mercoledì 18 novembre 2015

Relatività


Nel novembre del 1915 pubblicò la teoria che ha rivoluzionato il mondo di intendere l?universo e noi stessi. E che ha lasciato aperte questioni (finora) irrisolte. Anche se si preannuncia una conferma inaspettataLicia Troisi Giornale - Dom, 15/11/2015 -

Le formule matematiche sono fonte di ispirazione. E i grandi artisti spesso la intuiscono e anticipanoVittorio Macioce Giornale - Dom, 15/11/2015
Il primo lancio è imminente, il 2 dicembre, giusto?

«Sì. Un razzo Vega, dell’Esa e di concezione italiana, lancerà il satellite Lisa-Pathfinder, che metterà a punto le tecnologie per osservare gli effetti della Relatività dallo spazio. La missione sarà propedeutica per una successiva, battezzata e-Lisa, che sarà un osservatorio dedicato proprio alla Relatività».

Quali sono i vantaggi di questo approccio?
«Enormi. Nello spazio si potranno porre tre satelliti a milioni di km di distanza, mentre sulla Terra si possono installare sistemi con “bracci” lunghi solo pochi km e quindi la sensibilità degli strumenti risulta minore».
Che cosa misurerà Lisa-Pathfinder?
«È un satellite che aprirà la strada a un metodo completamente diverso di osservare l’Universo, basato sulle onde gravitazionali. Questo approccio permetterà agli astrofisici di affrontare alcune delle domande fondamentali, come la natura dei buchi neri binari e le loro fusioni, vale a dire gli eventi più energetici dell’Universo stesso».
Che cosa sono le onde gravitazionali?
«Sono increspature nello spazio-tempo prodotte dal movimento di corpi dotati di massa e previste proprio dalla Relatività».
Qual è il ruolo dell’Italia?
«Da protagonista: siamo responsabili della definizione dell’architettura complessiva del carico scientifico. A bordo del satellite ci sarà un sistema composto da due masse di prova e da un interferometro. Al progetto collaborano istituti e ricercatori dell’Infn e di varie università, mentre sulla Terra è in corso l’esperimento Virgo, realizzato a Pisa dallo stesso Infn nell’ambito di un consorzio italo-francese».
Lei è uno degli ideatori del programma Ams per lo studio dell’energia oscura: da questo apparato, il più grande sulla Stazione Spaziale, arriveranno dei contributi per capire meglio Einstein?
«Ams non studia direttamente la Relatività, però è la gravità che permette di scrutare il cosmo, verificando l’esistenza di una massa oscura sei volte più abbondante della componente luminosa della materia. È questa materia oscura a essere indagata da Ams attraverso la misura di precisione della componente di antimateria nei raggi cosmici».
Che cosa avete scoperto?
«Le osservazioni mostrano effetti inattesi, che potrebbero essere collegati all’esistenza di una nuova fisica. Ora stiamo raccogliendo nuovi dati per approfondire questi aspetti di enorme interesse».
Quando si parla di Relatività nello spazio, si pensa al paradosso dei gemelli: ci sarà mai modo di verificarlo?
«Una delle conseguenze, sorprendenti, della Relatività è che all’aumentare della velocità relativa la massa si dilata, il tempo rallenta e lo spazio si contrae. Se da una velocità di decine di migliaia di km l’ora si passasse a centinaia di migliaia di km al secondo, ci accorgeremmo anche noi degli effetti delle deformazioni spazio-temporali: arrivati alla velocità della luce, pur accelerando “a manetta”, il tachimetro non si sposterebbe. La velocità della luce è infatti la massima possibile nell’Universo».
Cosa si noterebbe a bordo?
«Gli astronauti non noterebbero nulla di strano, compresi i loro orologi, che “ticchetterebbero” normalmente. Ma, se un osservatore sulla Terra vedesse gli orologi degli astronauti, gli sembrerebbero fermi. Un secondo su quella navicella potrebbe equivalere a giorni o anni sulla Terra! Naturalmente lo stesso apparirebbe a un osservatore sull’astronave che guardasse la Terra, in quanto l’effetto di dilatazione temporale è collegato alla velocità relativa tra i due sistemi. Ma la simmetria è rotta dall’accelerazione e, di conseguenza, se sono su un’astronave che viene accelerata a velocità molto alte, effettua un viaggio, e poi rallenta, la dilatazione del tempo diventa un effetto cumulativo e irreversibile. Da qui l’apparente paradosso».
Che cosa succede ai gemelli?
«Se uno va nello spazio con quell’ipotetica astronave e l’altro resta a Terra, alla partenza i due avrebbero ovviamente la stessa età. Ma, tornata l’astronave sulla Terra, il gemello spaziale risulterà più giovane, mentre quello terrestre sarebbe invecchiato. E di molto».
Potremo mai viaggiare su un’astronave simile?
«Per un corpo dotato di massa è possibile, in linea di principio, avvicinarsi a questa velocità-limite senza raggiungerla, in quanto eguagliarla richiederebbe un’energia infinita. Può apparire fantascienza, ma è la Relatività ristretta ad affermarlo: in linea di principio, disponendo di una colossale quantità di energia, paragonabile al consumo di un anno sulla Terra, sarebbe possibile accelerare un razzo di 1000 kg di massa fino ad avvicinarsi alla velocità della luce».
E che cosa accadrebbe?
«Gli astronauti attraverserebbero la galassia invecchiando di poco, mentre sulla Terra sarebbero trascorse decine o centinaia di generazioni».

