venerdì 11 marzo 2016

Dagli amici mi guardi Iddio: l'idealtipo della sinistra liberale anticomunista. Bobbio, Pajetta e il '56


Amici comunisti così tradite voi stessi
Una lettera inedita del 1956. Rispondendo alla madre di Pajetta, dopo la repressione sovietica in Ungheria, il filosofo anticipa la dura critica che articolerà vent’anni dopo inQuale socialismo di Luigi La Spina La Stampa 11.3.16
È un anno drammatico il 1956 per la sinistra italiana. La rivolta degli ungheresi contro il regime filosovietico di Budapest e la repressione dei carri armati russi che la schiacciò brutalmente provocarono un profondo turbamento non solo tra le file del Pci, ma lacerarono quel rapporto di solidarietà, nonostante le profonde diversità politiche, tra comunisti e liberaldemocratici intessuto durante la Resistenza contro il nazifascismo e proseguito nei primi anni del dopoguerra. Una rottura che, pur nel rispetto di persone che si frequentavano da sempre, che avevano condiviso speranze e ideali comuni, non attenuò minimamente la durezza di uno scambio di accuse severe e di giudizi impietosi.
A sessant’anni di distanza, le lettere inedite che qui pubblichiamo, tratte dall’archivio di Bobbio conservato al Centro Gobetti di Torino, scritte da Elvira Pajetta (la madre dei tre fratelli Giancarlo, Giuliano, Gaspare) e da Norberto Bobbio documentano, con una straordinaria efficacia simbolica e con toccanti accenti di profonda sofferenza umana, quella importante e definitiva frattura, intellettuale, politica e morale, tra i due filoni principali del campo di sinistra nell’Italia del Novecento, quello marxista e quello liberaldemocratico.
Per comprendere il clima nel quale avviene questa corrispondenza tra Elvira, maestra elementare ormai settantenne e madre di una famiglia comunista provata, ma mai doma, da vicende tragiche, protagonista di un pezzo importante nella storia del Pci, e Bobbio, l’intellettuale azionista di maggior prestigio nella seconda metà del secolo scorso, ci soccorre Franco Sbarberi. Professore di filosofia politica, sarà lui, con Aldo Agosti, a presentare lunedì il libro che la nipote di Elvira Pajetta, la figlia di Giuliano che porta proprio il nome della nonna, ha scritto per ricordare una straordinaria saga familiare.
«Bobbio e Giancarlo Pajetta», ricorda Sbarberi, «erano entrambi allievi del liceo D’Azeglio e si conoscevano bene, anche se distanziati di qualche anno d’età. Proprio il necrologio che Bobbio scrive sulla Stampa nel 1990, per la morte di Giancarlo Pajetta, parla del suo rimorso per il silenzio con il quale, nel 1927, gli studenti di quel liceo reagirono all’espulsione per tre anni da tutte le scuole d’Italia e alla condanna alla reclusione del loro compagno accusato di professare e di propagandare idee comuniste». Gli anni della Resistenza e quelli del dopoguerra avvicinano le due famiglie torinesi, ma prima la pubblicazione nel 1956 di Politica e cultura, il volume con il quale Bobbio comincia la sua lunga e puntuta critica al comunismo, e poi, in maniera drammatica, i cosiddetti «fatti d’Ungheria» sono destinati a scavare, pur nel rispetto reciproco e nella stima personale, una distanza politica e culturale profonda tra di loro.
«A Torino», rammenta Sbarberi, «c’è una reazione particolare agli eventi ungheresi, stimolata proprio dalla polemica Bobbio-Togliatti seguita a Politica e cultura e dal saggio sullo stalinismo pubblicato su Nuovi argomenti nell’estate del ’56, nel quale Bobbio sviluppa quella critica che, vent’anni dopo, in un periodo completamente diverso, avrà grande eco anche in un vasto pubblico con il libro Quale socialismo.
«L’importanza di questa lettera di Bobbio a Elvira Pajetta», nota Sbarberi, «consiste nell’evidenza con la quale si espongono, sia pure in sintesi, con vent’anni d’anticipo, tutti i famosi sette punti sui quali si fonda la dura critica al comunismo contenuta proprio nell’einaudiano Quale socialismo».

