domenica 21 febbraio 2016

Vedremo la rivoluzione passiva facies ad faciem: ancora Umberto Eco, riverrun. Aura di seconda mano


Aura di ulteriore mano
Credo di essere tra i pochi italiani che non sono mai stati parenti o amici d'infanzia di Umberto Eco e che ora non possono dargli del tu o dirsi con parole ispirate personalmente addolorati per la sua morte.
E sono anche tra i rarissimi docenti universitari di discipline umanistiche che non hanno mai presentato un libro con lui o parlato a un convegno o scambiato una lettera e manco che si sia fatto fare una foto neppure per sbaglio.

Niente di niente. Quando uno è sfigato è sfigato.[SGA].
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Franco Cardini Avvenire 21 febbraio 2016



Edoardo Castagna Avvenire 21 febbraio 2016



Il professore contagioso 
Umberto Eco. Lo scrittore, semiologo, ironico pensatore del nostro tempo, è morto a 84 anni a causa di un tumore. Non c’è stato oggetto che non sia stato degno della sua massima attenzione. Sotto lo sguardo analitico, sono finiti i più vari fenomeni della cultura di massa, indagati con lo stesso acume che applicava all’estetica medioevale o alle letture di Joyce

Valentina Pisanty Manifesto 21.02.2016 
In questi giorni si parlerà moltissimo dell’opera di Umberto Eco, dei sette romanzi e degli innumerevoli saggi, delle Bustine di Minerva, della Semiotica, degli studi sul Medioevo, delle analisi critiche su media e società, del gusto per l’enigmistica e per i giochi di parole, dell’umorismo, dell’erudizione, delle istruzioni su come scrivere una tesi di laurea e su come viaggiare con un salmone, e in generale della sua travolgente energia intellettuale. Io invece vorrei parlare di Eco come professore. Non solo perché è stato il mio professore – così l’ho conosciuto e così ho continuato a considerarlo anche quando siamo diventati amici – ma soprattutto perché quel ruolo lo definisce meglio di qualsiasi altro. 
Professore in Italia è una parola screditata: arroganti, privilegiati, pedanti, fannulloni, astrusi, fumosi e vanesi… Eco era esattamente l’opposto. Professore per vocazione, non saltava una lezione, non arrivava in ritardo, non delegava i compiti meno gratificanti ai collaboratori più giovani, non fingeva di leggere le tesi: le annotava e le riempiva di orecchie per trovare rapidamente il segno, e poi ne discuteva come si discute tra colleghi, senza intimidire gli studenti con il suo schiacciante vantaggio culturale, se non attraverso battute che sondavano amabilmente il temperamento degli interlocutori. 
Le gerarchie non lo interessavano perché ostacolavano il libero scambio di idee, e che altro si deve fare all’università se non confrontare interpretazioni intelligenti e informate per vedere quale la spunta sulle altre? Preparava i corsi con l’entusiasmo e il puntiglio di un principiante, ma poi in aula gli appunti prendevano vita, e chi lo ascoltava rimaneva rapito: non solo dalla sua sapienza, che da sola avrebbe potuto ottundere il senso critico degli ascoltatori inesperti, ma dal rigore dei suoi ragionamenti, corredati di aneddoti curiosi e di esempi esposti con la massima chiarezza, così da incoraggiare contro-esempi e tentativi di confutazione. In ciò sta l’essenza del metodo scientifico, di cui Eco era un campione. 
Un’istancabile sfida 
Ma Eco era professore anche quando faceva altre cose. È stato detto che i suoi romanzi sono didascalici, saggi confezionati in forma narrativa. In parte è vero, come è vero il contrario: i suoi saggi hanno una struttura marcatamente narrativa. Del resto si sa che le due attività procedevano in parallelo: Il nome della rosa riprendeva gli studi su Peirce e l’abduzione, Il Pendolo di Foucault quelli sui limiti dell’interpretazione, L’isola del giorno prima andava di pari passo con la ricerca sulle lingue perfette, e così via, in un continuo andirivieni tra narrazione e teoria che costituisce il proprio del lavoro di Eco (del quale di qui in poi parlerò al presente: l’autore non c’è più, ma i libri per fortuna rimangono). L’unità della sua opera è il prodotto di una mente protesa a raggiungere altre menti, di una tensione permanente, di una continua sfida alla pigrizia. Per Eco nessuno sforzo creativo vale la pena di essere esibito in pubblico se non contribuisce a rendere più intelligenti i destinatari, che si tratti di un gioco, di un racconto o di un trattato di semiotica generale. Combattere la stupidità in tutte le sue forme – così come elencate in un celebre passo del Pendolo di Foucault – è il suo obiettivo, e non a caso ha dedicato moltissime pagine alle aberrazioni logiche di cui è capace la mente umana. Obiettivo da professore? Sì, perché conoscere e capire non è noioso, è divertente, come diceva il suo amato Aristotele; è il non capire e il non conoscere semmai a essere noioso. 
E poi Eco è tutto il contrario dello snob. Non c’è oggetto (così come non c’era studente, per quanto timido e impacciato) che per lui non sia degno della massima attenzione. Sotto il suo sguardo analitico finiscono i più diversi fenomeni della cultura di massa, indagati con lo stesso acume che applica all’estetica medioevale o alle poetiche di Joyce. Dalla paraletteratura alla pubblicità, dal design industriale al giornalismo, dal tifo calcistico ai fumetti, dal nonsense agli slogan politici, in tanti anni di militanza semiotica Eco ha educato l’Italia (e non solo l’Italia) a ragionare su tutti gli aspetti della sua cultura, nella convinzione che anche in un libretto di istruzioni, in una fotografia o in una frase fatta si annidino perversioni di senso da portare alla luce. Logiche sbilenche di cui farsi beffa sempre in nome della lotta contro la stupidità, specie quando questa venga messa al servizio dei prepotenti. 
Sentenze virali 
Anche il suo umorismo – irresistibile, contagioso: Eco occupa di diritto un capitolo nella storia dell’umorismo – è da professore. Non il professore sarcastico che si accanisce contro un interlocutore impotente, ma quello arguto che lo rende complice di un gioco imprevedibile. 
Non per niente alcuni dei suoi articoli più divertenti (per esempio le 40 regole per parlare bene l’italiano) sono virali sui profili Facebook degli odierni sedicenni, esilarati da sentenze come «Evita le frasi fatte: è minestra riscaldata», «Non usare metafore incongruenti anche se ti paiono ‘cantare’: sono come un cigno che deraglia» e, not least, «Solo gli stronzi usano parole volgari». 
La sfida è insegnare divertendo, creare complicità, indurre chi ascolta a capovolgere i luoghi comuni e a stanarne la presenza in ogni affermazione roboante, manipolazione subdola e dogmatismo idiota. 
La stupidità per Eco è la morte. «L’unico modo di prepararsi alla morte è convincersi che tutti gli altri siano dei coglioni», scrive in un memorabile articolo del 1997. È penosissimo accettare l’inevitabilità della propria dipartita se si pensa che la vita sia piena di delizie e che il mondo sia popolato da persone di valore. Ma se si prende atto della meschinità, dell’insulsaggine e della stoltezza di chi ci sta intorno, allora si può morire senza eccessivi rimpianti. L’importante è non giungere a questa conclusione troppo presto (altrimenti non vale più la pena vivere), ma arrivarci per gradi, attraverso una serie di disillusioni progressive. «Solo allora, alla fine, avrai la travolgente rivelazione che tutti sono coglioni. A quel punto sarai pronto per l’incontro con la morte». 
Il 19 febbraio 2016 Umberto Eco ha concluso la sua personale lotta contro la stupidità universale. Oggi tocca a noi continuare a vivere.


Quel disincanto ironico in difesa della democrazia 

Intervista. Da «Opera aperta» ai suoi romanzi. Parla Alberto Asor Rosa 
Benedetto Vecchi Manifesto 21.02.2016 
Alberto Asor Rosa non nasconde l’emozione. «Ci ha unito la passione per la parola. Ognuno di noi, a proprio modo, ha cercato nella letteratura e nella comunicazione la chiave per accedere alla comprensione della realtà italiana. Abbiamo seguito sentieri diversi, ma ci siamo molte volte incontrati con la curiosità di capire a che punto eravamo giunti nei nostri percorsi di ricerca». 
Raggiunto telefonicamente a Milano, Asor Rosa non si sottrae alle domande. 
Racconta di discussioni, di pagine scritte, di romanzi letti, di un clima culturale che sembra ormai appartenere a un passato remoto, anche se sono passati solo due, tre decenni. «Scrissi una recensione per “la Repubblica” a Il Nome della Rosa. Il libro mi piacque e ne scrissi un elogio. Molti, invece, puntarono l’indice contro il romanzo e Umberto Eco. Operazione decisa a tavolino, pianificata per avere il consenso del pubblico: erano queste le critiche frequenti. Il libro, invece, a me piacque molto. Ne scrissi citando anche un altro grande scrittore, Italo Calvino. Anche verso Calvino le critiche, siamo agli inizi degli anni Ottanta, non erano tenere. Per entrambi sostenni che si erano molto divertiti a scrivere quei romanzi indicati come mera operazione editoriale». 
Già, gli anni Ottanta, il decennio degli integrati, dopo che i vent’anni precedenti avevano vissuto il conflitto con gli apocalittici. Sono gli anni che vedono giungere a maturazione quello che Umberto Eco aveva ipotizzato proprio in Apocalittici e integrati, dove analizzava attentamente il ruolo degli allora nuovi media – la televisione soprattutto — nella formazione dell’opinione pubblica. 
La pubblicazione de Il nome della rosa diede infatti il via a una polemica che ha visto impegnati lo stesso Eco, Franco Fortini, Asor Rosa, Gian Carlo Ferretti (a quest’ultimo si deve l’espressione di «best seller di qualità» per qualificare proprio libri come Il nome della rosa) e molti altri intellettuali. E come spesso accade, le recensioni furono l’occasione per fare il punto del rapporto tra «letteratura e vita nazionale» e sul ruolo dell’intellettuale in una realtà caratterizzata appunto da un ruolo preponderante della televisione, che dagli inizi degli anni Ottanta in poi, sarà il medium che plasmerà l’opinione pubblica, rispecchiandone e amplificandone i sentimenti più profondi e oscuri. 
Ed è dalla figura e del lascito intellettuale di Umberto Eco che prende il via l’intervista a Asor Rosa 
Qual è l’eredità intellettuale di Umberto Eco? 