“I paradossi che fanno il genio” Dalle equazioni alla costante cosmologica, l’avventura continua 
Gabriele Beccaria Stampa 18 11 2015
Ha vinto al punto tale da essere diventato invisibile, dice uno dei suoi biografi, John Gribbin. Un secolo dopo la Relatività generale Albert Einstein è entrato così profondamente nelle nostre esistenze - dai gesti ai sogni quotidiani, dal Gps ai buchi neri - che non ci accorgiamo più di lui, spiega il «visiting fellow» di astronomia all’Università del Sussex e tra i più noti divulgatori scientifici del momento. È rimasto solo un anziano signore, con i capelli bianchi e ribelli.


Gribbin, lei ha scritto il saggio «Il capolavoro di Einstein», pubblicato da Bollati Boringhieri: le celebrazioni ci faranno capire un po’ di più un genio del XX secolo?

«Ho scritto il mio libro perché c’è stata molta attenzione, 10 anni fa, per la Relatività ristretta, ma quella generale è più importante e fondamentale e volevo diffondere questo messaggio. Ma non vedremo grandi celebrazioni. Mentre gli scienziati organizzano conferenze, il pubblico non connette i buchi neri o il Gps a Einstein».

Lei racconta una storia di paradossi. Primo esempio: Einstein è diventato l’icona dello scienziato, eppure lavorò a lungo come oscuro impiegato all’ufficio brevetti a Berna. Come si spiega?
«Ha lavorato a modo suo ed è per questo che ci confonde tanto. Ovviamente era un genio, ma non ha seguito un sentiero convenzionale e nel momento in cui si è rivelato non si basava sul lavoro di altri».
Come elabora il suo pensiero?
«Prende in considerazione le fondamentali equazioni di Maxwell e parte da lì, ma senza confrontarsi con quanto stanno facendo i contemporanei. E arriva a un esito totalmente nuovo. Riuscendoci perché è un genio».
Secondo paradosso: Einstein mette a punto le proprie equazioni, ma non avrebbe potuto farlo senza un po’ di «aiutini», come la geometrizzazione dello spaziotempo di Minkowsky e la teoria dei campi di Grossmann. Hilbert, poi, arriva a un soffio dalle formulazioni dello stesso Einstein. Genio sì, ma non isolato: è così?
«È un fatto che spesso non si coglie: non era un grande matematico, in compenso era un grandissimo fisico. E possedeva una straordinaria intuizione, come dimostra la concezione di gravità, che va molto al di là delle tecniche matematiche che padroneggiava».
Terzo paradosso: perché non credette fino in fondo alle conseguenze delle sue equazioni, come rivela l’ostilità per la meccanica quantistica?
«È il rovescio della medaglia della sua capacità di intuizione: oggi sappiamo che esistono “cose” che non appartengono al senso comune, ma Einstein ne fu portato fuori strada».
Tra i paradossi, c’è quello - forse il più grande - della «costante cosmologica»?
«Einstein non sapeva che l’Universo si sta espandendo e, per impedire questa possibilità, mise in campo la famosa costante. Ora sappiamo, invece, che il cosmo accelera e abbiamo quindi bisogno di una nuova versione della costante stessa per spiegare il fenomeno: ciò che considerò il suo peggiore errore si dimostra il suo maggiore trionfo».


