domenica 7 febbraio 2016
Su Reinhart Koselleck
REINHART KOSELLECK. Un ritratto del filosofo tedesco a dieci anni dalla morte. Costruì una critica della modernità, partendo dalla scommessa su un nuovo «tempo storico» e indagando il rapporto tra esperienza e aspettativa
Gennaro Imbriano Manifesto 6.2.2016, 0:04
Dieci anni fa, il 3 febbraio 2006, moriva Reinhart Koselleck, «lo storico che pensava», come lo definì Christian Meier. Con il suo contributo ha significativamente innovato il campo della ricerca storiografica e svecchiato la riflessione teorica sui fondamenti della metodologia storica. Per cinquant’anni – a partire dagli inizi degli anni Cinquanta del secolo scorso fino ai primi anni Duemila – le sue riflessioni hanno suscitato entusiasmi, discussioni, polemiche, accendendo dibattiti non solo tra gli specialisti del settore, ma anche, più in generale, nel mondo culturale impegnato nella definizione e nella comprensione della natura e dei problemi del mondo moderno. Ma, soprattutto, dei suoi conflitti costitutivi.
Il luogo delle sfide
Fin dai tempi di Kritik und Krise, la sua tesi di dottorato, Koselleck intende il mondo storico come lo spazio del conflitto, della guerra civile, della crisi, e predispone la critica teorica a individuare gli strumenti che possano mediare e neutralizzare i loro effetti distruttivi. Nella sua tesi di dottorato individuerà la genesi della parabola moderna nell’illuminismo politico e nella sua vocazione alla temporalizzazione e all’utopia. Ricostruendo il processo che dalle guerre di religione del sedicesimo secolo conduce alla Rivoluzione del 1789, Koselleck addebiterà alla «dialettica dell’illuminismo» lo scatenamento della guerra civile moderna, la quale sarebbe un risultato della destrutturazione – operata, appunto, dallo spirito illuminista – della grande impresa teologico-politica della fondazione dello Stato moderno, che era consistita nella neutralizzazione del conflitto religioso nelle forme mondanizzate dell’autorità statale. Questa operazione verrebbe rovesciata, secondo Koselleck, nella secolarizzazione della teologia: la coscienza militante riattiva, nelle forme del segreto e tramite la struttura dualistica della filosofia della storia, la sua vocazione critica, producendo la crisi dello Stato.
Dopo la tesi di dottorato, Koselleck diventa, a partire dal 1958, assistente di Werner Conze all’Università di Heidelberg. Sotto la sua guida scriverà il suo lavoro di abilitazione sulla Prussia. Saranno anni decisivi. Koselleck maturerà un nuovo metodo di indagine, particolarmente sensibile all’impostazione della storia sociale e meno influenzato dalla teologia politica di Schmitt, che aveva ispirato Kritik und Krise.
Koselleck studia la formazione della moderna società prussiana, il passaggio dalla società cetuale al moderno capitalismo, il fenomeno della proletarizzazione. È da questi studi che comincia a trarre indicazioni importanti sulla costituzione temporale del mondo moderno: un mondo nel quale si producono imponenti accelerazioni e in cui si afferma – in ragione delle trasformazioni strutturali che pervadono la società – l’esperienza di una età di transizione.
Al servizio della storia sociale è poi posta l’indagine storico-concettuale, che comincia a venire al centro degli interessi di Koselleck, che mostra che tra la fine del diciottesimo e la prima metà del diciannovesimo secolo – in quella che definisce «epoca sella» – si producono, nel linguaggio politico, quelle trasformazioni di senso che lo strutturano in senso propriamente moderno. Si affermano i «concetti di movimento», la cui caratteristica non è quella di descrivere stati di fatto, ma di evocare condizioni future e di guidare così l’azione politica. Non solo il linguaggio, ma anche le strutture millenarie della storia sociale e costituzionale si trasformano a partire dal diciottesimo secolo. Che tali strutture si trasformino e che tale trasformazione avvenga a ritmi accelerati: è questa, a giudizio di Koselleck, la caratteristica fondamentale della modernità. In ragione di ciò esperienza e aspettativa si separano definitivamente, in un modo che mai prima di quel momento si era verificato: l’orizzonte futuro è indeducibile dalle esperienze passate, dal momento che tutto cambia in maniera inedita.
Alla produzione di un nuovo «tempo storico» – espressione con la quale Koselleck designa il rapporto tra lo spazio d’esperienza e l’orizzonte d’aspettativa – contribuisce però anche la temporalizzazione della storia: si tratta di quel fenomeno in base al quale la filosofia della storia traspone utopisticamente, nel futuro, la certezza del progresso. Koselleck può così fornire una specifica ipotesi di periodizzazione – individuando nel diciottesimo secolo l’inizio della temporalizzazione e l’affermazione, propriamente moderna, di un nuovo orizzonte d’aspettativa – e penetrare ancora più radicalmente nella costituzione «critica» di quella modernità che, come agli inizi della sua riflessione, continua a rappresentare il suo maggiore interesse teorico.