Difficile dare una risposta semplice, lineare. Eco è stata una personalità intellettuale complessa. Semiologo, filosofo, letterato, giornalista, appassionato docente. 

Se si guarda alla sua vita intellettuale e la si confronta con l’attuale povertà della ricerca italiana è difficile fare una sintesi. In lui hanno convissuto una dimensione creativa – i suoi romanzi – e una dimensione scientifica (il semiologo, il filosofo). 

È stata una personalità fuori dal comune. È il primo intellettuale, in Italia, che ha infranto il confine del consumo di massa. Sapeva produrre romanzi e saggi salutati sempre da alti numeri di vendite. 

Ed è stato uno dei pochi intellettuali italiani molto letto oltre i nostri confini nazionali. Un personaggio autorevole, dalla Francia agli Stati Uniti, per la sua indubbia capacità di dare voce a un «sentire» diffuso e mai acquiescente verso lo la realtà delle cose. Era già accaduto ad altri intellettuali italiani, ma Eco è riuscito a essere intellettuale pubblico internazionale in un’epoca caratterizzata da media sempre più globali. 

L’espressione presente in alcuni scritti di Eco è proprio intellettuale pubblico. Non intellettuale organico e neppure intellettuale militante. Ma non è mai stato un uomo di cultura che si è rifugiato dentro le stanze rassicuranti dell’Accademia.… 

È stato un intellettuale pubblico mai compiaciuto di se stesso e del suo ruolo. L’ho letto sin dai suoi esordi. 

Il libro che però mi ha colpito profondamente è stato Opera aperta, dove Eco affronta il complesso rapporto tra lettore e pubblico e dove si confronta con il nodo delle ricezioni molteplici dei lettori, che possono rendere un romanzo o un saggio cosa diversa da quella pensata dall’autore. Opera aperta è il libro che manifesta una capacità di innovazione unita a una erudizione massima e un distacco ironico dai cliché accademici dello studioso chiuso in una stanza che tiene fuori quanto accade nel mondo. 

È questo ironico distacco ha permesso a Umberto Eco di avere un pubblico di massa, facendo sbriciolare il muro dell’insofferenza e dell’indifferenza del pubblico verso temi e argomenti da sempre prerogativa dell’Accademia. 

Umberto Eco commentava sempre divertito il fatto che i suoi romanzi fossero best seller. Che ne pensa di questa sua capacità di conquistare l’attenzione del pubblico? 

Voglio ricordare un episodio del legame intellettuale che mi univa a lui. Quando uscì Il nome della rosa, le reazioni dei critici non furono generose. Scrissi per «Repubblica» una recensione dove elogiavo la sua capacità di tessere la trama di un romanzo che catturava l’attenzione senza mai essere banale nella definizione dei personaggi, nella ricostruzione storica del periodo e dei temi che affrontava, come la libertà di ricerca in un clima segnato da dogmatismo. Molti lo criticarono anche aspramente per come era stato prodotto e per l’implicita idea della necessaria indipendenza del letterato dalla contingenza politica. 

Replicai a molte delle critiche con un altro scritto. Erano due gli autori che erano criticati in quel periodo: Umberto Eco e Italo Calvino. Io sostenni che nello scrivere i loro romanzi si erano divertiti. 

Questo del divertimento non è una faccenda secondaria, perché denota passione, intenzionalità anche politica. Poi, certo, il divertimento può diventare un limite, diventando anch’esso un vincolo troppo forte, minando la qualità del lavoro di scrittura. 

Umberto Eco può essere stato discontinuo, ma sarebbe improvvido considerare negativamente i suoi romanzi. Come ho detto è stato una personalità complessa, difficile da definire in maniera tranchant. 
Eppure la voce di Umberto Eco è stata meno presente nel corso degli anni. Non crede? 

Non sono d’accordo. Ha sempre preso posizione per una difesa delle istituzioni democratiche. Senza nessuna indulgenza per il potere e senza derive populiste. Possiamo dire che è stato meno efficace, ma la perdita di efficacia riguarda tutti gli intellettuali di questo paese. 

Come non ricordare le settimanali «Bustine di Minerva» apparse su «l’Espresso». Sono una vera e propria storia del presente dove non ha fatto sconti a nessuno. Potevi dissentire o esprimere consenso, ma sono comunque esempi di una sua presenza vitale nella vita culturale e politica italiana. 

L’ultima presa di posizione di Eco ha riguardato il processo di concentrazione editoriale che ha avuto nell’acquisto della divisione libri della Rcs da parte di Mondadori… 

Mi sembra che la sua presa di posizione sia stata ammirevole. Si è impegnato in una avventura editoriale dagli esiti incerti quando era già ammalato. Mi sembra che questo riveli la sua coerenza di intellettuale libero, quale è stato per tutta la vita. 

SCHEDA/ Eco e Asor Rosa: l’incontro di due rette parallele 
Alberto Asor Rosa e Umberto Eco hanno tessuto un dialogo a distanza interrotto solo per incontrarsi vis-à-vis. Uno degli incontri più recenti è stato durante la presentazione del volume del Bollettino di Italianistica dell’Università La Sapienza per gli ottanta anni di Asor Rosa pubblicato da Carocci. 

Tra i «discussants», oltre a Paolo di Giovine, Ernesto Franco e Benedetta Tobagi, proprio Umberto Eco. Con ironia, Eco ha ricordato il «rapporto non euclideo», come di due rette parallele, che lo legava a Asor Rosa. 
In quell’occasione Eco ha ricordato la rilevanza nel suo percorso teorico la lettura di «Scrittori e popolo» («un attacco liberatorio») e che aveva assonanze con quanto sosteneva assieme agli altri del Gruppo 63, che stavano portando avanti il rifiuto di «una letteratura consolatoria e densa solo di contenuti apparentemente virtuosi». 

Sempre in quella occasione, Eco parlò che l’amore di Asor Rosa per Dante può essere letto come il volto segreto di «indefesso operaista e combattente politico non a caso sempre sconfitto».


La sfida di Joyce 

Ricordi. Un traduttore, un professore e il «Finnegans Wake» da interpretare: un felice incontro a tre 
Enrico Terrinoni Manifesto 21.2.2016, 0:03 
Ho incontrato il professor Eco l’ultima volta in un festival letterario. Volevo annunciargli il completamento con Fabio Pedone della traduzione di una delle opere a lui più care, il Finnegans Wake di James Joyce. Mi chiese quando sarebbe uscito. Dissi nel 2019 o 2020. E lui: «Spero di sopravvivere per presentarlo». La sua cordialità con i giovani era infinita quanto il suo estro. Gli chiesi una volta un parere su un passo del libro impossibile di Joyce, un passo che io interpretavo in un modo e i guru della critica joyciana internazionale in un altro. Nello specifico, in una parola inventata «cumm bumm» io ci vedevo il Cumann nan mBan, la formazione paramilitare femminista e femminile che si unì alla rivolta irlandese nel 1916 — questo oltre a Cambronne e a tante altre cose (lo sperma, il deretano…)  James Joyce 
I critici talebani che avevo consultato escludevano la soluzione irlandese in questo libro irlandesissimo. Consultai l’oracolo di Eco, e il professore mi scrisse parole il cui conforto è ancora oggi inestimabile. Mi spiegò con estrema semplicità che se Joyce quando si traduceva in italiano cercava di modificare i suoi puns, allora un suo traduttore è autorizzato ad «ogni analogia possibile, se lui non ci aveva pensato». E aggiunse che se nel testo c’è una coincidenza sonora, bisogna renderla in qualche modo perché «conta più l’intenzione del testo che l’intenzione dell’autore». 
La chiusa, poi, di quel suo messaggio prezioso mi ricorda quando amava ricordare che era andato in cattedra più tardi dei suoi colleghi perché non si preoccupava di omaggiare i baroni: «E chissà quante associazioni indebite fanno i suoi colleghi». 
L’eredità di Eco nella cultura mondiale è ben nota. Il suo contributo imprescindibile all’avvicinamento dell’opera di Joyce, solo agli specialisti. Eppure, il suo ancora insuperabile Le poetiche di Joyce è del 1966, e la sua presenza come membro onorario nei board delle varie associazioni internazionali è un dato di fatto. Eco non ha smesso mai di pensare a Joyce, e ce ne accorgiamo non soltanto nei suoi libri di critica, ma anche nei romanzi, negli articoli o nelle interviste, persino le più leggere. 
Il gusto per la parola, la passione per l’apertura di scenari universali quando questa si fa interpretazione, e soprattutto, la fusione di un impeccabile illuminismo e di una brama di ignoto, mdi edievale, avvicinano la sua opera a quella di Joyce come forse l’opera di nessun altro. Nel suo ultimo messaggio, il professore mi scrisse «Grazie! Aspetto i primi capitoli». Non ho avuto il tempo di sapere cosa ne pensasse, ma c’è da sperare che l’abbiano fatto sorridere.