Einstein salvato dalle formule di un prof italiano 

La svolta dal calcolo tensoriale 

Giovanni Bignami  Stampa 18 11 2015
La Relatività generale è difficile da capire perché va al di là della nostra intuizione. Ma, prima di affrontarla, nel centenario della scoperta, proviamo a capire che uomo fosse Albert Einstein nell’Europa del secolo scorso, così vicina (mio nonno era del 1879, come Einstein) e pur così lontana (due guerre mondiali e un Muro fa).


Einstein aveva 36 anni nel 1915, e già una vita ricca ma complicata alle spalle. Dieci anni prima, nel tempo libero dal suo lavoro di impiegato all’Ufficio Brevetti di Berna, aveva scritto in un sol colpo tre lavori rivoluzionari, con uno dei quali prese poi il Nobel nel ’21, e avrebbe potuto prenderne altri due. Prima ancora, a 17 anni, aveva rigettato la cittadinanza tedesca per diventare svizzero, aveva convissuto nel peccato con una ragazza serba, genio della matematica, l’unico studente donna del Politecnico di Zurigo, dalla quale aveva avuto una bambina, poi scomparsa. 

Gregorio Ricci Curbastro

Nel 1902, finalmente, la sposò (ma lei era stata già espulsa dal severo Politecnico) e ci fece due figli maschi, prima di separarsi da lei e tornare in Germania, come prof all’Università di Berlino, riprendere la cittadinanza tedesca e diventare membro della Accademia e direttore dell’Istituto di fisica. Sorprendente la Germania del 1915, da più di un anno in una guerra terribile. Grandi onori ad un ebreo, che aveva ripudiato la patria, era violentemente antimilitarista (gli altri maschi della sua classe erano già al fronte…) e di dubbia moralità: aveva anche, da anni, una relazione con la cugina Elsa (che poi sposerà), pur vivendo da solo in modo trasandato, mangiando poco e male e suonando molto il violino.
Ma quest’uomo difficile stava lavorando alla sua più grande teoria fisica, una teoria che lo consumava, anche perché era convinto di sapere poco la matematica. Alla fine chiese aiuto ad amici, in Svizzera ed in Italia, e capì che lo strumento matematico del quale aveva bisogno era il calcolo tensoriale appena inventato da un matematico italiano, Gregorio Ricci Curbastro. 
Grazie a questa nuova matematica, Albert (che allora aveva i capelli neri) dà una costruzione formale alla «idea più brillante della sua vita», come chiamava la teoria della Relatività generale. I tensori di Ricci descrivono la geometria dello spazio-tempo, che si deforma, o meglio si incurva con eleganza, in presenza di un massa. Si va al di là (non contro) Newton: la mela non cade perché attirata dalla massa della Terra, ma perché scivola sulla curvatura spazio-temporale che la Terra, con la sua massa, genera intorno a sé. E questo è vero per tutto ciò che ha massa, compresa l’energia, secondo la rivoluzionaria e famosissima equazione (di Einstein) E=mc2.
La massa, con la gravità ad essa associata, è quindi al centro della teoria della Relatività generale perché influenza la metrica dello spazio-tempo. Alla base Einstein pose il principio di equivalenza: la massa inerziale e la massa gravitazionale sono equivalenti. Quando dò un calcio a un sasso, il male che mi faccio al piede dipende dalla massa del sasso, che è definibile, quindi, come l’inerzia che il corpo oppone all’essere messo in moto. Questa massa «inerziale», però, potrebbe essere diversa dalla massa che viene attratta dalla Terra, o meglio che fa scivolare il sasso nella curvatura dello spazio generata dalla Terra, insomma, la massa «gravitazionale» del sasso stesso. Einstein postulò che le due masse fossero equivalenti e tutti noi ancora oggi ci crediamo, anzi cerchiamo di provare questo principio di equivalenza con esperimenti sempre più sofisticati, nello spazio come a Terra.
Ai primi di novembre di 100 anni fa la teoria era pronta e Einstein la presentò in alcune lezioni nella maestosa biblioteca dell’Accademia di Berlino. Il 18 novembre venne data la prima conferma osservativa. La nuova teoria spiegava perfettamente alcune «anomalie» dell’orbita di Mercurio. Einstein annota quanto sia grato alla precisione di quegli astronomi che avevano osservato il moto del piccolo pianeta, annotandone le posizioni anche senza riuscire a spiegarle.
La prova regina
E ancora dalla astronomia venne, anni dopo, la prova regina della curvatura della luce nel campo gravitazionale. Durante un’eclisse, nel 1919, la posizione di una stella, davanti alla quale transitava il Sole, risultò «spostata», rispetto alla sua solita posizione, giusto della quantità prevista dalla attrazione della massa del Sole sui fotoni in arrivo dalla stella.
Sempre dalla astronomia verranno le più importanti conferme, come il fenomeno della «lente gravitazionale», che rende visibile galassie lontanissime, e molte altre. Tra pochi giorni, invece, con i nostri migliori auguri, partirà una missione spaziale europea, con cuore italiano, destinata proprio a controllare se, anche nello spazio, massa inerziale e massa gravitazionale sono equivalenti.