L’eccedenza del caos
Se è vero, infatti, che l’impostazione di Koselleck, tutta atteggiata a rintracciare e a definire la natura del tempo storico moderno, sfocerà (come, per altro, era già accaduto negli anni Cinquanta, come oggi ci viene svelato dal carteggio inedito con Schmitt) in una fondazione trascendentale della storia, definita mediante i lineamenti di una «istorica», talché la condizione moderna sarà letta sullo sfondo di una dimensione sovra-storica, connotata in senso antropologico, resta vero che è la specificità dell’età moderna a interessare Koselleck.
Il mondo moderno è attraversato, nella sua unità, da processi di crisi genetica. Da questa convinzione Koselleck non recede mai. La mancanza radicale di un ordine; l’eccedenza strutturale del caos e del dinamismo; la politicità, cioè l’ostilità, come tratto eminente dei rapporti storici; la precarietà di ogni condizione di equilibrio; il niente ontologico, il vuoto di sostanza che la dimensione dell’agire storico esibisce e che fonda ogni storia possibile: queste condizioni strutturali di crisi sono altrettante origini, o altrettanti punti di vista da cui cogliere la condizione storica.
Il realismo di Koselleck si anima così di una insistente polemica contro qualsiasi tentativo di edulcorazione di questa condizione data, che l’utopia (nelle sue svariate forme), la fede religiosa e la filosofia della storia progressiva alimentano in modi diversi, ma tutti protesi a impedire la messa a punto di soluzioni politiche capaci di favorire la pace. Questo pensiero è in continuità con la grande tradizione del razionalismo politico moderno, di cui intende rinnovare la vitalità. È per questo che Koselleck polemizza costantemente con la tradizione dell’illuminismo politico, rappresentando quest’ultima come una clamorosa retrocessione dal piano della razionalità e una altrettanto clamorosa riabilitazione del pensiero teologico.
In questo senso Koselleck non intende sviluppare una polemica contro la modernità, ma contro i suoi esiti illuministici, riconoscendo una doppia modernità, che si articola in due momenti tra di loro contrapposti: la prima laica e razionalistica, rappresentata dal razionalismo politico del diciassettesimo secolo (e in particolare da Hobbes), la seconda utopica e religiosa (anche se la religione si è trasferita nelle rinnovate forme della filosofia della storia), rappresentata invece dall’illuminismo politico.
Un «illuminismo potenziato»
Si tratta di un realismo scettico che si mobilita anzitutto in senso anti-religioso e anti-teologico, più che anti-progressivo. Koselleck vuole pervenire, insomma, a un pensiero radicalmente materialista, se è lecito utilizzare questa espressione: un pensiero che parte dai conflitti politico-sociali, che coglie il presente come frutto di una lotta mai completamente mediata, che scopre gli equilibri dati alla luce delle precondizioni contraddittorie che li hanno prodotti, che intende tali equilibri come mai originari, originari essendo il conflitto, l’eccezione, la crisi, antropologicamente connaturati all’esistenza umana. E se il moderno è, come tale, un caso particolare di questa vicenda, ciò non toglie che è di esso che Koselleck intende indagare puntualmente strutture e connessioni, articolazioni e fratture.
Rispetto a questa disincantata consapevolezza non resta più spazio per orizzonti salvifici né tantomeno per tentativi volontaristici: occorre, piuttosto, ricercare strumenti razionalmente spendibili per la realizzazione della pace (intesa come limitazione della guerra), cioè esercitare una critica praticamente orientata al contenimento politico del conflitto. In questo senso lo sforzo di Koselleck è sostenuto da una attitudine razionalistica e, in certo senso, illuminista.
Di un «illuminismo di grado ulteriore e potenziato» aveva parlato, in una lettera inedita, Schmitt: sono parole che colgono nel segno. Questo «illuminismo di grado potenziato» si esercita mediante la critica alle ipostatizzazioni di un altro illuminismo, che a giudizio di Koselleck non è mai davvero pervenuto a se stesso, non essendosi liberato dai suoi presupposti teologici, che ne inquinano la razionalità.
La critica è, così, l’antidoto che Koselleck invoca: solo prendendo sul serio il profilo costituente e non eccezionale della crisi moderna è possibile sfuggire alle semplificazioni della filosofia progressiva, incapace di eludere la catastrofe (ma soltanto di esorcizzarla in maniera impotente, senza scongiurarla davvero) e al contempo di individuare soluzioni coerenti.
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