Un rigoroso navigatore 

Interviste. Parla Elisabetta Sgarbi, direttrice editoriale della Nave di Teseo, di cui anche Eco era fondatore e socio. «'Pape Satàn Aleppe' uscirà il prossimo 27 febbraio. La sua morte non lascia un vuoto, c'è da interpretare 
la sua opera monumentale» 
Arianna Di Genova Manifesto 21.2.2016, 0:04 
La scomparsa di Umberto Eco ha spinto in acqua con un forte vento La Nave di Teseo, casa editrice indipendente (lui stesso ne era diventato fondatore e socio) dei fuoriusciti da Mondazzoli. Così, l’ultimo suo libro, Pape Satàn Aleppe, uscirà non più a maggio ma il prossimo 27 febbraio. Poi, seguiranno i precedenti volumi di saggistica, mentre bisognerà aspettare un anno per la cessione dei diritti dei suoi romanzi. Pape Satàn Aleppe raccoglie Le bustine di Minerva, le rubriche che Eco ha tenuto sull’Espresso dal 2000 a oggi (quella del 27 gennaio era dedicata a Francesco Hayez in mostra a Milano e al suo essere «senza saperlo, post-moderno» per quel vivere immerso in «citazioni extrapittoriche»). L’interesse dell’antologia è ora tutto puntato sulla «società liquida e i suoi sintomi»; altre «bustine» figuravano già nel Secondo diario minimo. 
Elisabetta Sgarbi, dimessasi da Bompiani in novembre dopo l’acquisizione da parte del gruppo di Cologno Monzese, tra i fondatori — e direttrice editoriale — della Nave di Teseo, è convinta che la morte di Eco non lasci in eredità un vuoto nel panorama culturale italiano, perché l’intellettuale ha comunque consegnato ai posteri «la sua monumentale opera e a noi tutti la responsabilità di interpretarla. Il corpus delle sue imprese è chiaro e nitido ed è luce che ci fa andare avanti. Egli è vivo in noi». 
Partiamo dagli avvenimenti più recenti: Umberto Eco, pur giudicandola «una cosa da pazzi» aveva deciso di uscire da Mondazzoli, scegliendo la nuova avventura editoriale La Nave di Teseo, che la prossima settimana si presenterà al mondo proprio pubblicando il suo «Pape Satàn Aleppe». Con quali argomentazioni fece questa mossa? 
La motivazione della sua uscita dalla Bompiani di Mondadori non era assolutamente ideologica. Scherzando, ma non scherzando per nulla, diceva che se al posto di Marina ci fosse stato Vendola, per lui sarebbe stata la stessa cosa. La sua motivazione era editoriale, e peraltro espressa chiaramente sin dal mese di marzo, nel suo appello sul Corriere della Sera, nei suoi articoli su Le Monde e Repubblica: in nessun paese europeo,un editore va oltre il 24% del mercato interno. Il 35% o il 40% sono percentuali che — secondo Eco, e secondo noi tutti che siamo saliti sulla Nave — non fanno bene al mondo dei libri. Eco aveva fondato La nave di Teseo, ma non voleva assolutamente due cose: che la casa editrice si fondasse su di lui; e non voleva fare l’editore. Diceva: io rischio i soldi, voi il posto di lavoro e la faccia. Io scrivo, voi fate gli editori. E ci teneva molto che all’atto della fondazione ci fossero tanti autori presenti. Ha avuto modo di vedere gli uffici, di visitarli insieme a sua moglie Renate. Di vedere il progetto grafico di Cerri. Di correggere le bozze del suo ultimo libro, che uscirà la prossima settimana. Ha lavorato, insomma, sempre, fino all’ultimo. E sapeva farci lavorare. 

Ci può affidare qualche suo ricordo della lunga collaborazione in Bompiani, la figura intellettuale e anche amicale di Umberto Eco? Sue passioni, idiosincrasie, ossessioni culturali? 

Non posso. Davvero. Sono troppi. C’è un tappo di dolore che non mi permette di ricordare. Quello che mi impressionava era la sua generosità. Gli studenti lo ricorderanno sempre e per sempre. Era amato dai giovani perché un esempio di rigore e di come il rigore morale e intellettuale possa essere pieno di gioiosa ironia.


Ridere per conoscere: la rivoluzione di Eco 

L'eredità. L’ultima lezione: per una sinistra di alternativa e di governo, sapere è l’indispensabile 
Fabio Mussi Manifesto 21.2.2016, 13:04 
«E l’infame sorrise». È Franti, il cattivo di «Cuore». Tra le figure della scuola lacrimosa, pia e bigotta del De Amicis a Umberto Eco piaceva Franti. Ha scritto un «Elogio di Franti». Perché? Perché rideva. Eco sapeva ridere, Eco rideva. Se volessimo usare il suo fondamentale «Trattato di semiotica generale», e dare una «interpretazione» del «segno» di Eco, eccola: il riso. Nel «Nome della rosa» – ricorderete — Guglielmo di Baskerville indaga su una catena di delitti consumati in abbazia. I delitti servono a nascondere un documento su un indicibile segreto: Cristo aveva riso. Atto sovversivo, apocalittico, cioè rivelatore. Primo insegnamento da mandare a mente: si è seri solo se si è capaci di ridere, anche di noi stessi. 
Ho avuto il piacere e l’onore di incontrarlo più volte. È impressionante quel che sapeva, i collegamenti e i nessi che era in grado di intrecciare. Un aggettivo per la sua cultura? Sterminata. Secondo insegnamento: studiate. Senza studiare la politica non può essere né buona né nuova. Si rafforza per esempio in me l’impressione che noi non sappiamo quasi nulla della ipertrofica macchina economica mondiale che governa gli umani. Esoterica, come la storia del «Pendolo di Foucault». Eco si è letteralmente tuffato nel Medioevo. La sua non è stata una ricerca erudita su tempi lontani. Ha fatto scoccare piuttosto la scintilla tra Medioevo ed Evo moderno, nei labirinti di simboli, enigmi, mostruosità, occultismi. Gioco di ombre e di luci. 
«Secoli bui» sono stati chiamati quelli antichi. Ma non c’è tanto buio anche nel Moderno? Forse che l’assolutismo del capitale finanziario non sta spingendo la società umana verso un medioevo a più alto livello tecnologico? Non c’è tribalismo, razzismo, antisemitismo, fondamentalismo religioso, fanatismo, pensiero magico, banalità e piacere dello strazio dei corpi che non trovi facile cittadinanza nel mondo globalizzato? Sapete che cosa mi meraviglia, mi sorprende, e mi convince, delle parole lette ed ascoltate da Eco? Il considerare la storia del mondo, almeno dalla scrittura in poi (e non dimenticate che tutto è cominciato in quelle terre che oggi chiamiamo Siria e Iraq), come contemporanea. Si può parlare con il vicino di casa come con Guglielmo di Occam. Lo cito perché è uno degli autori più amati da Eco, ed è noto per il famoso «rasoio». 
Una teoria razionalista che qualcuno pone tra i fondamenti della scienza moderna. Dice in sostanza il «rasoio»: non bisogna formulare più ipotesi di quelle necessarie, non bisogna dire più del necessario. Il resto, si direbbe con la moderna teoria dell’informazione, è «rumore», che confonde e maschera l’informazione. Parlo con Guglielmo, e mi chiedo assai spesso quanto devo «tagliare» – faccio un esempio a caso — del diluvio di parole del Presidente del consiglio in carica in Italia per capire esattamente che cosa vuole dire e fare. 
Ecco ancora Umberto Eco: Occam e Mike Buongiorno, il basso e l’alto, le profondità della grande cultura e la fenomenologia della vita quotidiana. Egli è stato tra i grandi studiosi della società di massa, e della comunicazione nella società di massa. Il suo «Apocalittici ed Integrati» è un pilastro. Da cui trarrei per farla breve la terza raccomandazione: se si vuol fare una sinistra che si rispetti non bisogna essere apocalittici. Ma non si può nemmeno essere integrati. E nella comunicazione, se il mezzo non è esattamente il messaggio, tuttavia lo influenza. Sono noti gli scritti di Eco sull’ambivalenza del Web. Ha detto: se un cretino va al bar e spara fesserie, gli astanti lo sfottono. Se va su Facebook, trova legioni di seguaci. Come il leone e la gazzella, intelligenza e stupidità ogni mattina si alzano e si mettono a correre. 
Sulla rete circolano entrambe. Ma la stupidità parte con un vantaggio: la velocità. La verità è che l’intelligenza ha bisogno del dubbio, dell’approfondimento, del ripensamento: dell’esitazione. E c’è un Eco politico, impegnato e battagliero. Egli è stato fieramente antiberlusconiano, fino a rifiutare la collaborazione con l’oligopolio editoriale di «Mondazzoli», e aderire al progetto della neonata «nave di Teseo», per la quale – ahimé! — non ha avuto il tempo di scrivere nulla. E voglio dire che, nonostante tante chiacchiere, se nel ventennio di Benito non si poteva dirsi democratici senza essere antifascisti, nel ventennio di Silvio non ci si è potuti chiamare democratici senza essere antiberlusconiani. Sperando naturalmente anche che la serie dei ventenni sia esaurita. 
E voglio ricordarlo anche in una particolare occasione: Castello di Gargonza, 1997, governo Prodi da poco costituito. Mi capitò di essere tra i relatori. A favore della coalizione di centrosinistra chiamata «Ulivo». Trovai Eco tra i più convinti sostenitori. Prevalsero i tagliatori d’alberi. Resta il ricordo di ore indimenticabili passate con lui. E il rammarico per una delle molte occasioni gettate al vento. Vediamo di non buttarle tutte al vento. Dipende dalla sinistra che saremo. Una sinistra di alternativa e di governo. Ricordando che, e per l’alternativa e per il governo – traggo quest’ultima raccomandazione dalla vita e dall’opera di Umberto Eco- una cosa è indispensabile: sapere.