Nei buchi neri il maxi-laboratorio per tentare di conciliare Relatività e meccanica quantistica 
Marco Pivato Stampa 18 11 2015
Solo se potessimo sorvolare un buco nero e, magari, entrarci avremmo modo di venire a capo dell’incognita per eccellenza della fisica: come far convivere la Relatività e la meccanica quantistica. I concetti non sono semplici, ma per raccontare questa storia ci aiuta Antonio Masiero, docente di fisica astroparticellare all’Università di Padova e vicepresidente dell’Infn, l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare.


Pochi mesi dopo il lavoro di Einstein sulla Relatività, l’astronomo Karl Schwarzschild risolve le equazioni di campo, meravigliando lo stesso fisico tedesco. Conseguenza ed eredità del contributo di Schwarzschild - che muore nel 1916 - è l’intuizione che avrebbe portato alla teorizzazione dei buchi neri, «pozzi» nel tessuto dello spaziotempo - così come teorizzato da Einstein - tanto profondi da inghiottire la materia: «Dapprima - dice Masiero - erano speculazioni e ancora oggi abbiamo solo possibili evidenze indirette della loro esistenza, derivanti dalla cattura di oggetti celesti nel loro fortissimo campo gravitazionale».

Einstein aveva seminato una teoria i cui imprevedibili frutti sarebbero stati colti lungo tutto il corso della sua vita e ancora oggi. Eppure, fino agli Anni 60, verso i buchi neri prevale lo scetticismo. «Spesso in fisica - spiega Masiero - i calcoli portano a conclusioni che, per quanto inattaccabili, rimangono sulla carta. Sono cioè soluzioni matematiche a cui non si sa se corrisponda una realtà fisica, fino a che non si arriva al riscontro empirico».

