mercoledì 20 gennaio 2016

Verso il centenario del Bauhaus




Al via l’ampliamento del Bauhaus-Archiv 
Berlino. Un progetto che preferisce la verticalità allo sviluppo orizzontale. E che dovrebbe risolvere i problemi topografici di un quartiere 

Matteo Trentini Manifesto 20.1.2016, 0:26 
 Se tutto procederà secondo programma, sarà una torre vetrata di cinque piani il nuovo simbolo che il Bauhaus-Archiv di Berlino si regalerà in occasione dei cento anni dalla fondazione nel 1919, per opera di Walter Gropius, della rivoluzionaria scuola di architettura e arti applicate.
Lo scorso ottobre, infatti, sono stati resi i noti i risultati del concorso di architettura indetto dal Senato per la pianificazione urbanistica della città di Berlino per l’ampliamento dell’archivio attuale, perché non più in grado di reggere l’urto di un pubblico che, nel 2014, ha raggiunto i 115.000 visitatori.
I vincitori, lo studio berlinese Volker Staab, già autori del Richard Wagner Museum di Bayreuth, superando lo studio Bruno Fioretti Marquez che già si erano occupati dell’eredità della Bauhaus, restaurando gli alloggi dei professori, progettati da Gropius nel ’26, avranno a disposizione un budget totale di circa 56 milioni di euro, equamente fornito tra governo centrale e governo regionale, per costruire ex-novo la parte museale di circa 6700 mq di superficie, alleggerendo così l’edificio esistente in cui rimarrà alloggiato l’archivio della scuola. 
La torre vetrata, con i suoi cinque livelli di altezze tra loro differenti, sarà l’unico elemento riconoscibile di un intervento che si annuncia tutto rivolto ad una sobria e moderata presa di distanza dall’edificio esistente, dalla paternità particolarmente ingombrante. Se, infatti, quest’ultimo, completato nel 1979 su progetto postumo dello stesso Gropius in collaborazione con i colleghi americani del The Architects collaborative, si presenta come massiccio e compatto volume prevalentemente orizzontale dagli inaspettati tocchi lievemente espressionisti, il nuovo volume, che ospiterà gli spazi espositivi del Museum für Gestaltung, sarà tutto improntato su uno sviluppo verticale della nuova torre. Solo un elemento orizzontale ad altezza unica garantirà il collegamento tra i nuovi spazi museali e l’edificio di Gropius. 
Se da un punto di vista architettonico, il progetto sembra seguire un canonico approccio minimalista, sotto il profilo urbanistico ci si aspetta che il nuovo intervento sia in grado di porre rimedio ad una situazione topografica complessa del quartiere di Schöneberg: chiuso tra l’edificio di Gropius, la villa Villa von der Heydt e il canale della Sprea, l’intervento degli architetti berlinesi sembra infatti, almeno sulla carta, riuscire a garantire finalmente ordine e visibilità all’intero complesso museale. 
Se in una Berlino, forse un po’ meno sexy di qualche tempo fa, l’ampliamento di una istituzione culturale non fa forse notizia come altrove, la necessità dell’ampliamento del Bauhaus conferma, invece, la profezia di Mies van der Rohe, per il quale il «Bauhaus era un’idea e questo spiega la sua enorme diffusione: solo le idee si diffondono così tanto». 
Fondata infatti con l’obiettivo remoto — come lo definì Gropius stesso — di unire gli insegnamenti di architettura e delle discipline artistiche in un’unica comunità di «artisti-artigiani», la Bauhaus non solo condividerà il tragico destino della Germania del primo Novecento, dalla fondazione del 1919 durante la fragile Repubblica di Weimar fino alla definitiva chiusura per mano nazista nel 1933, ma rappresenterà il rivoluzionario tentativo di costruire una scuola propriamente democratica, basata sulla diretta collaborazione tra maestro ed allievi. 
Scriverà Gropius nel ’31, in occasione dell’inaugurazione di una mostra di suoi progetti a Zurigo, che «colui che si sente chiamato ed esprimere i propri pensieri alla comunità, ha tre possibilità a disposizione: scrivere dei libri, organizzare delle mostre, organizzare delle lezioni».
Il centenario della fondazione a Weimar del Bauhaus, potrebbe allora diventare l’occasione per ripensare al ruolo e la funzione di una scuola di architettura, per evitare il rischio, per la cultura architettonica, di rimanere intrappolata in quello che Tafuri chiamerà il carcere modello dell’auto-referenzialità.
