domenica 14 febbraio 2016

Tre mostre sull'arte sovietica a Roma


Storie Sovietiche 4.12 > 13.2.2016
Tre mostre apriranno contemporaneamente al pubblico il 4 dicembre presso la Galleria del Cembalo, e proseguiranno fino al 13 febbraio per raccontare quasi un secolo di arte, di storia, di fotografia.
Tre storie per tre voci soliste. Tre storie indipendenti, ma unite idealmente, per raccontare nell’arco di 85 anni, dal 1930 al 2015, la storia immensa dell’Unione Sovietica, nel suo farsi e disfarsi, tra illusioni, propaganda, disillusioni, memoria.


Rozalija Rabinovič e l’arte della propaganda
a cura di Michele Bonuomo e Laura Leonelli



Lo sguardo “dentro” di Sergei Vasiliev
a cura di Francesco Bigazzi



Danila Tkachenko
a cura di Davide Monteleone


Storie sovietiche 
Mostre. Alla Galleria il Cembalo di Roma ,dal contesto staliniano di Rabinovic, ai racconti di vita quotidiana di Vasiliev, alle zone militari dismesse di Tkachenko 

Alessandro Barile Alias Manifesto 13.2.2016, 1:55 
Da diversi anni Roma è al centro di una riscoperta artistica dell’Unione sovietica. L’arte sembrerebbe essere divenuta lo strumento privilegiato attraverso cui continuare a discutere e interpretare la Russia tra il 1917 e la caduta del Muro. Se politicamente sulla vicenda sovietica è stato detto tutto (e il contrario di tutto), l’arte figurativa consente ancora margini di comprensione di un’esperienza storica determinante, capace anche di svelare la Russia contemporanea. È questa la cornice entro cui si situa l’esposizione «Storie sovietiche», inaugurata a dicembre e che chiuderà i battenti il 13 febbraio prossimo. Una mostra che però segna una discontinuità nel percorso appena descritto. Se fino ad oggi la proposta artistica si era concentrata sull’esperienza pittorica delle avanguardie sovietiche o sui reportage fotografici segnati da una profonda vena realista, la mostra in questione sperimenta un linguaggio stratificato multilivello. Fotografia e disegno si compenetrano, così come l’esperienza collettiva con quella individuale. 
La mostra in realtà infatti raccoglie tre diverse esposizioni, che non si traducono in una somma di codici artistici ma in una sintesi espressiva che passa dalla fotografia all’arte figurativa senza apparente soluzione di continuità, fondendo un linguaggio. Rozalija Rabinovič (1885–1988), pittrice e grande interprete della propaganda degli anni ’30, dà forma all’arte collettiva del periodo più effervescente della produzione sovietica, quello a cavallo tra gli anni ’20 e ’30, dove più forte è il tentativo di sintetizzare spirito rivoluzionario e codice artistico nei campi della pittura, del cinema, del teatro e della poesia. Sergei Vasiliev (1937), nome di riferimento del fotogiornalismo sovietico, premiato per ben cinque volte al World press photo, descrive momenti di vita quotidiana dell’Urss degli anni Cinquanta: la vita dei carcerati e dei loro tatuaggi simbolici, e i corpi di donne in acqua nel momento della sauna o del parto naturale. 
Vite private apparentemente slegate dal contesto, ma che al contrario riescono a coglierne l’essenza. Danila Tkachenko (1989), infine, giovanissimo enfant prodige della fotografia russa, racconta alcune delle cosiddette restricted area sovietiche, quelle zone militari inaccessibili, simbolo materiale della contesa militare della guerra fredda, e oggi completamente in stato di abbandono, espressione emblematica di un’ideologia e di una vicenda oggi apparentemente sepolta sotto una coltre di neve informe. L’aspetto privato dei corpi s’interseca con la produzione collettiva della propaganda, attraverso un rimando capace di suscitare una comprensione maggiore degli anni vissuti e raccontati. I livelli si stratificano anche cronologicamente, data l’età degli artisti. 
Si parte dai disegni della Rabinovič, totalmente inserita nel contesto sovietico staliniano, per finire con le opere di Tkachenko, ventisettenne artista completamente «altro» rispetto al contesto sovietico ma che attraverso le sue fotografie ne coglie alcuni degli aspetti culturali e politici e soprattutto il senso di fine che quell’esperienza oggi ci tramanda. Un passaggio di testimone, sia artistico che anagrafico, che però sottolinea anche una continuità tra la Russia di oggi e quella degli anni centrali del Novecento. Questa forse la chiave interpretativa capace di svelare il senso attuale della mostra: sotto le ceneri di un’Unione sovietica sepolta dalla storia e dal liberismo, cova una cultura diversa dalla nostra e ancora tutta da interpretare, vicina e distante al tempo stesso, e che ci mette in difficoltà ogni qualvolta proviamo a sintetizzarla attraverso canoni culturali occidentali.