Sempre nella seconda parte del XX secolo Roger Penrose dimostra che i buchi neri - termine coniato da John Wheeler - sono una conseguenza del crollo di corpi celesti troppo densi. Ancora teorie, fino a che nel 1970 gli astronomi osservano un oggetto compatto nella costellazione del Cigno che emette getti di raggi X, fenomeno coerente con le equazioni della Relatività e probabilmente dovuto alla caduta della materia (per esempio una stella) attratta verso il buco. A tutt’oggi si ritiene che la maggior parte delle galassie contengano buchi neri, compresa la nostra. La loro esistenza confermerebbe allora la composizione dello spaziotempo einsteiniano.
«La Relatività - precisa Masiero - descrive uno spazio continuo e deformabile, adatto a formare “stirature” estreme in corrispondenza di oggetti massicci che esercitano un’enorme forza di gravità, per l’appunto i buchi neri». C’è, però, un problema: se la Relatività è giusta, allora le grandezze, in natura, non dovrebbero essere «quantizzate», ovvero non assumerebbero solo valori intermedi (come l’altezza della soglia dei piani di tanti scalini), ma tutti quelli possibili (come l’altezza lungo la salita di una rampa). Ne era del resto convinto Einstein, sicuro che la quantomeccanica fosse una suggestione in attesa di ritrovare un’oggettività più profonda alla natura.
«A tutt’oggi però - continua Masiero - tanti teorici si pongono il problema di come lo spazio di Einstein possa conciliarsi con la visione quantistica dell’Universo e quindi di come la gravità possa essere in qualche modo quantizzata, come lo sono le altre forze fondamentali: la forza elettromagnetica, quella nucleare forte, che tiene insieme i nuclei atomici, e la nucleare debole, responsabile della radioattività». Stringhe, dimensioni nascoste, universi multipli: le teorie si sprecano per mettere d’accordo Einstein con Planck, Bohr, Heisenberg e i pionieri della quantomeccanica.
«I buchi neri, in effetti, costituiscono dei “laboratori” per arrivare a una soluzione». E spiega: «Stephen Hawking ha mostrato come un buco nero possa non essere necessariamente una galleria a senso unico, ma l’emettitore di una radiazione. Il buco riduce la sua massa nel tempo, diffondendo fotoni e altre particelle. Questa “radiazione” è un effetto quantistico, ma esisterà realmente?».


Se così fosse, le due più grandi teorie del Novecento troverebbero un’unità, ma, non potendo per ora atterrare su un buco nero, non sappiamo se Hawking abbia ragione. Per ora solo il cinema ha avuto questo privilegio: in «Interstellar» il percorso a ritroso è consentito. Con una differenza: per Hawking è possibile per le radiazioni. Non per le astronavi.

Einstein, la relatività e gli errori che vincono
di Giovanni Caprara Corriere 23.11.15
Cento anni fa, il 25 novembre 1915, Albert Einstein presentava all’Accademia delle scienze prussiana la teoria generale della Relatività cambiando la visione dell’Universo e andando oltre le intuizioni di Isaac Newton. La straordinaria rivoluzione della scienza nascondeva però un clamoroso errore, ammesso e corretto dallo stesso genio tedesco. Egli riteneva che l’universo fosse statico mentre i suoi calcoli gli suggerivano un’espansione. Così per fermarlo si inventava la «costante cosmologica» con la quale faceva quadrare i conti secondo la sua idea (sbagliata). Ma poi arrivava l’astrofisico Edwin Hubble con il suo telescopio dalla vetta del monte Wilson in California scoprendo che le galassie fuggivano, non erano immobili. Einstein era scosso davanti alla prova che lo smentiva ma accettava, ed era il primo a giudicare la sua costante un errore.

Anche i grandi possono, ovviamente, sbagliare dimostrando come la scienza talvolta proceda attraverso gli errori per compiere dei passi avanti. L’importante è rendersene conto e accettare una visione diversa. È il metodo vincente della scienza che se fosse applicato più di consueto anche nella nostre azioni e pensieri quotidiani ci aiuterebbe a vivere meglio e ad avere più corretti rapporti sociali.

L’errore di Einstein è famoso perché il suo genio e il suo mito restano intatti dopo un secolo, tuttavia la storia della scienza è ricca di esempi analoghi. Lord Kelvin che conosciamo per aver stabilito e dato il nome alla temperatura più bassa raggiungibile calcolava (sbagliando) che la Terra aveva tra i 20 e 30 milioni di anni (ne ha invece 4,5 miliardi). E più di recente ci si è dovuti ricredere anche sulle caratteristiche della più entusiasmante particella subatomica, il neutrino. Si sosteneva non avesse una massa e così era descritto nell’architettura della natura. Invece si è scoperto che ne è dotato e gli ultimi Nobel per la fisica sono assegnati ai due scienziati che l’hanno misurata.
Ma è appunto dimostrando gli errori che gli scienziati aprono nuove finestre sulla conoscenza. 