Cerchiamo di usare anche Toro Seduto 

Cinema e controinformazione. A meno di un mese dall'uscita del manifesto quotidiano, Dedalus incalzava a occuparsi anche di cinema, a parlare di quello di cui parla la gente e fare, lì, controinformazione, "come una attinia che si installi sul groppone di un paguro bernardo"
Dedalus Manifesto 23 maggio 1971 
Domenica scorsa la lettera di un compagno agitava un problema di notevole interesse. 
Perché il manifesto non si occupa anche di cinema, dato che attraverso gli schermi passano comunicazioni politiche vere e proprie su cui i lettori devono venire sensibilizzati? 
A distanza di pochi giorni Piero Arlori ha iniziato a occuparsi di due film analizzandoli dal punto di vista ideologico, ma naturalmente ha dovuto accentrare la sua attenzione su due film di notevole rilievo, di grande successo, e che dibattono in modo evidente un tema drammatico come il massacro degli indiani. 
Ma il messaggio politico che ogni giorno, da centinaia di schermi, viene portato avanti dalla più inoffensiva commedia d’amore (che dice più cose sull’inferiorità della donna che non una intera campagna antidivorzista dell’ on. Greggi); dal film di Franchi e Ingrassia, col suo razzismo bonaccione e masochista; dal film che sembra quasi di «contestazione» e ritraduce i valori borghesi fondamentali sotto forma di amplessi multipli sotto il ritratto del Che? 
Ovviamente il manifesto non può assumersi il compito di commentare tutti i film che escono e anche se lo facesse si correrebbe il rischio, credo, di fornire a molti lettori una riconferma consolatoria delle proprie idee: «Guarda che bravo quello, ha proprio detto quello che pensavo!», eliminando quella tensione che spinge invece a dire «cribbio, ma queste cose la gente non le sa, bisogna bene che qualcuno gliele dica!». 
Per cui mi piacerebbe che anche i futuri, e fatalmente sporadici, interventi del manifesto sul cinema, si inserissero nel piano più vasto di un circuito di controinformazione. 
Intendiamoci anzitutto sul termine di controinformazione, almeno come mi pare giusto intenderlo. 
Il manifesto non è un caso di controinformazione: è un quotidiano, stampato a Roma con mezzi industriali, che arriva nei posti più svariati attraverso i normali circuiti di distribuzione (anche se con gran fatica e tra mille ostacoli che gli altri mezzi di informazione non incontrano per ovvie ragioni); dà una informazione diversa dagli altri giornali, ma ripropone il rapporto consueto tra un lettore solo e il foglio che ha davanti a sé. 
Voglio dire che la controinformazione non è caratterizzata dai suoi contenuti ideologici. Deve essere caratterizzata dal fatto che essa si realizza sulle spalle, per così dire, dell’informazione normale, prendendola in contropiede e succhiandole e il sangue. 
Come una attinia che si installi sul groppone di un paguro bernardo, gli succhi il fluido vitale e lo risputi con una combinazione chimica diversa. 
Controinformazione non significa dire al telegiornale cose diverse, ma andare dove la gente guarda il telegiornale e intervenire facendo notare come esso distorce le informazioni e come, interpretandolo tra le righe, si potrebbe cavarne informazione diversa. 
Il vantaggio della controinformazione consiste allora nel cogliere il pubblico in un momento in cui è già sensibilizzato da qualcuno che parla, o scrive, e sulla base di quella attenzione già risvegliata indurlo a considerare le cose in modo diverso. In tal modo da un lato si critica il modo in cui l’informazione è data e dall’altro si aggiunge nuova informazione. 
Ora chiediamoci se ci sia una situazione di maggiore sensibilizzazione di quella in cui qualcuno esce da una sala cinematografica. Può avere visto un film con John Wayne o una commedia con Tognazzi, un’opera di Franchi e Ingrassia o di Fellini: in ogni caso gli è stato detto, magari in modo comico o avventuroso, qualcosa che lo tocca da vicino, che riguarda i rapporti di proprietà, il razzismo, il modo di considerare la famiglia, la libertà, il danaro, il ruolo dell’America nel mondo, la storia del nostro paese. 
Ora pensate a dei gruppi di giovani che preparino per alcuni film più importanti o di maggior successo una analisi breve e succosa in cui si dica: «Il film tale vi ha detto queste cose in questo modo; avete mai pensato che le cose potrebbero stare in questo altro modo e che il film ve le ha dette così per coprire il tale o talaltro interesse privato, oppure perché chi lo ha fatto è vittima della deformazione ideologica?». 
Come capite, a organizzarsi bene, un volantino del genere può essere preparato in una città ma funzionare poi per molti mesi sino a che il film venga proiettato nel più remoto paesino. Basta tenersi in contatto e scambiarsi i volantini di controinformazione. In tal modo ogni film può diventare occasione di un discorso politico e a lavorare con metodo ogni sera si raggiungono in ogni quartiere centinaia di persone. 
Se io esco da un film sugli indiani e mi trovo tra le mani un ciclostilato che parla di quel film, io lo leggo, se non altro per curiosità. E può darsi che quella sia la prima volta che imparo a vedere le storie degli indiani come un episodio del massacro imperialistico delle razze soggette. E così via. 
Cosa può fare il manifesto per aiutare questo circuito? Dare qualche suggerimento e qualche traccia in occasione di film importanti? Segnalare l’esistenza di gruppi che si mettono a lavorare in questo senso e operare collegamenti? 
Non so, direi che vale la pena di aspettarsi suggerimenti dai compagni.


Spara, ma con giudizio 

Giustizia. In questo corsivo estivo, Dedalus-Eco racconta un fatto di cronaca quasi banale: un colpo partito per sbaglio a un poliziotto sardo per festeggiare un gol di Gigi Riva. Ma in queste poche righe c'è tutta l'Italia di quegli anni (e di adesso) 
Dedalus Manifesto 25 luglio 1971 
La notizia in questione è sui giornali di giovedì scorso. Andrebbe appesa in albi murari invitando la popolazione dei quartieri a un concorso a premi, per vedere chi riesce a interpretarla in modo ragionevole (cioè chi riesca a interpretarla salvando da un lato l’esistenza dei fatti e dall’altro la razionalità del sistema). Badate, il gioco controinformativo non consiste nel dire, che so, «dopo la rivoluzione sarà diverso», oppure «in Cina non si fa così». No, no. Assumiamo per buona la logica vigente, siamo in una democrazia parlamentare, la notizia va giudicata nella logica della democrazia parlamentare. 
Dunque, il 14 giugno dello scorso anno Oronzo Quaranta, da Ostuni, Brindisi, si esalta perché Riva, nella Italia-Messico, fa un bel goal. Folle di gioia, cava la pistola e spara un colpo per esprimere la sua felicità. Oronzo non solo è tifoso e sconsiderato, ma è anche un pessimo tiratore, perché ammazza la signora Giuseppina Murru. 
Oronzo va naturalmente sotto processo. Omicidio colposo, d’accordo (è sicuro che il poveretto non aveva intenzioni omicide); però un cittadino che per tifo calcistico perde il controllo a tal punto dovrebbe come minimo essere internato in un manicomio criminale, sia pure con la consulenza del professor Basaglia. 
Morale, quattro mesi con la condizionale. Pochino, direte voi, anche per un omicidio colposo. Si richiede la pena di morte per un individuo, senza dubbio malato, che uccide una ragazzina, e Oronzo non è senza dubbio un malato? E se è colposo il gesto di Oronzo, giustificato dall’entusiasmo calcistico, non è altrettanto colposa la sassata di uno studente che, per entusiasmo politico, reagisce a un bel tiro di lacrimogeno? Ma la storia non è finita qui. Perché Oronzo è un agente di pubblica sicurezza, e quando ha sparato il suo mortaretto (ci si perdoni il ferale gioco di parole) era di servizio (sentite sentite) a un posto di blocco presso Nuoro. 
A questo punto interviene il tribunale militare per dire: no, Oronzo me lo giudico io. Voi dite: il tribunale militare giudica inconcepibile che un cittadino in armi, a cui lo Stato ha concesso l’uso della pistola per difendere la collettività, dia prova di tale irresponsabilità. Infatti si condanna a cinque e più anni di galera uno che non vuol fare il servizio militare perché gli ripugna sparare: giusto e sacrosanto, sparare è un dovere di tutti i cittadini, ma allora quando un cittadino tradisce questo dovere sparando fuori luogo, è l’ergastolo. 
Nossignore. Il tribunale militare vuole processare a modo suo Oronzo per violazione di consegna e spreco di proiettili. 
Il tribunale civile per questi due reati gli ha dato trenta giorni di reclusione; invece in circostanze analoghe i tribunali militari hanno comminato ben tre mesi di reclusione, due per violata consegna e uno per spreco di pallottola. Così Oronzo sarà processato a settembre non per l’omicidio, già sistemato con la condizionale, ma per violazione e spreco, e si prenderà, male che vada, tre mesi. 
Il concorso a premi concerne alcuni casi possibili. E se Oronzo invece di una signora avesse ucciso per sbaglio un bracciante in sciopero? Ci sarebbe stato lo spreco di pallottola, visto che prima o poi su quel bracciante avrebbe dovuto sparare? E quando degli agenti, presi dal panico, perdono il controllo e sparano su un gruppo di anarchici e colpiscono un passante nelle natiche (vedi l’infausto giorno di Saltarelli), si ha spreco di pallottola e violata consegna? Oppure l’entusiasmo per Riva non giustifica il salto dei nervi, mentre l’odio per gli studenti extraparlamentari sì? Oppure la consegna non è violata perché è stato dato ordine di sparare? Quante pallottole sono state «sprecate» ad Avola? 
Come vedete è una serie di piccole questioni che si possono porre con una certa legittimità. Perché qui, intendiamoci, siamo nella logica del legittimo. Io voglio sapere cosa accadrà al prossimo obiettore di coscienza che rifiuti di fare il soldato perché è tifoso del Cagliari e non sa cosa potrebbe succedergli durante il prossimo campionato. Così come si presentano le cose, il consiglio potrebbe essere: «fai il soldato, o l’agente: male che ti vada prendi quattro mesi con la condizionale e quanto ai tre della violata consegna e lo spreco di materiale dello Stato, vedessi mai che la partita coincide con una occupazione di case popolari, e ne esci pulito?».


