giovedì 26 novembre 2015

Liberalismo e populismo in America Latina: una eterna lotta egemonica


I moschettieri del liberalismo nel più populista dei continenti 
La battaglia morale, filosofica e politica di Borges, Paz e Vargas Llosa sta finalmente dando i suoi frutti con l’elezione di Macri in Argentina 
25 nov 2015  Libero MAURIZIO STEFANINI 

È vero che Papa Francesco è comunista? No. E neanche è vero che sia peronista. Bergoglio stesso ha spiegato che semmai la sua famiglia simpatizzava per l’Unione Civica Radicale. Ma se i suoi discorsi suonano in un certo modo, è anche perché radicali e peronisti argentini, castristi cubani e una gran parte della tradizione della Chiesa locale non sono in realtà che alcune tra le molte varianti di una stessa ideologia populista che è fortemente radicata nella storia e nella cultura latino-americana. Correnti che magari possono anche litigare ferocemente tra di loro per il potere, ma sono poi al fondo d’accordo nell’avversione a un liberalismo che è considerato un’ideologia straniera.

 

Tuttavia, non tutta la cultura latino-americana è allergica al liberalismo. Nella stessa Argentina di Francesco dopo 99 anni di suffragio universale in cui i presidenti erano stati tutti o radicali, o peronisti o militari, adesso è diventato presidente il liberale Mauricio Macri. Proprio per esplorare le radici di questo liberalismo sudamericano, a tre grandi scrittori che sono stati al tempo stesso autenticamente latino-americani e autenticamente liberali è dedicato Letteratura e libertà. Borges, Paz e Vargas Llosa (Istituto Bruno Leoni, pp. 110, euro 3,99 Kindle e 8 cartaceo on demand), un libro di cui, si perdoni il Cicero pro domo sua, chi scrive è stato traduttore dallo spagnolo. Due di questi autori sono stati Nobel: il messicano Octavio Paz, cui è dedicato il saggio dello storico cileno e curatore dell’opera nel suo complesso Ángel Soto, nel 1990; e il peruviano Mario Vargas Llosa, su cui ha invece scritto il sociologo e storico argentino Carlos Sabino, nel 2010. L’argentino Jorge Luis Borges, esaminato dall’economista suo connazionale Martin Krause, il Nobel invece lo perse, per aver voluto partecipare a un pranzo con i dittatori Videla e Pinochet che fece infuriare i professori di Stoccolma. 
Comunista da ragazzino, Borges era poi approdato alle posizioni liberal-democratiche che ne avrebbero fatto un avversario del fascismo e di Perón. Ma poi, di fronte alla constatazione che gli argentini - quando votavano liberamente - continuavano a scegliere a maggioranza il peronismo, aveva sterzato sull’estrema destra, arrivando a appoggiare il golpe del 1976. Va però ricordato che di fronte al dramma dei desaparecidos aveva di nuovo corretto le sue posizioni. Krause ricorda che tecnicamente Borges non si definì mai liberale, ma «un inoffensivo anarchico; cioè, un uomo che vuole un minimo di governo e un massimo di individuo». Una posizione «presentata per differenziarsi dall’anarchismo violento della fine del XIX secolo e dell’inizio del XX secolo», e che oggi corrisponderebbe piuttosto a pensatori libertarian come Popper, Hayek, Nozick e Mises. Ma questa ideologia cercava di calarla nella cultura locale, con i suoi elogi dell’atavica diffidenza degli argentini verso lo Stato e i suoi racconti su gauchos ribelli. 
Anche Octavio Paz e Mario Vargas Llosa furono comunisti in gioventù. Paz, con un nonno vecchio pubblicista liberale e un padre combattente con Zapata, ruppe col comunismo nel 1939, col Patto Molotov-Ribbentrop. Vargas Llosa si fece capofila dei castristi delusi nel 1971, all’epoca della condanna del poeta Heberto Padilla. Paz divenne poi diplomatico, ma si dimise per protesta nel 1968, dopo quel massacro di studenti contestatori a Piazza delle Tre Culture in cui fu ferita anche Oriana Fallaci. A quel punto si dedicò a tempo pieno alla riscoperta dei valori liberal-democratici della società messicana, e Soto si occupa in particolare di due opere: il pamphlet antistatalista L’orco filantropico e il libro sulle rivoluzioni anticomuniste del 1989 Piccola cronaca di grandi giorni.
       La battaglia morale di Borges e filosofica di Paz divenne infine esplicitamente politica in Mario Vargas Llosa, quando nel 1990 creò un partito liberale e si candidò alla presidenza del Perù, come culmine di una campagna contro il progetto del governo di Alan García di nazionalizzare le banche. Perse, ma come osserva Sabino, «la sua semina fu feconda», e le sue critiche all’oppressivo peso dello Stato restarono «come un residuo permanente, che in buona misura è responsabile per i progressi che il Perù - in ogni senso - ha mostrato negli ultimi anni».
Altri intellettuali latino-americani nel populismo si sono invece adagiati in pieno. Di loro si occupa un saggio del giurista, poeta e saggista peruviano Héctor Ñaupari, che precede i tre profili. Mentre nell’introduzione Carlos Alberto Montaner, esule cubano coautore del celebre Manuale del perfetto idiota latino-americano, avanza il sarcastico dubbio che tale attrazione sia fondata essenzialmente su motivazioni «alimentari».      

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