Le frontiere aperte dell’Universo 
Centenari. Il 2 dicembre del 1915 veniva pubblicata la versione definitiva della teoria della relatività. Intervista con Giovanni Amelino-Camelia, fisico dell’università La Sapienza. «Di Einstein ce ne sono almeno tre: c’è il divo che fa le smorfie sulle magliette, il giovane che compie scoperte straordinarie e quello della maturità, che dà contributi trascurabili e perde la bussola» 

Andrea Capocci Manifesto 27.11.2015, 0:03 

Cento anni fa, Albert Einstein spediva all’Accademia Prussiana delle Scienze l’articolo Feldgleichungen der Gravitation («Le equazioni di campo della gravità»), in cui veniva presentata la versione «definitiva» della teoria della relatività generale, pubblicata poi il 2 dicembre del 1915. Era la conclusione di un percorso iniziato nel 1905, e che proseguirà ancora nei primi mesi del 1916. Dieci anni prima, Einstein aveva contribuito anche alla fondazione della meccanica quantistica e delle particelle. Grazie alla teoria della relatività generale, il fisico tedesco si conquistò un ruolo indiscutibile nella cultura non solo scientifica del ventesimo secolo.
Secondo molti, la vicenda di Einstein è irripetibile: la dimensione industriale della scienza attuale impedisce che un singolo scienziato dia un contributo così rilevante al progresso delle conoscenze. D’altra parte, Einstein continua a rappresentare un riferimento per generazioni di studenti e per l’immagine della scienza veicolata dai media. Solo qualche anno fa, la rivista americana Discover individuava sei possibili nuovi «Einstein» in grado di rivoluzionare la fisica andando anche oltre Einstein stesso: unificando, cioè, la teoria della relatività e la meccanica quantistica. Tra loro anche un italiano: Giovanni Amelino-Camelia, cinquantenne fisico dell’università La Sapienza di Roma. Un ottimo interlocutore, dunque, per comprendere l’eredità scientifica di Einstein e i futuri sviluppi delle sue teorie. «Prima però dobbiamo metterci d’accordo. Di Einstein non ce n’è uno solo: ce ne sono almeno tre». 

In che senso, professore?

C’è il divo, quello che fa le smorfie e va sulle magliette, che nasce ufficialmente nel 1919. È l’anno in cui Eddington conferma la validità della teoria della relatività generale. Einstein finisce sulle prime pagine e la stampa lo trasforma in un personaggio di fama mondiale. Quello è lo scienziato-icona che piace molto ai media, svampito e stravagante come ormai immaginiamo che debba essere uno scienziato. Ma è un Einstein che fa comodo a tutti. È simpatico, fa vendere, quando compare sulla copertina di una rivista funziona sempre. È un’icona dotata di un valore economico. 

E gli altri?
C’è l’Einstein giovane, quello che tra il 1905 e il 1916 compie alcune delle scoperte più straordinarie della storia della scienza. Sarebbero tante anche per un’intera generazione di scienziati, figuriamoci per un uomo solo. Infine, c’è l’Einste della maturità che, dopo il 1919, dà un contributo scientifico trascurabile. Non si tratta di vecchiaia, perché nel 1919 ha solo quarant’anni. Eppure contraddice completamente il suo modo di lavorare. Perde la bussola, attacca la meccanica quantistica come un crociato. Secondo Wolfgang Pauli, un altro grande fisico poco più giovane di lui, le ricerche di Einstein di quel periodo sono «terribile immondizia». Solo il peso scientifico del personaggio costringe gli altri a prenderlo sul serio. Però così riesce anche ad avere un ruolo politico importante, a cavallo della seconda guerra mondiale. 

A lei quale Einstein interessa di più?
Quando me lo chiedono, a me piace parlare del giovane scienziato, anche se è quello più difficile da raccontare. Ma se ci ricordiamo lo scienziato spettinato o quello pacifista, è grazie al giovane Einstein. 

