatto e, dopo aver salvato fra 32 artisti solo Prampolini e Fillia, già parla dei «segni dell'impoverimento e della decrepitudine» del movimento. E più in là considerava Kandinskij già superato. Aveva voglia di correre il giovane Dorfles, né con il tempo ha mai avuto voglia di rallentare. Allora la sua battaglia era giocata contro il ritorno all'ordine di quegli artisti e intellettuali che si raccoglievano intorno alla novecentista Margherita Sarfatti, critica e amante del Duce. A impressionare in questo volume è il numero di artisti su cui Dorfles riporta le proprie impressioni. Per raccontare su Domus una mostra di Roberto Crippa alla galleria del Naviglio, Gillo Dorfles impiega dodici righe in cui dice tutto ciò che pensa delle opere che ha visto. Un attuale giovane critico di fronte a installazioni inqualificabili presentate in qualche scantinato avrebbe scritto 120 righe irte di inutile parafilosofia. La scrittura di Dorfles è tecnica; usa le micidiali espressioni «totemico» e «materico» solo perché i due aggettivi sono quelli che servono per descrivere un’opera, non per far capire al pubblico che si ha frequentato un'inutile scuola per curatori. Mai inutilmente aulico, mai vacuamente citazionista di cose scritte da altri, mai servile. Dorfles non copre mai l'artista di cui parla, rifugge dal riflettore che molti suoi colleghi si puntano addosso soprattutto nelle interviste. Il critico, pittore, docente di estetica Dorfles riesce a incantare il lettore anche con la sua prosa scientifica che ci insegna su artisti e movimenti molto più di quanto facciano mille inutili saggi. Gli artisti che ho incontrato è un libro in cui dovrebbero perdersi tutti coloro che vogliono fare i critici d'arte perché insegnerà loro quanto si deve «togliere» dalla propria scrittura per giungere al cuore di ciò che si vuole dire. Gillo Dorfles [Ansa]

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