Trittico di un’epopea 
Intervista. Laura Leonelli e Davide Monteleone curatori della mostra "Storie sovietiche" 

Samir Hassan Alias Manifesto ROMA 13.2.2016, 1:56 
Riassumere 85 anni di storia dell’Unione Sovietica attraverso le immagini: questa la sfida lanciata da Mario Peliti, direttore della Galleria del Cembalo. Come ha raccontato ad Alias Laura Leonelli, curatrice con Michele Buonomo dell’esposizione dei disegni di Rozalija Rabinovic, «questa manifestazione ospita una rara eccezione per la Galleria del Cembalo», riferendosi proprio ai lavori dell’artista da lei indagata. «I disegni di Rabinovic riassumono e anticipano il tema portato avanti dalle altre due esposizioni che compongono questo bellissimo triumvirato sovietico», prosegue Leonelli. Rozalija Rabinovic nasce nel 1895, nella Russia zarista pre-rivoluzionaria, e morirà solo nel 1988, pochi mesi prima della perestrojka e della fine dell’esperienza socialista sovietica. «In un certo senso, possiamo dire che la vita e i lavori di Rabinovic sono le immagini simboliche dell’intera epopea sovietica, della sua nascita e della sua fine, dei suoi momenti più alti e dei suoi fallimenti più evidenti», aggiunge Leonelli. «Rabinovic attraversa il periodo delle avanguardie, esplode come artista di propaganda durante gli anni di Stalin, svanisce negli anni 50 per poi riaffacciarsi alla politica nell’ultimo decennio di vita». La testimonianza di Leonelli, che molto deve all’incoraggiamento di Buonomo («Vedendo i disegni, acquistati in un mercato delle pulci di Mosca, fu lui ad ’intimarmi’ di tornare in Russia e ripercorrere la vita e le opere di Rozalija») attesta come la storia russa sia una narrazione di negazioni e concatenazioni: quelle stesse simbologie e immagini che Danila Tkachenko, i cui lavori sono parte del trittico esposto, ha aggiornato nella loro decadenza finale, nella loro sopravvivenza post-costruttivista. Tecnicamente è stato solo il curatore dell’esposizione di Danila Tkachenko, Restricted Areas, ma alla prova dei fatti il contributo di Davide Monteleone, 41enne fotografo e storyteller con una vasta conoscenza ed esperienza diretta della realtà russa, è una storia nella storia che merita di essere approfondita.
Da quanto tempo ti occupi della Russia e della sua imponente storia?
Da molto. La mia professione, quella vera oltre al curatore — ruolo in cui mi sono sperimentato più di recente, è quella di fotografo. Sono stato corrispondente per la rivista Contrasto in Russia dal 2001, per oltre 14 anni, e lì ho avuto la possibilità di essere un osservatore privilegiato.
Come sei giunto a curare quest’esposizione all’interno della Trilogia voluta da Peliti?
Si è trattato di un percorso perverso. Danila è stato un mio studente, nel periodo in cui insegnavo presso la Scuola di fotografia Rodchenko di Mosca. Era uno dei fotografi più giovani e interessanti che mi sia capitato di vedere, conoscere e seguire, sia per la giovane età sia per l’innovativo modo che aveva di rappresentare la storia del suo Paese. L’ho fatto conoscere a Mario Peliti, che oltretutto è un editore, uno dei quattro in giuria dell’European Publisher Award, un premio di editoria fotografica. A Mario avevo presentato il lavoro di Danila per farne un libro; il progetto vinse e il libro uscirà il prossimo mese, ma la cosa fondamentale è che Mario s’innamorò degli spunti di Danila e mi chiese di curarne l’esposizione nella mostra.
Quali pensi siano i meriti maggiori del lavoro di Tkachenko?
Le foto di Danila assumono un duplice valore. Da una parte, un valore estetico, per la loro semplicità: sono fotografie in still life, dove reperti cristallizzati nella storia tornano vivi grazie al contrasto con le condizioni atmosferiche in cui Danilo ha scelto di scattare le foto, quelle che in russo si chiamano metel, ovvero le tormente di neve. C’è poi un alto valore documentario in quegli scatti. Si tratta di posti difficili da raggiungere, spesso tolti e poi ripristinati nelle cartine sovietiche; luoghi di nessuno ma al tempo stesso simboli dell’utopia della conquista sovietica.

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