È lo scienziato delle grandi intuizioni…
Anche il suo intuito certe volte ci azzeccava e altre no, come tutti. La grande forza di Einstein fu piuttosto la adesione totale al metodo scientifico, che ci aiuta a liberarci dai pregiudizi. Einstein studiò i risultati di esperimenti che nessuno riusciva a interpretare. Ipotizzò per primo che la luce potesse comportarsi come una particella, il fotone, il primo mattone della meccanica quantistica. E fu ancora Einstein a sviluppare la teoria atomica della materia, studiando il moto casuale di un granello di polline in un liquido. Quegli undici anni sono un perfetto manuale del fare scienza confrontandosi con i dati e solo con loro, senza pensare alla teoria più «elegante» o più «bella». Studiandoli da vicino si impara molto più che la relatività o la meccanica quantistica. 

A lei cos’altro hanno insegnato?
Ad esempio, che anche senza microscopio si può indagare i componenti più piccoli della realtà. Quando Einstein teorizzò atomi e molecole non c’erano gli strumenti di oggi, che riescono persino a fotografarli. Ma gli atomi, se esistevano, collettivamente dovevano produrre effetti visibili. Fu proprio studiando gli effetti macroscopici che Einstein scoprì i costituenti più piccoli della materia. 

Oggi però i microscopi in cui misurare gli effetti quantistici esistono, sono gli acceleratori di particelle…
Ma persino al Cern non arrivano ad osservare le distanze più piccole, laddove la teoria della gravità e meccanica quantistica devono ancora essere comprese. Allora anche io, come Einstein, cerco di studiare sistemi più grandi. Fortunatamente, ce n’è uno grande abbastanza: è l’Universo. Gli effetti quantistici della gravità sono invisibili su scala planetaria. Ma su una particella che viaggia abbastanza a lungo nell’Universo gli effetti accumulati possono lasciare tracce osservabili. Se il nostro modello di gravità quantistica funziona, deve essere in grado di prevedere gli effetti che essa ha su queste particelle. 

E dove troviamo queste particelle?
Per esempio, c’è un esperimento in Antartide chiamato IceCube, «cubetto di ghiaccio». In realtà, è un cubo di ghiaccio di un chilometro e mezzo di lato pieno di sensori. IceCube riesce a rilevare i neutrini, particelle di massa piccolissima provenienti dall’universo lontano, ben al di fuori dalla nostra Galassia. Per ora ne ha intercettati qualche decina. Se riuscissimo a capire da dove arrivano e quanta strada hanno fatto, potremmo confrontare i dati e i modelli. Ma c’è ancora molto da fare prima di mettere d’accordo gravità e meccanica quantistica. 

Questa è la strada verso la «teoria del tutto»?
Non parlerei di «teoria del tutto». Il primo nemico di questa idea fu proprio Einstein. Già a fine Ottocento, quando Einstein era uno studente, le leggi di Newton sulla gravità e alle equazioni di Maxwell sull’elettromagnetismo sembravano aver spiegato l’intero universo. Anche a Max Planck, vent’anni prima, era stato sconsigliato di intraprendere studi di fisica, perché non c’era più niente da scoprire. Un paio di decenni dopo, quando Einstein aveva quarant’anni, quella fisica era stata rasa al suolo e sostituita da meccanica quantistica e relatività. La «teoria del tutto» mi ricorda le tavole della legge della religione, più che la scienza. Io mi accontenterei: la materia che abbiamo conosciuto finora rappresenta solo il 4% della densità di energia dell’universo. Il resto è ancora da capire. Siamo lontani anche da una «teoria del molto». Il «tutto» lasciamolo perdere.