Non fare uscire dall’utero il cittadino tranquillo 

Lezione meteo. Dietro le notizie meteo, le notizie ovvie, i meccanismi fondamentali delle comunicazioni di massa. Sul perché il manifesto racconta che fa caldo, sì, ma a Kartum e non a Milano 
Dedalus Manifesto 8 agosto 1971 
In queste giornate di distesi silenzi e di strade deserte, negozi chiusi e solleone a picco, piscine piene ed autostrade sanguinolente, una delle consolazioni del lettore dei quotidiani consiste nello scorrere la prima pagina del giornale e trovare articoli anche su quattro colonne dal titolo «Afa a Milano», «Caldo insopportabile a Roma», «La città è deserta» e così via. I nostri occhi percorrono ghiottamente quelle colonne in cui ci si racconta con dovizia di particolari quello che, a pensarci bene, sappiamo già benissimo, dato che leggendo ci tergiamo il sudore nella città vuota e silenziosa. 
Badate, non si sta dicendo che è inutile che il giornale dia notizie meteorologiche, perché anche chi ha caldo gradisce sapere che suda a 32 gradi piuttosto che a 34 gradi; e non si pensa tanto ai giornali a tiratura nazionale i quali hanno anche la funzione di far sapere a chi sta a Roma che a Milano fa caldo e a chi sta in vacanza entrambe le cose. 
Qui si sta pensando a notizie del genere pubblicate su giornali locali e pubblicate in giugno e ai primi di luglio. Quindi il problema non dipende dalla carenza di notizie nelle settimane estive: anche perché con Al-Fatah massacrato, gli agrari che ammazzano i sindacalisti, gli astronauti sulla Luna, le notizie almeno per questo agosto non mancano. Eppure i giornali occupano grandi tagli bassi di prima pagina per dire «Afa a Milano». 
Si tratta di una notizia limite che tuttavia perfeziona un procedimento tipico della stampa quotidiana: si pensi per esempio alle notizie sugli acquazzoni, sul freddo o sulle nevi che giustificherebbero al massimo un breve bollettino del tempo. 
La prima ragione di questo procedimento dipende da quello che ormai è un teorema nel mondo delle comunicazioni di massa: esse trionfano quando dicono ai propri utenti quello che sapevano già. Non vi è nulla di più confortante che sentirsi ripetere notizie già possedute. L’utente non viene messo in crisi, si diverte, si crogiola nel normale, viene riconfermato nelle proprie opinioni e ripaga il mezzo di massa con il suo consenso e con il suo contributo economico. 
In questo senso il meccanismo della notizia ovvia è lo stesso che presiede alla composizione di una canzone di Sanremo: sia le parole che la musica devono ricordare una canzone precedente, in modo che il prodotto sia subito riconosciuto ed amato. Un poco come quegli uomini (tutti?) che cambiano anche moltissime donne, ma tutte assomigliano in modo diverso alla mamma. Il cittadino tranquillo non deve mai uscire dall’utero. 
Ma il secondo motivo è più interessante. Qual è la funzione principale di una notizia «afa a Milano» letta da un milanese e concernente cose che il milanese sa già benissimo? E’ quella di aumentare la credibilità dell’organo di stampa. 
Se io leggo «afa a Milano» mentre mi liquefo dal caldo, la prima reazione è quella di dire «è proprio vero». Tocco con mano che quel giornale mi dice le cose proprio come stanno. E istintivamente, dato che il mio riconoscimento di veridicità investe almeno cinque colonne di una pagina, sono portato a pensare che anche tutte le altre notizie (e quelle false notizie che sono le valutazioni) siano vere. E tanto più saranno vere quanto più ripeteranno le notizie e le valutazioni del giorno prima, dicendomi quindi quello che il giornale mi dice sempre e non turbando il mio equilibrio morale e politico. 
Ci vuole così poco. Se il manifesto invece di rompere le scatole con notizie inquietanti dedicasse più spazio a notizie del tipo «oggi è domenica» e «siamo nel cuore dell’agosto», aumenterebbe subito la tiratura e eviterebbe di dover fare onerose collette tra i lavoratori. 
Che gli altri giornali fanno lo stesso, ma in modo più indolore, aumentando il prezzo e facendo dare come resto una caramella. Il che rende assai di più di 10 milioni che questo strano giornale va sbandierando, mentre racconta ai suoi lettori che sì, fa caldo, ma a Kartum e non a Milano, rovinando le vacanze agli onesti cittadini i quali sono costretti, per difendersi, a non leggerlo.




Eco fu il migliore della sinistra che si crede sempre migliore
Incarnò alla perfezione la presunta superiorità antropologica dei progressisti sugli "altri". Rinunciò a capire gli italiani che sognavano una destra liberale preferendo attaccare il mondo berlusconiano

Elisabetta Sgarbi: "Eco feroce, beffardo, geniale. Il Nobel? Ci speravamo più noi"
Luigi Mascheroni Giornale Dom, 21/02/2016 

Nell’abbazia del Nome della rosa 
Lorenzo Mondo Stampa 21 2 2016
All’Università di Torino, dove già primeggiava alla scuola di Pareyson, Umberto Eco lo intravidi appena. Mi familiarizzai con lui quando, nel 1980, uscì «Il nome della rosa». Lo recensii su questo giornale, manifestando sorpresa perchè il teorico dell’«opera aperta» avesse scritto un romanzo così impermeabile alle suggestioni della ormai vecchia Neoavanguardia. La polisemia, le possibili «aperture» dell’opera venivano risucchiate in una struttura abbastanza tradizionale. Dove l’agguerrito studioso del Medioevo rendeva omaggio al popolare, accattivante romanzo poliziesco. Innestando però, sulla storia misteriosa dei crimini commessi nell’abbazia montana, un fervido romanzo di idee. In esso si esprimeva ad ogni passo la fiducia nella ragione, nonostante i suoi limiti ammessi con malinconia, il rifiuto dell’intolleranza, delle crudeli imposizioni di chi pretende di incarnare rigore e purezza. Insieme all’elogio del riso come fonte di libertà. Umberto Eco espresse consenso per la recensione, senza dismettere il suo abito di studioso: «Non ammetto letture “giuste” del mio romanzo, ma certo la sua mi è stata “molto” congeniale».
Da allora continuai a occuparmi dei suoi romanzi, registrando la sua capacità di far interagire cultura alta e cultura popolare. 
Passando, con atteggiamento mai schifiltoso, dal romanzo giallo al feuilleton e al fumetto, capaci di offrire una presa diretta sulla realtà («Le donne sono più simili a Milady che a Lucia Mondella ...e la Storia è più simile a quella raccontata da Sue che a quella progettata da Hegel»). Ho visto quasi una summula di questa propensione nella «Misteriosa fiamma della regina Loana», un suo romanzo poco frequentato. Dove il protagonista, avendo perso la memoria per un ictus, trova in una labirintica soffitta un coacervo di materiali poveri - giornalini, quaderni di scuola, vecchi dischi - che lo immettono nel profondo della sua esistenza, quasi una discesa alle Madri. E raccontano paradossalmente - attraverso Mandrake, don Bosco, Bing Crosby, la regina Loana - la storia di una generazione. Quella suggerita per altro verso da episodi, compresa la guerra di Liberazione, della sua infanzia in Monferrato. 
Ecco, si può rinvenire anche questo nel poliglotta e giramondo Umberto Eco, l’attaccamento mai venuto meno, nella stessa scrittura, alle radici piemontesi. Nel «Nome della rosa» l’abbazia benedettina è ispirata alla valsusina Sacra di San Michele, frequentata durante le vacanze. «La misteriosa fiamma della regina Loana» esalta le colline che digradano su Alessandria dove lo scrittore è nato. Anche per questo lo sento più vicino e lo saluto, commosso, al suo ultimo congedo.

Maestro della comunicazione, da “apocalittici e integrati” a “opera aperta”, i suoi titoli sono diventati slogan
Panarari Stampa 21/02/2016



Raccontava che un Berlusconi alle prime armi gli chiese consigli per le tv. “Poi fece il contrario di quel che dicevo e diventò ricco...” 
Gianni Riotta Stampa 21 2 2016

Vattimo: per il mio compleanno mi regalò una barzelletta 
Mario Baudino 
Dai banchi dell’Università di Torino alla lunga militanza culturale, fino alla notorietà nazionale e magari alle passeggiate per New York dove, dice Gianni Vattimo, «quando eravamo insieme c’era sempre qualcuno che chiedeva chi fosse quel tizio accanto a Eco. E io me la godevo, mi faceva piacere. Oltre che essere un grande amico e nei primi anni, dopo la morte del nostro maestro Luigi Pareyson, un vice-maestro, era uno dei pochi geni nei cui confronti non abbia mai provato la benché minima invidia».
Il filosofo e il semiologo-romanziere. «Fin da giovane era estroverso e spiritosissimo, creatore instancabile di giochi di parole e battute. In qualche modo mi ha insegnato lui un certo modo di scherzare, anche se a causa di Berlusconi le barzellette a un certo punto sono diventate, in sé, qualcosa di intollerabile. Non se ne poteva più, lo ammetteva anche lui e un poco gli dispiaceva. Ma quelle di Eco erano molto migliori rispetto a quelle dell’ex premier».
Ma una certa goliardia fraterna, quella non si poteva dimenticare. «Quando io ho compiuto 70 anni, mi ha telefonato il suo regalo di compleanno. Uno dei suoi motti di spirito». Che diceva? «Eh, mica si può ripetere sul giornale». Proviamoci. «Insomma, c’è una coppia ormai sperimentata, che fa sosta in albergo, cena, beve e si ritira in camera. Lei allora dice a lui: facciamo come la prima volta, dài, spegni il lume e mettimelo dove sai. Pausa, buio, e nelle tenebre risuona un grido: non il lume, cretino!».
Il filosofo se la ride beato, e forse questo è l’addio che si augurava un uomo arguto come Umberto Eco. Poi si passa alle cose serie. Da dove veniva questa ironia forse piemontese, colta, tutta giocata sul linguaggio? «Questo non è chiaro ai più, ma per me è evidente. Dall’associazionismo cattolico, dalla sua - e dalla mia - socialità della giovinezza. È lì che ha imparato a raccontare barzellette, e non solo. Ha imparato uno stile, una retorica della semplicità, della conversazione arguta ed efficace, che gli ha permesso di farsi capire sempre, anche quando affrontava gli argomenti più difficili».


Da Eugenides a Le Goff la sua fortuna oltre frontiera 

Paolo Di Paolo 
In un bel romanzo d’amore del 2011, La trama del matrimonio dell’americano Jeffrey Eugenides, la ragazza Madeleine si sta innamorando, intanto studia semiotica e legge Umberto Eco. Ambientato negli Anni 80, il libro racconta l’epoca in cui lo strutturalismo sembrava una rivoluzione, «Wordsworth ti faceva sentire una secchiona sciatta e sporca d’inchiostro», però «potevi disertare e arruolarti nelle file del nuovo regno di Derrida ed Eco. Potevi iscriverti a Semiotica 211 e scoprire di che cosa stavano parlando tutti».
Che l’«umanista totale» Eco compaia nel romanzo di uno scrittore americano cinquantenne non sorprende. Con Calvino, è l’unico italiano che sia davvero sbarcato - per restarci - nella cultura internazionale. Di fronte al successo del Nome della rosa, fiorivano saggi a ogni latitudine: in un volume corale del ’90, Effetto Eco, Jacques Le Goff ne parlava come di una «intelligenza artificiale», esaltandone la fisionomia di Homo ludens. David Lodge gli riconobbe la paternità del postmoderno letterario. L’argentino Héctor Bianciotti si interrogava sul misterioso libro-feticcio del 1980, intellettuale e popolare insieme («Vorrei conoscere un solo lettore che abbia capito il discorso teologico»). Il Pendolo di Foucault, invece, non andò giù a Salman Rushdie.
Ma Eco ha avuto successo perché più cosmopolita che italiano? La stessa domanda è valsa e vale per Calvino. Jonathan Lethem riconosce che, con Pirandello e le Lezioni americane, solo Eco sta nella bisaccia italiana della sua formazione. Ellmann, Steiner, Weaver, Galassi: tanti gli americani che hanno trovato in lui un interlocutore ideale - quest’uomo che apriva tutte le finestre possibili, che si affacciava dappertutto.
E adesso? L’altra domanda è perché dopo di lui nessuno più. Giocoso ma mai sciatto, Eco alzava sempre la posta in gioco del sapere umanistico. E noi?
Paul Austger “Ci ha insegnato il valore delle cose che non esistono” 

