sabato 23 gennaio 2016

Dallo scontro di civiltà allo scontro tra laicità e dogmatismo religioso?

La guerra del sacro. Terrorismo, laicità e democrazia radicale
La tesi sembra poco condivisibile: c'è peggior fondamentalismo di quello occidentalista? [SGA].

Paolo Flores d’Arcais: La guerra del Sacro. Terrorismo, laicità e democrazia radicale, Raffaello Cortina pagg. 246 euro 15

Risvolto
Con la strage alla redazione di Charlie Hebdo, il fondamentalismo islamico ha dichiarato guerra alla modernità, che ha visto l’affermarsi della laicità e della democrazia. Una guerra di civiltà è in atto e va combattuta, ma non è lo scontro tra islam e cristianesimo bensì tra il Sacro che vuole imporre il dominio di Dio e la libertà dell’uomo che vuole darsi da sé le leggi della convivenza. Poiché è illusorio immaginare di fermare l’ondata di immigrazione che guerre e carestie continueranno a spingere in Europa, la scelta è tra una laicità radicale unita a una radicale giustizia sociale per tutti o un multiculturalismo ghettizzante che lascia emarginati gli immigrati e li consegna alla sharia delle comunità tradizionali. Il realismo dice che solo la democrazia egualitaria e libertaria può davvero salvarci.


Discorso sulla laicità ai tempi della collera 
Il nuovo libro di Paolo Flores d’Arcais: il ruolo del pensiero democratico radicale come unico strumento di integrazione di fronte al fanatismo

