lunedì 15 febbraio 2016

Alcune lettere inedite - e non particolarmente significative - di Togliatti a Piero Gobetti. Anche Fiori ci tiene a far sapere di essere liberale

Risultati immagini per togliattiNella sostanza, cose risapute. Ciò che dà fastidio è la spocchia liberale - di un liberalismo immaginario - che trasuda dal giornalismo italiano.
Ciò che viene confermata è invece la sagacia egemonica di Togliatti [SGA].

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Buon anniversario compagno Gobetti
A novant’anni dalla morte dell’intellettuale torinese lettere inedite di Togliatti svelano un aspetto segreto

SIMONETTA FIORI Repubblica 15 2 2016
Il “signor p.t.”, scritto con la minuscola. Forse non c’era nessuna malizia, ma per il diciottenne Gobetti quel leader così agguerrito era una semplice iniziale. Palmiro Togliatti l’aveva insultato pubblicamente, dandogli del «parassita della cultura», «ragazzo di ingegno», certo, ma atteggiato «a predicatore del rinnovamento morale del mondo». E lui aveva scelto di rispondergli pacatamente, perché cosa potrà interessare ai lettori che «io non sono sciocco come dice e lui così serio come crede»? Al principio i rapporti non furono facili, né sarebbe potuto andare diversamente. Schierati
su fronti diversi, marxista e liberale. E diversi quasi in tutto, tranne che in quel tratto di «cinismo misto a inquietudine » che Piero vedeva nell’avversario e anche in se stesso. In pochi anni le cose si sarebbero messe a posto. E le lettere del 1925 uscite oggi per la prima volta dal Fondo Gobetti — e di imminente pubblicazione sulla rivista Critica Liberale di Enzo Marzo con una documentata nota di Pietro Polito — raccontano un’altra storia. Non un’amicizia ma un rapporto fondato sul reciproco rispetto, nutrito anche dalla collaborazione con Antonio Gramsci che nel secondo dopoguerra avrebbe ingenerato molti equivoci.
Ma fermiamoci un momento allo scambio epistolare del 1925, Mussolini ormai dittatore dal volto brutale. Gobetti ha già fondato tre riviste e scritto migliaia di pagine ma soprattutto da due anni dirige una casa editrice il cui logo è una scelta di campo: “Che ho a che fare io con gli schiavi?”. Un’opposizione tenace al fascismo pagata sulla propria pelle, tra l’arresto e le aggressioni di squadracce nere che lo lasciano ogni volta squassato. È questo l’editore ribelle a cui si rivolge Togliatti nel marzo del ’25: il tono è molto diverso, lontano dagli accenti di superiorità morale esibiti alcuni anni prima dalle pagine dell’Ordine Nuovo. Non ossequioso, ma rispettoso e anche un tantino implorante. Manca solo un anno alla morte di Gobetti — proprio oggi cade il novantesimo anniversario — e il capo comunista gli chiede di dare alle stampe un rapporto inglese sulla nuova Russia. Proposta accolta? Nel catalogo non ve n’è traccia. Ma si capisce tra le righe che il pourparler è andato avanti, con un soggiorno a Roma dell’editore torinese e un incontro mancato nel suo albergo. Nessuno dei due avrebbe cambiato idea sull’altro, mantenendosi saldi su sponde ideali differenti. Almeno fino alla scomparsa di Gobetti, morto a Parigi non ancora venticinquenne.
Dopo sarebbe stato diverso. Nel lungo dopoguerra al “rivoluzionario liberale” sarebbe toccato in sorte quel che più o meno è accaduto ad altri antifascisti stroncati dal regime e dalla guerra. Nessuno come Togliatti è stato capace di annettersi arbitrariamente destini e tradizioni lontani dalla propria. Bastò una formula — “compagno di viaggio” — e fu sua un’altra icona della tradizione azionista e liberaldemocratica. E a nulla sarebbero servite le proteste della famiglia liberale, pronta a sbandierare la professione di anticomunismo («Anticomunista perché anti-astrattista », scrive Gobetti in una lettera a Santino Caramella riferendosi alle idee astrattamente ideologiche) e il severo giudizio sulla «fallimentare esperienza marxista in Russia». E lo stesso Centro Studi Gobetti — ricorda ora Enzo Marzo — ci ha messo molto tempo prima di rendere pubbliche le carte sui rapporti con il capo comunista proprio per evitare schiacciamenti e sovrapposizioni.
Ha un senso oggi ricordare queste storie? Certo restituiscono il destino accidentato dell’altra sinistra, quella liberale laica e azionista, che ha sempre faticato nel farsi largo tra le due grandi chiese del Novecento, la comunista e la cattolica. E in anni recenti è stata bersaglio polemico di uno pseudoliberalismo di rito berlusconiamo, allergico al richiamo etico gobettiano tanto da volerlo espungere dal Pantheon dei liberali certificati. Oggi Gobetti non divide più né crea baruffa, perché è passato il tempo delle grandi scelte ideali, le diverse culture politiche ormai confluite in un indistinto neutro e incolore sul piano teorico e identitario. Però quella di Gobetti è tra le icone antifasciste che più resiste al passare del tempo, forse perché eternamente giovane, forse perché irripetibile nella sua radicalità morale e nell’impasto di ragione e sentimento, ancora capace di incidere sull’immaginario dei ragazzi ispirando romanzi e dialoghi immaginari sulla sua insaziabile volontà di vivere («Mandami tanta vita», è l’invocazione rivolta all’allora fidanzata Ada che dà il titolo al lavoro narrativo di Paolo Di Paolo).
E se un tempo si metteva al centro della scena l’organizzatore culturale e il fondatore di riviste, insomma il profilo storico-politico, oggi ad accendere l’attenzione dell’editoria è soprattutto il Gobetti più intimo, il perlustratore di orizzonti interiori, il ragazzo con «l’inquietudine di un barbaro e la sensibilità di un cinico», come crudelmente si descrive in una pagina inclusa nell’antologia appena uscita da Feltrinelli ( Avanti nella lotta, amore mio!, a cura di Di Paolo). «La storia non mi ha dato eredità di sorta», scrive alludendo alle sue modeste origini, figlio di droghieri senza cultura. «L’ambiente in cui sono vissuto non mi ha offerto comunicazioni. Non devo nulla a nessuno. Se ho voluto la storia me la sono dovuta creare io. Se ho voluto capire ho dovuto vivere», annota in una confessione che è quasi un’epigrafe. Vivere per capire. E anche il privato finisce per acquistare un valore politico che regge la sfida del tempo. Vale per un diciottenne di oggi. E vale per quel coetaneo d’ingegno che quasi un secolo fa scriveva Togliatti con la minuscola.