Lo scrittore americano: “Cercandole si scopre come cambiare l’umanità” 

«La sua straordinaria fame intellettuale, per le cose che esistono, ma anche per quelle che non esistono». 
Paul Auster usa una battuta, per celebrare la grandezza di Umberto Eco, perché pensa che il maestro avrebbe apprezzato: «Ci lasciammo con una risata, l’ultima volta che ci incontrammo a Parigi. Ora gli auguro tutto il bene possibile, in questo nuovo capitolo della sua avventura che ha appena cominciato». Auster è nella sua casa di Brooklyn, quando lo chiamo. Sta lavorando al suo nuovo libro autobiografico, e in queste condizioni in genere preferirebbe di non essere disturbato. Stavolta, però, fa un’eccezione: «Mi hai preso al momento giusto. Ho letto tutti gli articoli che sono riuscito a trovare su Eco, dopo la notizia della morte, e ci tengo a parlare di lui».
Perché?
«Avevo una profonda ammirazione per Eco, come scrittore e come essere umano. Una persona straordinaria, interessata a tutto, mai banale. Era un piacere leggere i suoi libri, e un piacere ancora più grande stare in sua compagnia».
Da cosa nasce questa sua ammirazione?
«Dalla straordinaria fame intellettuale che aveva. Tutto lo incuriosiva e tutto sapeva. Ma non era solo erudizione fine a se stessa: era mosso dalla determinazione a comprendere, e possibilmente a spiegare».
Le cose che esistono, ma anche quelle che non ci sono. Detto da lei, che nei suoi romanzi si è divertito a giocare con la realtà, sembra quasi la condivisione di un obiettivo programmatico.
«Credo che l’atteggiamento di Eco verso la conoscenza intellettuale fosse il prototipo a cui dovrebbero ispirarsi tutti, letterati e non. E’ giusto e necessario avere curiosità per le cose che esistono, perché viviamo in questa realtà e abbiamo l’obbligo di provare a comprenderla. Dobbiamo farci i conti per quello che è. Il vero salto di qualità però lo facciamo quando accettiamo la sfida di interessarci anche alle cose che non esistono, o quanto meno che non vediamo in maniera evidente. Solo così si riescono a fare le scoperte intellettuali che cambiano l’umanità».
E questa era la caratteristica fondamentale di Eco?
«Nei suoi libri, dal “Nome della rosa” in poi, ma anche nella sua attività quotidiana, non esisteva cosa che non attirasse la sua attenzione, nel bene o nel male, e che non volesse conoscere».
I critici dicono che dopo Italo Calvino, è stato l’italiano che ha avuto più influenza sulla cultura americana.
«I paragoni nel campo letterario lasciano sempre il tempo che trovano, ma l’impatto di Eco sulla cultura americana, e direi su quella internazionale, è fuori di discussione».
Ha detto che vi siete salutati con una risata. Ci può ricordare quando è avvenuto?
«Qualche tempo fa, a Parigi. Ci incontrammo a una fiera del libro e parlammo di tutto, in maniera molto piacevole, per parecchio tempo. Con lui era molto facile: si passava da un argomento all’altro, al punto che alla fine non riuscivi a ricordare tutte le cose che ci eravamo detti».
E la risata?
«Ah, sì, appunto. Lui doveva andare sul palco per fare una cosa su Luis Buñuel, insieme al suo collaboratore storico Jean-Claude Carriere. Siccome entrambi si erano fatti male a una gamba, giravano col bastone. Alla fine Eco si alzò con una certa fatica, e appoggiandosi si avviò verso il palco. Allora si rivolse a me, e mi saluto con un sorriso: ecco, andiamo a fare lo spettacolo degli zoppi».
Perché le sembra un fatto significativo?
«L’episodio in sé è banale, ma l’ironia di Eco era fondamentale. Abbiamo già detto che aveva una straordinaria curiosità intellettuale, una enorme voglia di conoscere, una grande erudizione, e anche una eccezionale abilità nel comunicare. Non bisogna dimenticare, però, che sapeva fare tutto questo con leggerezza, con umorismo. Era capace di scherzare anche su se stesso, sulla sua vita, sul proprio ruolo. E’ un altro aspetto importante del suo carattere, che gli ha permesso di essere ascoltato più di quanto avrebbe potuto una persona troppo seriosa e piena di sé. Cercare l’ironia, e accettarla anche verso se stessi, è un punto di forza degli uomini, non una debolezza. Eco lo sapeva, e seguiva questo principio con grande talento e naturalezza».
Cosa pensa che rimarrà del lavoro che ha fatto, nell’accademia, nella letteratura, nei giornali?
«Perché rimarrà? Quando scompare una persona così, in realtà non muore. E non mi riferisco solo ai libri, agli articoli, ai discorsi che resteranno nella nostra memoria».
Di cosa parla, allora?
«Non so, non lo so spiegare. Però mi piace ricordare il contributo che Eco ha dato alla cultura mondiale, esprimere la mia profonda ammirazione per lui, e soprattutto augurargli ogni bene per la nuova avventura che ha appena cominciato. Qualunque e dovunque essa sia». 


Ha aperto la strada a una nuova avventurosa stirpe di romanzieri 

Scurati: una sera a Parigi mi spiegò tutto parlando di Athos, Portos e Aramis 
Antonio Scurati 
Come accade con i grandi uomini, Umberto Eco è stato il primo e l’ultimo. L’ultimo di un’antica, nobile stirpe di sapienti e il primo di una nuova, avventurosa stirpe di romanzieri. In lui una tradizione si è estinta e, al tempo stesso, è rinata. 
Provo a spiegarlo attraverso un aneddoto, che è anche un ricordo personale, questo nostro patetico, goffo tentativo di dare la scalata al muro della morte.
Parigi, notte, parecchi anni fa. Il giovane scrittore ha avuto il privilegio di cenare con il maestro. E’ una fresca nottata primaverile, notte perfetta. A pancia piena, i due s’incamminano verso casa. Il giovane, un po’ per vincere l’imbarazzo e un po’ perché ha l’arroganza della gioventù, riempie il silenzio postprandiale sproloquiando di astruse teorie letterarie. Giunti a place Saint-Sulpice, il maestro, con un gesto al tempo stesso bonario e perentorio, pone una mano sulla spalla del giovane a zittirlo e con l’altra, armata di sigaro, indica un punto che si perde nelle tenebre: «Laggiù – gli dice – in rue du Vieux Colombier abitava Porthos, là in rue Férou stava Athos, più avanti in rue de Vaugirard viveva Aramis e da quella parte, in rue des Fossayeurs, era la dimora di D’Artagnan. Buonanotte». Ciò detto, s’incamminò, finalmente solo, verso casa, lasciandomi a scrutare nel mistero della notte parigina, divenuta a un tratto immaginifica.
In quel modo, burbero e affettuoso, lui che aveva scritto testi fondamentali per la comprensione teorica della letteratura, mi stava insegnando che un solo, grande romanzo vale cento libri di teoria letteraria. Ma lo faceva senza rinnegare l’erudizione vasta e il profondo sapere di cui era depositario. Al contrario, mi indicava, illuminando la notte parigina con la brace del suo sigaro, il punto in cui sapere ed erudizione giungono alla confluenza con la creazione letteraria. E di lì alla foce nel mare aperto dei lettori ignoti e comuni. 
Alcuni anni prima, nel 1980, con «Il nome della rosa», Eco aveva posto fine alla calamitosa e insensata guerra della cultura intellettuale contro il proprio popolo e la sua cultura. Pacificando quel conflitto suicida con un romanzo ipercolto ed iperpopolare - conflitto che era giunto fino all’assurdità di proclamare con compiacimento la morte del romanzo – Eco si era assunto il compito titanico di traghettare l’immane cultura intellettuale di cui era portatore verso l’altra sponda, la sponda «barbarica” dell’avvenire, abitata da un popolo straniero ed estraneo alla cultura del libro. Su quella sponda, ad attenderlo non c’era una nuova cultura popolare, ma una novità inaudita: la cultura di massa. Nessuno, però, lo sapeva meglio di lui. E, così, Eco, con la città degli avi bruciata alle spalle e carico dei propri penati, come Enea cominciò ad aprirsi la via a colpi d’intelligenza nella boscaglia.
La voracità di grande mangiatore e di forte bevitore di Eco era leggendaria. Quella stessa sera me ne diede prova. Nel ristorante affollato l’attesa della prima pietanza si prolungava. Eco smaniava come un cavallo imbizzarrito. Quando finalmente mi servirono, il maestro, governato da una pulsione irrefrenabile, attinse immediatamente dal mio piatto. (Ricordo anche un’altra sera, più triste, di molti anni dopo, quando i medici gli avevano tolto i sigari e il whiskey amatissimi: «Non posso bere, non posso fumare, me ne vado a dormire», mi disse quella sera indossando una indimenticabile maschera di desolazione). Non si tratta di una curiosità invereconda sul grande intellettuale defunto, ma di una qualità peculiare di quel grande intellettuale vivente. Il gusto, anche smodato, che Eco dimostrava per la vita materiale era il prolungamento della voracità intellettuale, e viceversa. Il piacere sovrano che traeva dal cibo, dal fumo e dal whiskey erano una sola cosa con il piacere affabulatorio della lettura al quale ci restituì rinnovando l’antica arte del romanzo letterario nell’era della cultura di massa.
Che dire ancora in morte di un uomo che aveva letto tutti i libri, scritto i libri dell’avvenire e bevuto un milione di whiskey? Niente altro. Che la terra ti sia lieve, prof.