Bauhaus, i maestri della forma
Esposizioni. Una mostra affianca gli oggetti e le foto degli immobili della scuola tedesca a quelli sviluppati da designer contemporanei. Per mettere in evidenza l’attitudine pedagogica degli architetti e artigiani raccolti attorno a Walter GropiusMaurizio Giufrè Manifesto 
20.1.2016, 0:25
Suddivisa in quattro sezioni, la mostra inizia presentando le idee, i concetti e il contesto che hanno conformato il Bauhaus (#createcontext). Il primo riferimento è il suo «Programma» (Weimar, 1919) nel quale è già esplicita la volontà del suo fondatore, Walter Gropius, di creare una «nuova corporazione di artigiani senza le distinzioni di classe» causa prima dell’«arrogante barriera tra artigiano e artista». È a questa nuova comunità che si affida il compito di cambiare radicalmente la società e di edificare la Cattedrale del futuro, elevata a simbolo del socialismo. Feininger la disegnerà sotto forma di un cristallo, ma di lì a qualche anno, quando il Bauhaus si trasferirà da Weimar a Dessau, questa è già superata: immaginata più prosaicamente da Oskar Schlemmer, nella crisi politica ed economica che agita la Germania, come una «casa semplice» ma al tempo stesso «decorosa e solida».
Formali analogie
Cambiano, dunque, i simboli e il «contesto creativo», che nel corso degli anni (1919–1932) subirà profonde modifiche: un aspetto che la mostra non evidenzia in modo significativo, perché tesa a cogliere esclusivamente i collegamenti con il presente. È il caso dell’accostamento tra lo schema di montaggio della seduta Spring Seat (1933) di Marcel Breuer e lo sgabello Opendesk di David e Joni Steiner (2013), quest’ultimo frutto delle tecniche dell’open design con il quale oggi è possibile condividere la progettazione con altri autori, ma che non giustifica le affinità con la sperimentazione e le finalità sociali del Bauhaus come la mostra vorrebbe far intendere.
Anche il dialogo tra il mobile in mattoncini Lego (Lego Buffet) dello Studio Minale-Maeda (2010), stereometrico quanto la sedia TI1a di Marcel Breuer (1922) che vi sta accanto, non consente di andare oltre la semplice analogia formale. In compenso la sezione è ricca di materiali e documenti originali. Si va dalle fotografie di Albert Hennig, che ritraggono bambini e uomini in cerca di cibo tra i rifiuti del mercato coperto di Lipsia, ai disegni espressionisti intorno al tema della Catena di vetro – anch’essa simbolo della Gesamtkunstwerk bauhausiana — di Bruno Taut, Hans Scharoun, Hermann Finsterlin e August Hablik, fino ai molti manifesti, programmi didattici e locandine che raccontano il Bauhaus Model.
È bene ricordare che il «Modello Bauhaus» ha la sua origine dalla fusione tra le due scuole granducali: quella d’Arti e mestieri, fondata a Weimar da Henry van de Velde, e quella di Belle Arti. È da qui che prende le mosse la «disunità produttiva» della quale parla la Kugler. Questa non riguarda solo i modi – flessibili e democratici — che regolano la collaborazione tra studenti, «maestri artigiani» (Werkmeister) e «maestri della forma» (Formmeister). La «disunità produttiva» interessa piuttosto gli indirizzi pedagogici che da subito all’interno della scuola confliggono a causa delle divergenti posizioni dei Meister: tra chi difende ancora il fare artigianale e chi vuole aderire all’evolversi delle tecniche di produzione della fabbrica.
Tra le molteplici tracce di questi profondi contrasti è emblematica la locandina pubblicitaria della Jttenschule: la scuola aperta da Johannes Itten a Zurigo dopo la sua uscita dal Bauhaus per la decisione presa da Gropius di «lavorare con le macchine», l’opposto della visione artistica del pittore svizzero. Cosa volesse intendere l’architetto tedesco per insegnamento rivolto alla produzione di massa lo spiega la seconda sezione della mostra (#learnbydoing). Così dai laboratori artigianali di Weimar che nelle fotografie sono pieni di allievi che «imparano facendo», si passa, nel 1925, a Dessau, con la costituzione della Bauhaus GmbH: la società a responsabilità limitata incaricata dello sfruttamento commerciale degli oggetti e arredi disegnati nella scuola che ebbe un modesto successo economico.