GUSTAVO ZAGREBELSKY Repubblica 23 1 2016
Molte cose è il libro di Paolo Flores d’Arcais “La guerra del Sacro. Terrorismo, laicità e democrazia radicale” (Raffaello Cortina Editore): un allarme per il pericolo che l’Islam fondamentalista rappresenta per gli ideali politici dell’Occidente, una denuncia delle debolezze e delle ipocrisie dei nostri governi, una teoria delle condizioni irrinunciabili della democrazia. Il “precipitato” di tutti i discorsi anzidetti è nella parola laicità, intesa nel senso più rigoroso, senza gli aggettivi oggi di moda (sana, positiva, vera: aggettivi che non l’arricchiscono, ma l’avvelenano). Le considerazioni che seguono non sono, propriamente, una recensione. Sono piuttosto un tentativo d’inquadrare i problemi e di sollecitare riflessioni su questioni cruciali per il nostro avvenire.
La laicità è il presupposto della democrazia, in quanto s’intenda la religione come eteronomia, cioè soggezione alla trascendenza. La democrazia, al contrario, è autonomia, cioè libertà nell’immanenza. Si potrebbe dire così: chi si appella alla religione ritiene che le cose terrene siano subordinate a un ordine sacro oggettivo necessario che a noi spetta rispettare e, eventualmente, restaurare se è stato violato; chi si appella alla democrazia ritiene, invece, che la casa terrena non abbia un ordine, ma siamo noi a doverglielo dare, attraverso discussioni, controversie, voti ed elezioni. Chi vuole risolvere i problemi della convivenza in base a premesse sacrali apre le porte a quella maledizione dell’umanità che sono le guerre di religione. Ora, se guardiamo alla storia, dobbiamo riconoscere che è nello Stato nazionale che la democrazia ha trovato l’humus necessario. Questo è un punto importante per comprendere le difficoltà odierne della democrazia. Lo Stato nazionale ha generato mostri totalitari, quando è degenerato in nazionalismo. Ma la nazione ha realizzato la “sfera pubblica” comune, nella quale i cittadini possano confrontarsi dialogicamente, e “discorsivamente” partecipare alla creazione d’una volontà comune su temi di rilevanza generale. La democrazia non è incompatibile con il pluralismo delle opinioni, ma il “multiculturalismo” è altra cosa, è rottura dell’unità del quadro entro il quale si deve svolgere la vita comune.
Il libro di Flores è una scossa necessaria e salubre contro la cecità, la viltà e l’inanità di fronte ai pericoli del fanatismo religioso usato come sostanza incendiaria, versata sulle controversie economiche e politiche che dividono il mondo e le società e le trasformano in crociate. Un breve excursus storico. La Francia del Cinque-Seicento fu il terreno d’una orribile guerra civile in cui ragioni politiche si mescolavano col fanatismo religioso: l’obbedienza cattolica contro la riforma protestante. La “notte di San Bartolomeo” (23-24 agosto 1572) in cui migliaia di Ugonotti furono trucidati dal partito cattolico sotto l’egida di Caterina de’ Medici è un esempio di come si possono regolare i conti tra fedeli di religione diversa e azzerare le diversità imponendo una sola legittimità. Contro tanta barbarie, si fece strada un diverso modo di pensare che potrebbe essere sintetizzato in un detto del Cancelliere di Francia Michel de L’Hospital: «Non importa quale sia la vera religione, ma come si possa vivere insieme », ciascuno con la sua fede. Quella massima trovò attuazione con l’editto di Nantes di Enrico IV (1598) che, sia pure provvisoriamente e con molte limitazioni, riconobbe la libertà di coscienza e di culto: tolleranza a condizione che cattolici e protestanti stessero ciascuno al proprio posto e il potere assoluto del Re non fosse messo in discussione.
Questa forma di coesistenza per parti separate poteva valere in quel tempo, quando di democrazia non si parlava. In democrazia, deve esistere un unico foro politico generale dove tutti sono chiamati a partecipare. Non basta che ci sia un potere che garantisca la non aggressione. Occorre che i “fedeli” delle diverse chiese si rispettino e si riconoscano reciprocamente come portatori di buone ragioni valide in generale. La legittimità democratica nasce da lì, dal riconoscimento d’essere parti d’un foro comune. Il foro comune si chiama “nazione”.
La nazione è stata celebrata come la casa accogliente, protettiva, il luogo del cuore, la Heimat del romanticismo tedesco. La storia delle Nazioni e della “nazionalizzazione delle masse” (titolo d’un celebre libro di George Mosse del 1974) è stata però lunga e tortuosa e, soprattutto, fatta di cose molto diverse: movimenti di emancipazione da servaggi e discriminazioni e conquista di diritti (per esempio, il voto e la protezione sociale per la classe lavoratrice, in origine esclusa dalla nazione, secondo la concezione borghese) o, al contrario, di discriminazione e persecuzione. L’unità è una bella cosa se è il prodotto dell’azione che mira a distruggere barriere e a creare fratellanza. Ma può essere — ed è stata — cosa violenta, se è imposta con obblighi e divieti (come l’uniformità di lingua, di religione e di insegnamento). Può essere terribile, se viene brandita come arma contro coloro che i governi dichiarano “non integrabili”, i diversi per natura: gli stranieri, i senza cittadinanza, i nemici della Patria, i potenziali traditori (gli ebrei, i rom e sinti, gli omosessuali, gli slavi, i latini, secondo il concetto nazionale razzista del nazismo).
Raccogliamo questi spunti di riflessione e facciamoli reagire con i problemi del multiculturalismo. Il “modello San Bartolomeo”, cioè la violenza e i pogrom usati per sbarazzarsi dei migranti è proponibile solo per gli xenofobi razzisti di casa nostra. Tuttavia, neppure la separazione “modello Nantes” è accettabile: i muri, le enclave e i quartieri monoetnici, le classi scolastiche separate o le scuole coraniche sostitutive di quelle pubbliche. Sono cose che hanno il nome apartheid e sono inconcepibili in democrazia.
La parola-chiave dei nostri giorni è integrazione e, nel libro di Flores, l’integrazione implica la laicità nella sua accezione più rigorosa. Si prenda la questione dei simboli: come dovrebbe essere vietata l’esibizione di quelli islamici (il velo delle donne), così dovrebbe essere per quelli cristiani (il crocifisso nei luoghi pubblici). Ma, qui c’è il rischio d’una aporia, un’aperta contraddizione. La laicità è funzionale all’autonomia, ma la si può imporre in regime di eteronomia. Si può essere laici perché qualcuno ce lo comanda? La contraddizione non è da poco. La laicità imposta significa soffocare i propri tratti identitari e, da questo soffocamento, si possono sprigionare reazioni di rigetto. L’esperienza insegna: invece di promuovere convivenza, si rischia di alimentare i conflitti.
L’integrazione è l’obbiettivo, ma l’obbiettivo si può perseguire in autonomia solo con l’interazione. Prima o poi, non saremo più gli stessi. Di questo possiamo essere certi. Si tratta di sapere se ci si arriveremo in mezzo a conflitti o, invece, con la disponibilità delle culture a entrare in rapporto. Ferma restando l’intransigenza verso ogni forma di violenza tra e nei gruppi sociali, e fermo l’aiuto che deve essere dato a coloro che liberamente desiderano sottrarsi alle imposizioni delle loro comunità, si tratta di promuovere l’interazione, nella convinzione ch’essa aiuti la conoscenza reciproca e la convivenza pacifica. Convinzione o illusione? Non lo sappiamo, ma sappiamo che questa è l’unica via conforme alle nostre convinzioni democratiche.

