sabato 21 novembre 2015

Gli ultimi giorni di Mata Hari

Gli ultimi giorni di Mata Hari
Giuseppe Scaraffia: Gli ultimi giorni di Mata Hari, Utet, pagg. 172, euro 11,90

Risvolto

Parigi, nel 1917, è immersa nel buio del coprifuoco. L'esercito tedesco incombe sulla città. Qua e là le truppe francesi si ammutinano, mentre la produzione è messa in pericolo dagli scioperi. Non si sa a chi dare la colpa di questo disastro, che rischia di travolgere la capitale del XIX secolo. Sui giornali i caricaturisti ritraggono le figure più odiate: i ricchi, privilegiati e imboscati, i profittatori di guerra, le spie. Margaretha Geertruida Zelle, meglio nota come Mata Hari, si candida così al ruolo di capro espiatorio perfetto. Ricca non lo è, forse, ma ha calcato i palchi di molti teatri, e i parquet di molti salotti; ha avuto amici e amanti importanti, è conosciuta da tutti e tutti conosce nel mondo dorato della Belle Époque, che dal fronte si tiene certo ben lontano. Dall'inizio della guerra ha incontrato e amato anche tenenti, colonnelli e capitani, cui, a quanto si dice, ha carpito informazioni da vendere al miglior offerente. Così, nonostante le prove inconsistenti, Mata Hari viene arrestata, processata e condannata a morte. Nei giorni che precedono il 15 ottobre, data fissata per l'esecuzione, quel mondo di scrittori, intellettuali, dandy, diplomatici e ufficiali rimane col fiato sospeso. Non possono fucilare Mata Hari, pensano tutti: non oseranno. Giuseppe Scaraffia ricostruisce quegli ultimi giorni a partire da testimonianze e documenti, pagine di diario e stralci di opere letterarie. Dov'erano in quei giorni Gabriele d'Annunzio ed Ernest Hemingway, Lawrence d'Arabia e Claude Debussy? Che cosa pensavano e scrivevano Colette, Filippo Tommaso Marinetti, Virginia Woolf, Arthur Conan Doyle o Marcel Proust? In questo caleidoscopio di storie e personaggi al centro resta comunque lei, Mata Hari: nel suo desiderio di farsi opera d'arte vivente, riesce infine a liberarsi dello stigma del capro espiatorio, tramutando la sua esecuzione in un ultimo spettacolo quasi perfetto.



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La spia leggendaria e lo scrittore maledettoStenio Solinas - il Giornale Mer, 02/12/2015


Mata Hari, principessa e spia Ma soprattutto un’invenzione 

Nel libro di Giuseppe Scaraffia gli ultimi giorni della celebre seduttrice, simbolo e capro espiatorio della Belle Epoque

ELENA STANCANELLI Repubblica 21 11 2015
Margaretha Geertruida Zelle era nata nel 1876 in Olanda. Oppure in India, da una famiglia della casta sacra dei bramini. Era figlia di una bajadera morta a quattordici anni nel partorirla, o anche bisnipote del reggente di Madura. Principessa, sacerdotessa, puttana... Qualunque cosa fosse stata in vita, quando morì, fucilata all’alba del 15 ottobre 1917 a Parigi, era ormai per tutti Mata Hari. “Occhio dell’alba”, sole, nella lingua che aveva imparato a Giava.

Mata Hari aveva capelli neri e lunghi, occhi grandi e il seno piccolo. Danzava in modo seducente e si esibiva nei salotti. Dove poteva eludere il giudizio degli esperti e creare quella intimità, quella prossimità nella quale sapeva esprimersi alla perfezione. Femme fatale, ballerina di scarso talento, e infine spia. Un po’ per soldi un po’ per avventura, Mata Hari iniziò a fare il doppio gioco tra i servizi segreti francesi e quelli tedeschi. Probabilmente. Ma se la sua condanna fu opinabile, di certo la sua morte volle essere esemplare. «Il suo processo diventò il palcoscenico su cui il nuovo secolo giudicava e giustiziava la Belle Époque», scrive Giuseppe Scaraffia, scrittore e francesista, ne Gli ultimi giorni di Mata Hari” (Utet). Colto e divertente, il libro è costruito intorno a un’intuizione: Mata Hari è un impostore, un sogno, una bugia e non sarebbe mai esistita senza il pubblico specialissimo che la inventò. Intorno a lei, nella Parigi di inizio secolo, pascolano e si pasciono infatti intellettuali e visionari, stupefacenti mentitori e vendidori di leggende. Che importa se Ernest Hemingway arrivò a Parigi solo due anni più tardi la fuciliazione di Mata Hari? «Una notte me la sono scopata ben due volte, anche se francamente trovavo che avesse la vita larga e aveva più voglia di farsi fare delle cose che di dare quel che si può dare a un uomo». Anzi meglio: tanti particolari si sanno solo di qualcuno che non si è mai conosciuto.