“I professori spiegavano e lui disegnava vignette” 

Il compagno di banco ha conservato i suoi schizzi di 70 anni fa 

Letizia Tortello Stampa 
La loro squadra di calcio si chiamava «Apocalisse Football Club». Erano in 1ªA, al liceo Plana di Alessandria. Classico, ovviamente. Il morale pre-partita era «altissimo», i propositi «battaglieri», lo stato di salute dei giocatori «bene, grazie». 
Le mascotte, certo, del tutto originali. Terrificanti. Per spaventare quelli della 3ªA, gli avversari. Pestilenza, Fame, Guerra e Morte. Buffi e goffi cavalieri che portavano fortuna e raffiguravano, surreali un po’ in stile Jacovitti, le piaghe d’Egitto. Li aveva disegnati Umberto Eco. «Lui non giocava, non era un grande sportivo. Era il motivatore, l’ufficio marketing della squadra», racconta Mario Garavelli, magistrato, e tiene in mano una scatola piena di foglietti autografati da Eco. Sono gli schizzi, i fumetti sardonici buttati giù dallo scrittore, il suo vicino di banco per 5 anni. 
In classe, il professore si sbracciava per «darci lezioni di filosofia e storia - continua Garavelli -. Umberto lo ascoltava e disegnava. Non era irriverente, solo molto brillante. I docenti lo consideravano un po’ superficiale, spiritoso, “barzellettaro”». A scuola era bravissimo. Non il primo, ma il terzo tra i compagni, «il suo stile non piaceva all’insegnante di italiano». Le vignette, custodite per quasi 70 anni da Mario Garavelli e dalla moglie, la linguista Bice Mortara Garavelli, sono uno spassoso spaccato di cultura classica. Ed ecco che La leggenda di Teodorico del Carducci, con il re che «vecchio e triste al bagno sta», diventa l’immagine di un uomo con mutandoni e barba irsuta in piedi nella vasca. Ecco che la rappresentazione della Tragedia greca mette in scena uno Zeus con elmetto in qualità di «Deus ex machina», alla guida di un’auto volante; da un tombino escono i fumi dell’Averno. Umberto Eco il bibliofilo, fin da adolescente, il «lettore più appassionato di tutti noi», il latinista, amava la lingua di Giulio Cesare e la trasformava, nei suoi scherzi di carta, in un disinvolto «latinorum»: «È morto Giulio Cesare», «E chissene frega», «Mannaggia a li pescetti», scriveva in quasi latino. Con un animo da liceale divertito e arguto, «che ha mantenuto per tutta la vita».


Le passioni alessandrine: Gelindo e la bellecalda 

Piero Bottino Stampa
Trombettiere invece di romanziere? Un’opportunità Eco l’ha pure avuta. Era il 1943 e anche per un «enfant prodige» la prima cosa era portare a casa la pelle. Così il decenne Umberto a primavera fu fatto sfollare da un’Alessandria sotto le bombe a una più tranquilla Nizza Monferrato, dove uno dei suoi tredici zii dirigeva l’ufficio tributi. La vigilia di quella partenza l’ha raccontata in uno scritto semi-dimenticato: una lunga, malinconica corsa notturna in bicicletta per le strade alessandrine, per imprimersi nella mente la sua città. A Nizza approdò subito all’oratorio e, superato il particolare esame di coraggio (cinque calci nel sedere e un’ora chiuso nella gabbia dei conigli), gli fu offerto di entrare nella banda musicale: voleva suonare la tromba, ma il «don» aveva bisogno di un tricornista e lui borbottando disse sì. 
Attore per i frati
Il legame con le organizzazioni religiose lo riallacciò rientrando ad Alessandria, dove fu ingaggiato dai frati francescani che ogni anno mettono in scena Gelindo, o la divota cumedia della Natività. Non ebbe mai ruoli di primo piano, ma calcare le scene doveva piacergli se molti anni dopo, quand’era già famoso, continuava a fare dei blitz inattesi durante la recita. Una volta, travestito da centurione romano, si fece prendere così tanto la mano che dovettero quasi intimargli di scendere dal palco.
Di una fuga, sempre per via dei frati, fu invece protagonista nella sua stagione sportiva, quando aveva solo 14 anni. Giocava al calcio nelle giovanili e nei tornei dove non c’erano referti veniva schierato nella sua squadra anche un ragazzo di 23 anni, che però ne dimostrava molti meno. Solo che una volta gli avversari se ne accorsero e tentarono di farsi giustizia con le spicce, così il ventitreenne passandogli accanto con la bici gli urlò «Umberto salta su» e lo portò in salvo sulla canna.
La farinata 
L’altro rito era quello della farinata, la «bellecalda» come la chiamano in città per via dei venditori che un tempo, urlavano appunto quelle due parole che diventavano una sola. Quando nel 2007 venne a inaugurare la rinnovata biblioteca civica, nella quale aveva ambientato anche un capitolo del fortunato Come si fa una tesi di laurea, non volle compensi ma appunto la farinata e per l’occasione tornarono al forno i Savino, la più nota famiglia alessandrina di «bellecaldisti» che aveva lasciato l’attività qualche anno prima. Comunque trombettiere non lo divenne mai. Ma una svolta la sua carriera poteva averla nel 1988 quando, sempre in città, durante una «cena del ringraziamento» con i librai dopo il successo del Pendolo di Foucault dichiarò ufficialmente: «Basta con i romanzi, d’ora in poi scriverò solo cose serie». Ma forse aveva solo ecceduto con le libagioni.



Ma in fondo è stato un conservatore col culto dello studio 

21 feb 2016  Libero RICCARDOPARADISI FAUSTOCARIOTI 
Non si può ridurre Umberto Eco alla peggiore versione di se stesso. Eco è stato qualcosa di più dei suoi umori e delle sue ossessioni: è stato «un enciclopedista che ha dato la misura dellamemoria delmondo nel ’900», come ha dettoVittorio Sgarbi e non c’è motivo di cercare una definizione migliore. Poi, certo, è stato anche un cattivomaestro, e a suomodo un ossesso ideologico, un insopportabile snob, persino un presuntuoso. Detrattore sottile di complottisti e dietrologi, definì le Br un’invenzione di polizia e servizi segreti; sensibile al ridicolo, aveva eletto Berlusconi a proiezione di tutti i mali dell’Italia e degli italiani; nemico della generalizzazione, s’era inventato lameta categoria dell’«Ur-fascismo», unconcetto-feticcio incuinelle notti della storia tutte le vacche hanno la camicia nera. 
Eco è stato anche un presuntuoso: in una polemica sul relativismo etico era arrivato ad accusare Ratzinger di dilettantismo filosofico, un infortunio dei più rivelatori per il professoreche avrebbe voluto essere riconosciuto come importante filosofo. 
Tuttavia, se questi limiti qui inventariati per sommissimi capi, nonpossono essere taciuti, non è nemmeno possibile ridurre la sua figura come si diceva a quella di un brillante retore organico alla sinistra. Eco è stato un pensatore che ha compreso a fondo i temi del nostro tempo assumendone su di sé le contraddizioni, la loro natura ambigua. Apocalittici e integrati è un saggio seminale dove c’è già tutta la complessità del suo discorso, la sua estremamodernità e al tempo stesso la sua natura in fondo conservatrice. Legata al rigore delpensiero classico aristotelico, all’ordine della scolasticamedievale, alla serietà dello studio e delmetodo. Un modo di essere che non traspariva solo da alcunemesse apunto - «IlproblemadelTugeneralizzatodiceva- haachefareconlaperdita generazionale diognimemoria storica» - ma anche dalla durezza con cui si rivolgeva alla platea dei suoi più incauti zelatori, quelli per cui la commistioneda luidescritta tra cultura alta e bassa diventava alibi per la sciatteria, contestazione senza la fatica del concetto, scatenamento istintuale. 
In Come si fa una tesi di laurea, per dire, Eco è feroce con chi vorrebbe spacciare una tirata ideologica per un lavoro scientifico. Non invecchia nell’avanguardia: l’eversore culturale degli anni ’60, che con il suo elogio del Franti e la fenomenologia di Mike Bongiorno ha contribuito a dissolvere il vecchio paradigma culturale tardo ottocentesco, è l’altra faccia dell’Eco dellamaturità, che si interroga con preoccupazione sui fenomeni emersi dal grande disordine. Il grado zero dell’intelligenza, lo slogan che sostituisce il pensiero, il progressismo cretino, i social network che hanno dato diritto di parola a milioni di imbecilli. L’ultimo Eco, al di là delle sue idiosincrasie politiche, è un uomo inquieto e un conservatore preoccupato della deriva nichilistica della tardamodernità. 



Ilmanicheo che teorizzava l’inferiorità etica della destra 

Accecato dall’ideologia, ha sparato ad alzo zero su chi non votava come voleva lui: criminali oppure ignoranti lobotomizzati dalle tv