La prego di esaminare la mia proposta Saluti comunisti 
Roma, 13 marzo 1925 Caro Gobetti, la prego di voler esaminare la proposta che segue e darmi la sua riposta nei termini che le indico: è ella disposta a pubblicare con l’insegna della sua casa editrice una traduzione italiana del rapporto della Delegazione tradeunionista inglese sulle condizioni attuali della Russia? Naturalmente con una veste e in modo che non implichi la sua responsabilità nelle cose esposte nella relazione. Le condizioni sarebbero, per lei, le migliori; tutte le spese di stampa e diffusione a carico nostro. Nessun gravame di nessun genere per lei e la sua casa editrice la quale però dovrebbe consegnare circa un migliaio di copie a noi. La cosa è molto urgente. Se ella acconsente, le verrà inviato subito il materiale (testo e clichés). Il libro dovrebbe però apparire entro pochissimi giorni e per questo si potrebbe anche cercare di fare la composizione in città diverse da Torino. (...) Attendo fino a martedì sera il suo telegramma prima di cercare altre vie. Naturalmente insisto perché ella accetti. Credo che per lei sarebbe anche un successo. La pubblicazione ha già suscitato in Inghilterra un clamore di discussioni.
Sarà certo lo stesso in Italia. Con saluti comunisti
Palmiro Togliatti

19 marzo 1925 Caro Gobetti, per un ritardo nel ritiro della posta sono venuto al suo Albergo solo mercoledì sera, e mi hanno detto che Ella era già partito. Sono assai spiacente di questo inconveniente. Dal fatto che Ella è venuto a Roma deduco però che è disposto a stampare il libro di cui le ho parlato. Mi dia una conferma per telegramma o per espresso (…) e le spedirò subito il testo a mezzo di un compagno che viene a Torino. Con questo compagno potranno pure essere fissate le modalità della pubblicazione. Saluti cordiali
Togliatti