E Gabriele D’Annunzio e Filippo Tommaso Marinetti la incontrarono davvero? O semplicemente avrebbero potuto, cosa che renderebbe perfetto il loro incontro. E tutte quelle magnifiche donne, Colette, Virginia Wolf, la marchesa Luisa Casati, Misia Sert, Natalie Clifford Barney, Isadora Duncan. Ognuna di loro, come i colleghi maschi, al guinzaglio del proprio talento e dei propri desideri. I più specializzati, e anche un po’ disgustosi, sono senz’altro quelli di Marcel Proust, che frequentava un bordello gay e si eccitava guardando due... Non ve lo dico. Leggetelo.
Biografie e bibliografie precise e fascinose, brevi racconti con uomini straordinari rincorsi dal rancore della Storia. D.H. Lawrence e sua moglie Frieda in fuga dalla Cornovaglia, Lawrence d’Arabia e quel suo strano incidente in motocicletta... Mata Hari ebbe moltissimi uomini, qualche donna e un solo amore. E con quanta meravigliosa crudeltà il raffinato Scaraffia, nelle note finali, spiega che quello, il capitano Klingham, l’uomo che non l’aveva tradita neanche al processo, è l’unico personaggio inventato.


VITA, SUCCESSI E CADUTA DI MATA HARI 
7 gen 2016  Corriere della Sera di Giorgio Montefoschi © RIPRODUZIONE RISERVATA 
Giuseppe Scaraffia, studioso della letteratura francese, ama i libri, gli scrittori, i libri che parlano degli scrittori e degli artisti, quelli che descrivono un’epoca — e per ricostruirla lui stesso un’epoca, partendo da un luogo (come ha fatto in Il romanzo della Costa Azzurra, Bompiani, davvero molto godibile) o da un episodio o da un personaggio, ne legge, a quanto dichiara, tantissimi. Poi, memore dell’antica lezione che consiglia di raccontare il Tutto concentrandosi nel dettaglio che lo contiene e lo rispecchia assai più efficacemente rispetto a quelle «descrizioni da capo a piedi» nelle quali alla fine il lettore si perde, tesse la sua tela. 
Il personaggio al centro della sua ultima fatica è una ragazza olandese nata nel 1876, Margaretha Geertruida Zelle, più tardi universalmente conosciuta come Mata Hari: il titolo è appunto Gli ultimi giorni di Mata Hari (Utet, pp. 172, 14) . L’epoca è l’anno 1917. Attribuendosi ascendenze di volta in volta diverse e fantasiose che affondavano a Giava o in India, replicando, col pessimo gusto più pessimo che si possa immaginare, il fascino di un Oriente posticcio, ma ballando seminuda o nuda addirittura (come non osava fare Isadora Duncan), ornata di diademi e braccialetti, bella e sensuale, Mata Hari era un mito. Ma non solo nei salotti delle ricche case parigine che la ospitavano per spettacoli a cui assistevano molte donne interessate al proprio sesso e altri pochi eletti: un mito che aveva addirittura varcato l’oceano. 
Aveva iniziato nella biblioteca trasformata in tempio indù del museo delle arti orientali Guimet, fondato a Parigi dall’industriale Emile Guimet che, a suo dire, le aveva anche suggerito il soprannome. Di lì, passando attraverso gli studi di svariati pittori, sopravvivendo alle critiche delle donne che spasimavano per lei e la invidiavano, essendo incapaci di proporsi con altrettanta spregiudicatezza, apparendo nuda su un cavallo nella festa (alla quale partecipavano Colette e Pierre Louys, insieme a banchieri, politici, artisti, borghesi molto ricchi) in casa dell’ereditiera americana Natalie Clifford Barney, regina incontrastata della Parigi saffica, era riuscita ad arrivare addirittura alla Scala di Milano per un balletto di Massenet, che l’ammirava (come Puccini, del resto, come Marinetti, come tanti altri ai quali aveva ceduto o non aveva ceduto). Lei avrebbe voluto interpretare una musica di Richard Strauss. Solo io — diceva — sono Salomé. Lui se ne guardò bene. 
Intanto, non lontano da Parigi, tuonava la Grande Berta: il cannone tedesco; l’esercito si ammutinava; Parigi e la Francia facevano la fame; i francesi che non vivevano la Belle Époque volevano condannare la Belle Époque. Chi scegliere, come capro espiatorio, meglio di una ballerina dalle oscure origini, mantenuta d’alto bordo, ospite pagata nei bordelli, all’inizio di un declino, tanto poco astuta nel fare la spia da farsi scoprire senza aver fatto nulla di particolarmente grave da costituire una prova? Condannata a morte, convinta che uno dei suoi amanti avrebbe comprato il plotone, Mata Hari muore il 15 ottobre 1917. I soldati non sparano a salve, la notizia fa il giro del mondo. 
Cosa facevano, nei giorni o mesi che precedono la fine tragica e farsesca di Mata Hari, gli uomini e le donne, gli scrittori e le scrittrici (come Lawrence e Virginia Woolf, D’Annunzio e Marinetti, Bernanos e Proust), i musicisti (come Debussy), i dandy (come il conte Robert de Montesquiou) e tutte le altre ereditiere e le nobildonne italiane e francesi con i salotti aperti in piena guerra, e lo spietato magistrato Boucardon? Fuori dal suo cottage, Virginia Woolf guardava il suo cane e ripensava a quello strano odore selvatico che aveva Katherine Mansfield, della quale tra non molto avrebbe pubblicato uno dei racconti più straordinari, intitolato Prelude. Ma tutti gli altri? A loro, con i cenni essenziali, pensa Scaraffia, in un libro divertente e torbido che si legge in un fiato.

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