Flores d’Arcais, se la democrazia getta la spugna
di Jacopo Iacoboni La Stampa 4.2.16
C’è una sola cosa che in una democrazia non può esser messa in discussione: la democrazia. Ossia, laicità, spirito libertario e egualitario.
C’è un’antinomia illuminista di fondo che Paolo Flores d’Arcais prende di petto nel suo nuovo libro - La guerra del sacro.
Terrorismo, laicità e democrazia radicale - che esce da Cortina proprio nei giorni del trentennale di MicroMega. La democrazia può accettare tutto, qualunque opinione, o qualunque credenza religiosa, per quanto estrema sia, a patto di non rinunciare a sé stessa, alla sua forma ma anche (forse soprattutto) al suo contenuto. Forma e contenuto non possono essere teoreticamente disgiunte. Da questo punto di vista molta riflessione politica di ambito postmarxista si trova dinanzi a un problema che invece le teorie - chiamiamole così - della «democrazia radicale» riescono almeno a tener presente: ossia i cul-de-sac di un relativismo politico, prima che etico. E qui già siamo nel territorio (senza che loro lo sappiano) delle statue coperte di Renzi e Rohani, nella recente visita del presidente iraniano a Roma.
C’è un capitolo del libro che racconta esattamente questo, l’Occidente si è autocensurato di fronte al fenomeno religioso - in particolare di fronte all’islam, e alle sue derive fondamentaliste - e il caso delle statue velate dal governo italiano, per quanto grottesco e recente, non è neanche il principale. Siamo tutti stati Charlie Hebdo dopo il 7 gennaio 2015, ma avevamo già ceduto a non pubblicare vignette che dessero fastidio a qualche organizzazione islamica sui nostri giornali, a impedire conferenze sgradite nelle nostre università, a censurare persino i fumetti e il nostro intrattenimento (è accaduto con South Park). Autocensura è ciò che impedisce ad alcuni di dire chiaro che la religione c’entra eccome, col terrorismo, e che questo terrorismo è «islamico, orgogliosamente», constata Flores. È ovvio che «non tutti i fedeli di Allah condividono questa decifrazione della sua volontà». Ma dovrebbe esserlo altrettanto che noi siamo la democrazia; radicale. Un valore che non può rinunciare a sé stesso, né censurarsi, né farsi paraventi per aiutare (e fare affari con) chi punta a distruggerci.