21 feb 2016  Libero 
De mortuis nihil nisi bonum. Ma se il defunto è l’intellettuale italiano più noto nel mondo c’è anche 
l’obbligo della verità. Tutta, inclusaquella sgradevole. L’autore del Nome della rosa è stato tante cose. Politicamente parlando è stato l’intellettuale più autorevole tra coloro che hanno diviso l’Italia in due, per venti lunghissimi anni. Da una parte chi studia, legge (preferibilmente Repubblica e Micromega) e ha una coscienza: l’Italia dei giusti. Dall’altra, l’Italia della barbarie: delinquenti, favoreggiatori di delinquenti, subumani della cultura. In parole povere: tutti coloro che hanno votato per SilvioBerlusconi. Una dicotomia che ha fatto di Umberto Eco il grande teorico della inferiorità etico-culturale degli elettori di centrodestra. 
Il difetto di Eco non era la sua antipatia viscerale per il Cavaliere, che nel 2006 lo spinse ad annunciare la fuga dall’Italia (figuriamoci) se avesse vinto Berlusconi e che è appartenuta e appartiene a tanti, anche a destra e che spocchiosi non sono (non sempre, almeno). Era invece il disprezzo antropologico dell’intellettuale illuminato per milioni di italiani. Quel «razzismo etico» che gli è costato ungiudiziodurissimo da un intellettuale di sinistra senza paraocchi come Luca Ricolfi. Il quale, ricordando come si comportò nella seconda metà degli anniNovanta la categoria cui lui stesso appartiene, scrisse sulla Stampa: «Fu proprio in quell’epoca che la sinistra, tramortita e incredula di fronte a un elettorato che aveva osato preferirle Berlusconi, iniziò a rivedere drasticamente il proprio giudizio sugli italiani. Visto che non la votavano, e le preferivano quel cialtrone di Berlusconi, gli italiani dovevano essere un popolo ben arretrato, individualista, amorale eprivodisenso civico. Una teoria, questa, che raggiunse il suo apice, al limite del ridicolo, con l’appello elettorale di Umberto Eco nel 2001, in cui gli italiani che avessero osato votare Berlusconi venivano descritti con un disprezzo ed un semplicismo che, in una persona colta, si spieganosolo conl’accecamento ideologico». 
Accecamento ideologico: per un intellettuale, cioè per colui la cui identità e professione sono le idee, l’accusa peggiore. È anche quella che dipinge meglio l’Eco degli scrittipolitici (chiamiamole pure invettive). Dall’appello firmatonel1971controil «commissario torturatore» LuigiCalabresi - padre deldirettore di quella Repubblica
che ieri commemorava Eco - agli appelli, alle interviste, a certe “Bustine diMinerva” vergateper l’ultimapaginadell’Espresso. L’apice, maanchelateorizzazione che ha dato dignità a tanti deliri del progressismo italiano(vale lapenadi ripeterlo: intrinsecamente razzisti, perché basati sulla superiorità antropologica dell’homo sinistriensis), è proprio l’appello cheRepubblica mise in pagina l’8 maggio del 2001. Tonitruante sin dal titolo: «Non possiamo astenerci dal referendummorale».
LìEcodivideva «l’elettoratopotenziale del Polo» in due. C’era l’Elettorato Motivato, del quale facevano parte «il leghista delirante», «l’ex fascista» e quelli che, «avendo avuto contenziosi con lamagistratura, vedono nel Polo un’alleanza che porrà freno all’indipendenzadeipubbliciministeri Epoic’era l’ElettoratoAffascinato, composto da chi legge «pochiquotidianiepochissimi libri», persone che «salendo intreno comperano indifferentemente una rivista di destra o di sinistrapurché ci siaunsedere incopertina». «Che senso haparlare a questi elettori di off shore », inveiva Eco, «quando al massimo su quelle spiagge esotiche desideranopoter fareuna settimanadivacanza con volo charter?». Criminali e gente in malafede, dunque, assieme a ignoranti lobotomizzati dalle televisioni e da un sogno di benessere a buonmercato. Spiriti meschini, paria del suffragio universale, personaggi che nella democrazia illuminista diEcononavevanodirittoallacittadinanzae probabilmentenemmeno allo status di rifugiato.
Inquella paginaEcoscrisse anche che, se avesse vinto il Polo, «tutti i giornali, il Corriere della Sera, laRepubblica, laStampa, il Messaggero, il Giornale, e via via dall’Unità alManifesto, compresi i settimanali e imensili, dall’Espresso a Novella 2000, sino alla rivista online Golem », sarebbero finitinellemanidello «stessoproprietario», ovviamenteBerlusconi. Il quale, come noto, avrebbe vinto nel 2001 e nel 2008 per trovarseli tutti contro: la previsione dello scienziato socialeEcofu falsificata, ma lo status dell’autore non ne risentì.
Non avrebbe mai cambiato idea. Ripubblicò il testo del 2001 in una raccolta del 2006 (anno in cui ovviamente scrisse anche l’ennesimo appello in occasione dell’ennesimo «appuntamento drammatico» elettorale) e in quell’occasione difese gli insulti che cinque anni prima aveva distribuitosumetàdegli italiani, paragonando se stesso agli intellettuali che resistettero al fascismo: «Come se ai loro tempi si fosse imputato ( si parva licet compo-      

Unamarcia in più nel contaminare l’«alto» e il «basso» 
21 feb 2016  Libero 
Il tratto maggiormente distintivo di Eco, e fors’anche il suo pregio più grande, coincide con quello che, per certuni, era il suo difetto imperdonabile: l’ironia. Ma è stata proprio l’attitudine a trattare con lievità anche lematerie più ardue a dargli unamarcia in più. È stato l’amore senza complessi per la cultura dimassa a fare di lui, accanto all’insigne accademico, un divulgatore capace dicomunicare con ogni strato sociale. Ed è stato il suo sguardo ironico e smitizzante nei confronti del sapere a renderlo più lungimirante e capace di intuizioni seminali. In fondo quel cheha fatto Eco è stato soprattutto combinare tra loro, con spirito fanciullesco, ambiti e contesti apparentemente distanti e inconciliabili: pur consapevole che «Topolino giornalista» non èProust, hamostrato come “alto” e “basso” abbiano innumerevoli punti in comune e possano talora scambiarsidiposizione. A ben vedere sempre teso, lui che (ex ragazzo dell’Azione Cattolica) era pur sempre un uomo segnato dall’aver perso la fede, alla ricerca di un qualche senso che potesse almeno temporaneamente porci al riparo dalla prospettiva delnulla: quelnulla al quale gli uomini usano opporre l’esorcismo del riso, tanto temuto - per il suopotenziale eversivo - daimonaci de Il nome della rosa. Eco ha amato giocare con tutto, anche con ciò che vi è di piùimpegnativo e grave. Consapevole che poche cose sono più serie del gioco. 



Dopo «Ilnome della rosa» è statauna discesa libera 
All’estero la letteratura italiana del ’900 è identificata con i suoi romanzi Ma l’esordio non valePomilio e il resto è pretenzioso e da dimenticare 
21 feb 2016  Libero DAVIDEBRULLO 
Lo ha fatto secco. Ben prima di andarsene all’altromondo, Eco si ètolto la soddisfazione diaccoppare l’amico semiologo Paolo Fabbri. Una specie di vendetta accademica... «Ha ragione. NelNome della rosa Umberto mi raffigura sotto le mentite spoglie di Paolo da Rimini, doctor agraphicus... ». Mi tocca correggerla: «“L’abate Paolo da Rimini, un uomo curioso di cui si raccontano strane storie”, scrive, “conosceva amemoria tutti i libri della biblioteca, ma aveva una strana infermità, nonriusciva a scrivere, lochiamavanoAbbasagraphicus”». «Ciònontoglie chemi fauccideredaun gruppo di briganti». 
Fabbri, che ha conosciuto Umberto negli anni’60aParigi, «aicorsi di Roland Barthes e di Lucien Goldmann», poi gli ha fatto da assistente, all’Università di Firenze, nel 2010, introducendola Fenomenologia di Umberto Eco, ha ideato una specifica filosofia sul successo letterariodiEco. Sichiama «teoria delQuiProQuo», edè, piùvolgarmente, unavariante dotta del «Fattore C». «Tutte le volte che gli è capitato qualcosa di brutto, si risolveva in gloria. Un esempio: l’Università di Torino gli preferisceGianniVattimo, stroncando la pianificata attività accademica di Eco. Lui va in tv. E comincia il suo enorme successo». Se la mettiamo in letteratura, è lo stesso. «In quelcaso s’innesca un altra questione. Fin da giovane Eco entra in Bompiani, diventandone il direttore letterario. Questo gli ha permesso un controllo pressoché assoluto del media-libro. E lo ha aiutato a tradurre la sua roba nelmondo intero». 
Come si sa, Eco ha il merito di aver celebrato le nozze tra Tommaso d’Aquino e Mike Bongiorno. «Aveva un talento stupefacente per la scrittura, va detto; un talento che glipermetteva, anchequando esprimeva concettinon proprio originali, di giganteggiare», dice Fabbri. Sarà. Secondo Mario Guaraldi, l’editore che gli stampa, nel 1972, I pampini bugiardi, «una clamorosa inchiesta sui libri di testoper le scuole elementari e chedue anni fa glieditaMnemotecniche e rebus, nonci sonodubbi: « Il nome della rosa vale di più di mille libri di storia medioevale. Per me èuntesto cruciale, scritto inun’epoca in cui il romanzo storico era visto dagli editori con la puzza sotto ilnaso». Balle. Guaraldiparlada editore, il suo giudizio è viziato all’origine, si sa che l’unico genio narrativo diUmberto Eco è quello di tramutare il verbo in sonori soldoni, è il re Mida delmercato librario, per questo Elisabetta Sgarbi, ha già annunciato che, editorialmente parlando, Ecorisorgerànel catalogo dellaneonata Nave di Teseo con Pape Satàn Aleppe. Il Nome della Rosa non vale una pagina de Il Quinto Evangelio diMarioPomilio, scritto cinque anni prima e di cuipareun’ingenuascopiazzatura; mailcapolavoro di Pomilio, passato per Rusconi e per Bompiani, è rinato, l’anno scorso, permerito del piccolo editore L’orma di Roma: del mastino, pardon, del Guglielmo da Baskerville sonpienigli scaffali di tutto il globo. Perché? Quanto al talentonarrativo diEco, comunque, ha detto tutto Cesare Cavalleri: «Di romanzi brutti e pretenziosi Eco ne ha scrittiparecchi, praticamente tutti: da Il Nome della Rosa (che è il meno brutto, ma il più cattivo) in poi, è tutta una discesa». Proprio così: a Eco gli si perdona (merito della cinematografia) l’errore iniziale, ma lo strazio successivo è eccessivo, ingiustificato. Da Il pendolo di Foucault, un centone che fa della Cabala, dellaMassoneria, dei Templari e delcomplottismounliquore indigesto, a Baudolino, chericalca(superficialmente) i resoconti dei viaggi in Terra Santa, fino a libri francamente ingiudicabili, come L’isola del giornoprima, Lamisteriosa fiammadella regina Loana, e l’ultimo, Numero zero, unabizza senile. Percarità, scrivere brutti libri non è il peggiore dei mali. Ma la considerazione della letteratura italiana nel resto del pianeta ne esce con le ossa rotte. Francamente, essere rappresentati da Eco non è unmotivo di gloria. Scritti sul pensieromedievale. 
Tuttavia, a mio avviso, la sua vera indole filosofica non era quella del “domenicano”, bensìquella del “francescano” Guglielmo daOckhamedel suo nominalismo antimetafisico; di questo vi sononumerosi indizi sia letterariche saggistici. GiànelNomedella rosa e nel distico che ha ispirato il titolo ( stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus) è evidente la frattura tra i “nomi”, le “idee” e le “cose” che inominadovrebberosignificare; inoltre, il nome del protagonista è proprio Guglielmo. Ma la conferma più chiara si trova nel saggio intitolato «L’antiporfirio», nella raccolta Il pensiero debole del 1983 che ha segnato la stagione filosofica italiana. Qui Eco critica la lettura platonica diAristotele chePorfirioavevapropostonell’Isagoge e da cui era nata la nota disputa medievale sugli universali; Eco propende per la soluzione nominalista di Ockham, controquella realistamoderata - platonico-aristotelica - di Tommaso e, come Ockham, ci invita a non moltiplicare inutilmente gli enti, soprattutto quelli ideali.
Non sarà allora che lamisteriosa ragione che ha indotto Eco ad apparire senza la sua caratteristica barba negli ultimi anni sia stato un segreto omaggio al «rasoio diOckham»?

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