Il partigiano del dovere
«Piero Gobetti. Avanti nella lotta, amore mio! Scritture 1918-1926», la raccolta dei suoi testi a cura di Paolo Di Paolo, in un libro uscito per Feltrinelli di Francesco Postorino il manifesto 16.2.16
Non smette di suscitare ammirazione la figura complessa di Piero Gobetti (di cui in questi giorni si celebrano i novant’anni dalla scomparsa). La recente raccolta di alcuni suoi scritti, curata da Paolo Di Paolo e pubblicata da Feltrinelli (Piero Gobetti. Avanti nella lotta, amore mio! Scritture 1918–1926, pp. 220, euro 9,50), ripropone l’immagine di un intellettuale atipico, morto a soli 24 anni, con il fisico debilitato a causa delle percosse squadriste.
Allievo di Einaudi e di Salvemini, vicino a Gramsci e al suo «Ordine Nuovo», Gobetti s’ispira alle lezioni di estetica impartite da Croce. La poesia è il luogo privilegiato di un’interiorità che cerca chiarezza ed espressione. Per questo, il giovane torinese predilige l’«unità» dell’opera di Pirandello rispetto al bieco opportunismo del futurista Marinetti. Sostiene, inoltre, che i critici d’arte non possono occuparsi di questioni marginali, di schematismi e «sillogismi» vari, tralasciando colpevolmente l’autentica bellezza. Dai suoi brani trapela un insolito intreccio tra politica e amore. Il suo stile nervoso, da un lato, accompagna una forte ansia di riforme, dall’altro rende esplicito il suo incontro spirituale con Ada.
In politica occorre combattere, misurarsi di volta in volta con la religione del vizio, con chi non sente il valore «incrollabile» dell’intransigenza. In una guerra senza pause, chi depone le armi ha cessato di vivere. In amore è diverso. Chi ha la fortuna di incarnare il proprio ideale nel volto di «lei», raggiunge la pace. Ada, infatti, completa la dimensione di Piero.
Gobetti comprende di essere vivo perché la sua compagna lo protegge dalle intemperie dell’anima. Non si tratta della falsa tranquillità di chi interpreta il sentimento come un modesto ufficio o un’«abitudine di sopportazione». L’amore è un atto di fede che non si piega alle regole del tempo e del finito. Senza maschere, le due biografie si tingono di vero e non temono le sconfitte di domani. La politica mantiene, invece, un divario irriducibile tra il reale e l’ideale. L’uomo della verità soffre per il cinismo che caratterizza il ceto dominante.
L’ideale «religioso» di Gobetti è il movimento operaio. Solo le classi subalterne possono salvare un Paese soffocato dall’egoismo borghese. Di qui la sua fervida attenzione alla rivoluzione bolscevica e ai Consigli di fabbrica. Contro le dottrine del socialismo riformista e del pigro umanitarismo, la prospettiva democratica di Gobetti consiste in quel che già si diceva a proposito dei suoi affetti: «il palpito esultante ed inebriante della vita», l’azione che ricopre l’essenza di chi agisce, il bisogno di essere sempre se stessi nel continuo riscatto morale.
Egli reputa più attuale la teoria della lotta di classe di Marx rispetto all’ideale «nebuloso» di Mazzini. La sua passione libertaria per le masse si coniuga inoltre con un convinto richiamo alla riforma protestante: una riforma che l’Italia non ha mai conosciuto.
Il fascismo, per il fondatore di Energie Nove, non è altro che il linguaggio del male, l’arroganza di qualcuno e il servilismo di chi abdica alla sua dignità. Gobetti vi si oppone d’«istinto» e dichiara guerra ai tolleranti, a chi si fa risucchiare dalla contingenza, ma anche a chi studia oggi per opporsi (forse) in futuro. «Bisogna essere partigiani adesso!», tuona il «disperato sacerdote» del dovere. L’ignavia è complice delle dittature, qualunque esse siano. 

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