“Non rinunceremo a sognare né ad agire” Egregio Professore,
[...] mi permetto di mandarle un modesto e sincero documento di tempi che paiono insieme lontani e incombenti - perché Lei, così comprensivo, veda attraverso a quali sacrifizi si siano formati uomini che paiono troppo duri forse, ma che duri sono stati specialmente verso sé stessi.
E che oggi a loro voi diate l’aiuto dei vostri consigli, e persino della vostra disapprovazione, voi formati in altri ambienti materiali e intellettuali, sta bene, secondo me, anche se ci addolora, risponde alla dialettica della politica attiva - serve a definire le nuove strade su cui dobbiamo muoverci. Ma che restiamo insieme negli scopi che dobbiamo raggiungere, nella fede in valori umani che debbono trionfare anche se paiono offuscarsi sotto le sollecitazioni di un tempo, alla ferocia e alla guerra.
La lotta è dura in un mondo in cui così raramente «l’action est la sœur du rêve». Non per questo rinunceremo né a sognare, né ad agire - e cercheremo migliorando dall’intimo noi stessi di migliorare che ci sta intorno. Grazie per quel che fa di bene in questo campo della ragione e del pensiero. Mi creda con affettuosa cordialità
Elvira Pajetta

“Perché non avete gridato di fronte ai carri armati?”
di Norberto Bobbio La Stampa 11.3.16
Cara Signora Pajetta,
La ringrazio del libro di suo figlio che ho cominciato a leggere con vivissimo interesse, e di questa una sua testimonianza di amicizia che mi è particolarmente gradita. Mi è grata, lei lo sa, perché ho sempre stimato e stimo tuttora coloro che hanno combattuto, sofferto, affrontato valorosamente la «durezza» di quegli anni.
E li stimo tuttora proprio perché sono convinto che non hanno combattuto e sofferto solo perché Stalin potesse consumare impunito i suoi delitti, e gli abbietti governanti di oggi dell’Unione Sovietica potessero schiacciare nel sangue la rivolta ungherese in nome del socialismo e della pace.
Ma proprio perché io e gli amici che la pensano come me siamo convinti che voi avete combattuto e sofferto per una società migliore e non certo perché potesse trionfare nel mondo un regime in cui la lotta per il potere è condotta unicamente con la violenza e con la frode, in cui capo diventa colui che riesce a impadronirsi delle forze di polizia e appena giunto al potere chiama banditi e traditori i suoi compagni di ieri, attendevamo, noi che siamo stati vostri compagni minori in quegli anni e avevamo fiducia in voi, un grido di rivolta.
Perché non avete gridato? E che cosa aspettate a denunciare l’orrenda mistificazione dei vostri ideali perpetrata dai sanguinari despoti di ieri e di oggi? Non che udire il vostro grido di rivolta, non abbiamo visto le vostre menti sfiorate neppur da un’ombra di dubbio. E come? Potete davvero pensare che il socialismo, che significa emancipazione, possa essere imposto coi carri armati? Potete davvero credere che una nazione abbia il diritto di dominarne un’altra, riconoscere che gli enormi errori commessi nei dodici anni di dominio hanno suscitato la rivolta e poi, invece di correggere gli errori, soffocare la rivolta nel sangue? E questo è il modo di reggere i destini dei popoli soggetti degni di una nazione civile, di uno Stato socialista? E questa è la lotta per la pace dell’Unione Sovietica? Non sentite il suono sinistro che hanno parole belle e nobili come socialismo e pace in bocca a quelli avventurieri?
Avete tante volte rimproverato ai liberali, e a ragione, che non si può essere buoni liberali se non si accetta la libertà come un ideale morale, e la si adopera come un mezzo buono o cattivo a seconda delle circostanze. Permettete ora di rispondervi che non si può essere buoni socialisti se non si accetta il socialismo come ideale morale e si è disposti ad accettare in suo nome tutte le turpitudini che vengono commesse dai vecchi e nuovi capi dell’Unione Sovietica.
Vorrà perdonarmi questo sfogo. Ma non riesco a capire, non riesco assolutamente a capire la rigida fedeltà al partito, alla chiesa, alla setta, alla fazione (la fedeltà del fanatico) sino al sacrificio dei principi per i quali si è combattuto tutta la vita. Oltretutto sono convinto che questa obbedienza senza limiti in cui si è chiuso il vostro partito non possa portare altro che lutti e rovine al movimento operaio italiano.
Accolga i miei devoti e cordiali saluti e mi creda suo dev.
Norberto Bobbio

1 commento:

massimo zanaria ha detto...

Norberto Bobbio mai si dichiarò anticomunista né mai accettò di equiparare l'antifascismo all'anticomunismo. Certo criticò l'intervento sovietico in Ungheria e sempre preferì le liberaldemocrazie occidentali rispetto ai regimi comunisti(Quale socialismo?). Questo non gli impedì di interrogarsi sul futuro della democrazia e della sinistra. Così scriveva a Costanzo Preve:" la democrazia, pur con tutti i suoi difetti, esiste in vari paesi, tanto che è sempre possibile e facile distinguere una democrazia, anche sgangherata come la nostra, da una dittatura. Per quel che riguarda il comunismo, invece, esiste, non l'ho mai negato, un comunismo ideale, almedo da Platone in poi, ma quello che non è mai esistito, e quando si è tentato di farlo esistere, l'effetto è stato disastroso, è il comunismo reale. La democrazia è da correggere, il comunismo è da reinventare" [in Teoria Politica 1/1993].