Non è Dio che mina la democrazia ma il fondamentalismo (anche ateo) I paradossi del pamphlet di Paolo Flores d’Arcais (Raffaello Cortina)11 feb 2016  Corriere della Sera Di Antonio Carioti
Persona di forti convinzioni, il direttore di « MicroMega » Paolo Flores d’Arcais, nel suo libro La guerra del Sacro (Raffaello Cortina), denuncia in modo rigoroso e coerente i guasti del fondamentalismo religioso e la sua potenziale contiguità con il terrorismo, soprattutto, ma non soltanto, quello di derivazione musulmana. Però esagera nel dipingere il mondo in bianco e nero, portando all’esasperazione l’idea che sia in atto un’epocale «guerra del Sacro contro la laicità» (di qui il titolo), simboleggiata dall’eccidio della redazione di «Charlie Hebdo».
Per Flores d’Arcais fuori dalla sua visione atea non vi è quasi salvezza dal fanatismo. Bolla infatti come complici di fatto dei jihadisti tutti coloro che non accettano di «esiliare Dio dalla sfera pubblica». A suo avviso la fede è conciliabile con la democrazia solo «eccezionalmente». Cita il «muro di separazione tra Chiesa e Stato» voluto negli Stati Uniti da Thomas Jefferson come garanzia della libertà di coscienza e del pluralismo confessionale, ma lo interpreta in modo ben più estensivo quale «annientamento preventivo della possibilità che la religione diventi identità politica».
Eppure le maggiori democrazie dell’Europa continentale, dopo il 1945, sono state riedificate da partiti democristiani, la cui stessa esistenza pare a Flores d’Arcais poco coerente con il principio di laicità. Così come lo scandalizzano i continui richiami al loro credo dei politici in quella che, fino a prova contraria, resta la più longeva e solida democrazia del mondo, i già citati Stati Uniti. Senza contare il modo in cui un’appartenenza religiosa si è fatta identità politica in Israele, dove ha prodotto l’unico Stato democratico del Medio Oriente. Tutti esempi che dovrebbero suggerire una visione più equilibrata del rapporto tra fede e politica, visto che la religione ha inevitabilmente una proiezione sociale. E diventa arduo confinarla nella coscienza del singolo e nei luoghi di culto, come auspica il direttore di «MicroMega», senza una dose piuttosto energica di coercizione.
D’altronde venature giacobine e pedagogiche traspaiono nel libro a più riprese. «La I partiti democristiani hanno salvaguardato la libertà in Europa  libertà, almeno nelle opinioni, o è eccessiva o non è», scrive all’inizio Flores d’Arcais in difesa della satira di «Charlie Hebdo». Poi però più avanti ci si accorge che questa regola conosce diverse eccezioni. L’unica apertamente dichiarata dall’autore riguarda «il razzismo e il fascismo», per i quali non vi dovrebbe essere tolleranza. Più indulgenza invece per il comunismo, poiché esso, argomenta Flores d’Arcais, nel negare la libertà non avrebbe attuato, come il fascismo, bensì contraddetto i suoi
assunti ideologici. In realtà tra la «dittatura del proletariato» invocata da Lenin e il sistema sovietico a partito unico non si vede poi una così enorme discrasia, se si parte dal presupposto che quel partito sia l’unico interprete autentico degli interessi della classe operaia. Ma ben più problematica è la questione del razzismo, in quanto non è semplice stabilire quando vi si ricada o meno.
Come ricorda lo stesso Flores d’Arcais, di razzismo sono stati accusati anche autori, da lui invece lodati, che denunciavano la persistenza di pratiche arcaiche fra gli immigrati provenienti dai Paesi poveri. E che dire poi della vignetta con cui proprio «Charlie Hebdo» ha infierito sul piccolo profugo curdo Aylan, morto su una spiaggia dell’Egeo, raffigurandolo come un potenziale molestatore di donne occidentali? Del resto, più in generale, le fattezze attribuite a Maometto e ai musulmani da certi disegni satirici richiamano spesso stereotipi xenofobi.
Se veniamo poi al modello di «democrazia radicale» auspicato dal direttore di «MicroMega», dobbiamo constatare che esso mette in castigo anche altre opinioni. La sua infatti è una visione fortemente egualitaria, che esige un «generalizzato salario di cittadinanza» e «beni primari» garantiti a tutti. Diritti sociali che, in quanto «irrinunciabile ossigeno trascendentale del voto autonomo», cioè presupposti basilari di un’autentica democrazia, dovrebbero essere «sottratti alle decisioni delle maggioranze».
A prescindere da ogni considerazione sulla scarsa sostenibilità economica di un simile «welfare articolatissimo», bisogna concludere che, secondo Flores d’Arcais, la destra liberista va sterilizzata politicamente: se vince le elezioni, deve ritrovarsi nell’impossibilità legale di attuare il suo programma. Non sarà una messa al bando, ma certo è una menomazione di non poco conto nei riguardi di una tendenza ideologica sgradita. Per cui il massimo di democrazia astratta immaginato dal direttore di «MicroMega» rischia di tradursi in forti limitazioni del concreto pluralismo politico. Succede che l’assillo di una geometrica coerenza generi esiti paradossali nel flusso disordinato della storia.

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