Relatività solo di nomeFin dalla sua nascita, 110 anni fa, il grande pubblico (tra cui anche Mussolini) fraintese questa teoria, che nulla ha di soggettivo. Anzi...Vincenzo Barone Domenicale 27 12 2015
C’è un problema che affligge le due relatività (la relatività ristretta del 1905 e la relatività generale del 1915, di cui abbiamo festeggiato in queste settimane il centenario) fin dal loro apparire. Un problema non di natura scientifica, beninteso – perché, da questo punto di vista, le due teorie hanno solo mietuto successi -, ma piuttosto fastidioso: il nome. Come Einstein non si stancava di ripetere, il termine “relatività” è connesso esclusivamente al fatto che «il moto appare sempre come moto relativo di un oggetto rispetto a un altro», e non è mai osservabile come «moto assoluto». Il termine, tuttavia, diede subito adito a fraintendimenti, che si trascinano ancora oggi.
Il fisico teorico americano Richard Feynman derideva quei filosofi «da salotto» – l’espressione è sua – che ritenevano che il contenuto della relatività fosse sintetizzabile in due formule verbali: «I fenomeni fisici dipendono dal sistema di riferimento», e «Tutto è relativo». La prima di queste proposizioni è banale: che un fenomeno fisico (per esempio il moto) dipenda dal sistema di riferimento, cioè che appaia diverso a seconda dell’osservatore, è cosa evidente e nota da sempre, e non c’era bisogno di aspettare la relatività per accorgersene (un passeggero su un treno è in quiete rispetto a un altro passeggero, ma è in moto rispetto a qualcuno che si trovi ai lati del binario).
La seconda proposizione, la più diffusa – «Tutto è relativo» –, è invece falsa. Ciò che la relatività afferma è semmai l’opposto. È vero che un fenomeno fisico è descritto diversamente da osservatori diversi, e che molte grandezze (intervalli di tempo, lunghezze, velocità, frequenze, ecc.) sono relative, cioè dipendono dal sistema di riferimento, ma le leggi fisiche che governano i fenomeni sono le stesse per tutti gli osservatori. La relatività non dice affatto che queste leggi sono relative, ma, al contrario, che sono “assolute”, per così dire, perché valgono nella stessa forma per tutti. È questo il significato genuino del principio di relatività, che Einstein enunciò nel 1905 per gli osservatori in moto uniforme, ed estese, con la relatività generale del 1915, a tutti gli osservatori.
Un altro classico equivoco è l’identificazione (sulla base solo della comune etimologia) della relatività con il relativismo, inteso in senso epistemologico come la dottrina secondo cui non esistono conoscenze oggettivamente valide. Anche questo elemento di confusione – fonte di innumerevoli insensatezze - risale agli albori della teoria. Nel 1922, per fare un esempio nostrano, apparve il libello Relativisti contemporanei, dello scrittore e critico Adriano Tilgher, in cui si celebrava Einstein – accomunato a Hans Vaihinger, il filosofo del finzionalismo, e a Oswald Spengler, l’autore de Il tramonto dell’Occidente - come il «duce del formidabile assalto relativista che, irraggiando dalla Germania in tutto il mondo civile, tende a rinnovellare le basi stesse del nostro sapere». Il merito del fisico tedesco, scriveva Tilgher, era quello di «aver introdotto per via di argomentazioni fisico-matematiche il soggettivismo nella scienza della natura», cosicché la relatività si inseriva in un più ampio movimento di pensiero ispirato a un’«intuizione attivistica del mondo e della vita», che in campo politico trovava espressione nel fascismo. «Esattissimo! Con questa affermazione Tilgher immette il fascismo nel solco delle più grandi filosofie contemporanee: quelle della relatività» – commentò sul «Popolo d’Italia» Benito Mussolini, il quale ovviamente non sapeva nulla di relatività, ma non disdegnava di attribuire al proprio movimento un’etichetta intellettuale di moda (questa e molte altre perle sulla ricezione della relatività nel nostro paese si possono trovare in un vecchio ma prezioso saggio di Roberto Maiocchi, Einstein in Italia, Franco Angeli, 1985).
Vale la pena di ricordare che, originariamente, Einstein aveva parlato solo di «principio di relatività» (Relativitätsprinzip). Fu Max Planck, il padre della meccanica quantistica, a battezzare la teoria einsteiniana Relativtheorie, espressione modificata poi in Relativitätstheorie, il nome con cui la teoria divenne universalmente nota. Rovesciando il termine, il matematico Hermann Minkowski, cui si deve l’idea dello spazio-tempo, preferiva chiamare il principio di relatività «Postulato del mondo assoluto». Un altro grande matematico, Felix Klein, uno dei fondatori della geometria moderna, suggerì il nome di «teoria degli invarianti», che individuava giustamente nel requisito di invarianza delle leggi fisiche il fulcro della relatività. Ma era ormai troppo tardi, e la proposta di Klein (che a Einstein piaceva) non prese piede. Non ci resta che pensare a quanti discorsi insulsi si sarebbero evitati se il nome della teoria fosse stato diverso.



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