Tra sperimentalismo e emulazione
Dentro alcune vetrine sono esposti gli esemplari più famosi: servizi da tè e posaceneri (Josef Albers, Marianne Brandt, Otto Rittweger), ceramiche (Otto Lindig, Theodor Bogler), la macchina da caffè Sintrax e il contenitore per cibi Kubus, tutti in vetro, di Wilhelm Wagenfeld. Sopra dei ripiani sfalsati sono invece sistemate le sedie in tubolare di acciaio cromato, il set di tavoli B9 (1926–1928) di Breuer, la poltrona MR20/3 (1927) di Mies van der Rohe e la sedia modulare di Erich Dieckmann in legno e vimini. Anche in questo caso accanto agli arredi iconici del Bauhaus compaiono quelli dei contemporanei: le sedie Workshop (2009) di Jerszy Seymour o l’AP2 (2005) di Front Design.
È evidente la distanza che separa questi pezzi dai principi formali del Bauhaus, distinti tra eccentrico sperimentalismo oppure – è il caso del monocromo tavolo con sedia Pipe (2009) di Konstantin Grcic — semplice emulazione. Diverso è il caso di una serie di oggetti di Unfold e Kirschner3D (metro, goniometro) che trasferiscono le misure reali di un materiale esistente o di un oggetto in un file digitale. Questa applicazione sarebbe piaciuta di sicuro a Hannes Meyer (il successore di Gropius alla direzione della scuola nel 1928) per il suo carattere scientifico e concreto: le stesse qualità che l’architetto svizzero volle introdurre nel suo corso di edilizia. Si deve a lui se fu ristabilito nella scuola il principio fondante, cioè che «lo scopo ultimo di ogni attività figurativa è l’architettura».
Di questo tratta la terza sezione della mostra (#thinkaboutspace) nella quale si spiegano con cura le componenti di quello stile Bauhaus, essenziale e «oggettivo», che contraddistinse non solo il design, ma anche l’architettura, razionale e standardizzata così come prevista nella plastica combinazione delle unità del complesso di abitazioni Am Horn a Weimar (1920–22).
Lo stretto rapporto tra l’uomo e lo spazio non riguarda, però, solo le nuove tipologie edilizie, ma l’educazione infantile, la danza, il teatro, attività espresse nell’invenzione dei giochi in legno di Alma Siedhoff-Buscher o di Friedrich Fröbel nelle scenografie di Roman Clemens, nelle fotografie di Hugo Erfurth dei ballerini della Palucca Dances o più in generale nelle rappresentazioni spaziali di Albers e Moholy-Nagy.
Partitura a due voci
Il potere dello spazio vitale (Lebensraum) è interpretato anche da AYRBRB nella fedele ricostruzione (Home ’14, 2014) della Stanza Co-op di Meyer che una fotografia dell’epoca fissa in tutta la sua dimensione monastica; oppure è riprodotto nelle stranianti gigantografie di Adrian Sauer che «dipinge» a colori somiglianti interieur bauhausiani. Se il costruire è un’attività che interagisce con le arti e le nuove tecniche (industriali), lo stesso vale per la comunicazione che nella scuola svolge un ruolo fondamentale ed è oggetto dell’ultima sezione espositiva (#communicate). Qui sono presentati molti materiali tra brochure, manifesti, giornali e molte pubblicazioni – tra le quaranta edite — che dimostrano l’importanza che presso la scuola avevano i modi e le forme della divulgazione teorica e didattica. Lo stesso catalogo della mostra rende omaggio a ciò con una serie di pagine ognuna diversamente colorata che illustrano sia il glossario bauhasiano (all’inizio) sia la partitura per due voci (alla fine) dell’artista concettuale Olaf Nicolai dettata dalla «composizione romantica» di Kandinsky Violett: mai pubblicata per i tipi del Bauhausbü cher.
La «nuova visione» del Bauhaus si nutre dell’invenzione di originali caratteri tipografici (Futura, Schelter-Grotesk) e un diverso uso della fotografia (Fritz Schleifer, Walter Peterhans, Albert Henning) che sembra ancora ispirare moderni designer come MIRO e Karo Akpokiere. Quanto di problematico rappresenti ancora il Bauhaus la curatrice l’affida ai saggi critici presenti nel catalogo (Arthur Ruegg. Sebastian Nerauter, Claire Warnier e Dries Verbruggen, Ute Famulla e Patrick Rossler), tutti volti al confronto tra le odierne pratiche industriali e la «tradizione» della scuola tedesca, e a una provocazione dell’artista Tobias Rehberger: «Il Bauhaus è stato uno dei più radicali, mutevoli, concetti estetici. Probabilmente mai».

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